Manlio Sgalambro: bibliografia

Arte Manlio Sgalambro

Opere

Libri

Manlio Sgalambro, Dal ciclo della vita, Il Girasole, Valverde (CT), maggio 2014

La poesia al massimo – o al limite – decreta, non descrive. Ammirare l’elegia che ci circonda non comporta che tutto educatamente sia ascrivibile o classificabile. Esiste uno status che travalica e connota oltre l’apparente. È facile impaludarsi nel visibile.
Allora, la ricerca che coniuga traversie e intelligenza diventa vestigio siderale. Il linguaggio non può evocare il soffio del decoro. Esso affonda anche nell’impoetico (ma cos’è, poi, tale novero?) per riemergere come trasalimento, attraversando il deserto temporale che incarna per farsi espressione di “detti irreali”.
Questo testo di Manlio Sgalambro è disseminazione di scandagli e dissezioni perenni che, nell’atto stesso in cui vengono celebrati, si ammantano di sortilegi, dovizie, di dolente irrisione. Si allarga il dileggio della “dannazione eterna” che innerva vita e morte come costellazione di scrittura intenta a “scardinare il suono delle parole” in quanto il “ciclo continua” giacché “nell’atto del pensare di dispose il destino”.
— Angelo Scandurra

Manlio Sgalambro, Variazioni e capricci morali, Bompiani, Milano, dicembre 2013

Manlio Sgalambro torna a difendere con passione la centralità del pensiero, dell’impegno morale che è per l’uomo l’unica bussola nei mari burrascosi della contemporaneità. Rifiutando le soluzioni preconfezionate della filosofia, Sgalambro percorre i confini dell’intelletto e si diverte a esplorare le contaminazioni dell’anima razionale con il corpo e l’amore. Moderno passeggiatore solitario, cosmopolita e amante del paradosso e delle citazioni, si confronta nel suo cammino con i grandi del passato, si accompagna a Hegel, evita accuratamente Socrate e Nietzsche. La scrittura, come una partitura musicale, procede così tra variazioni, capricci e contrappunti fino a lambire la soglia dell’illuminazione individuale, testimonianza di un pensiero forte, profetico, coraggioso.

Manlio Sgalambro, L’illusion comique, Le Farfalle, Valverde (CT), marzo 2013

Se vai a fondo di ogni individuo tu ne scorgi l’essenza teatrale. Si è, forse? Solo bevitori di birra che vedono dappertutto l’‘essere’ possono travisare così le cose. Si recita!

Manlio Sgalambro, Della misantropia, Adelphi, Milano, maggio 2012

«I più alti spiriti, se così vogliamo chiamarli, sono stati misantropi» osserva Sgalambro in questo suo ultimo libro. «L’Idea» infatti «è raggiungibile solo in uno stato di misantropia. Il misantropo non vede più l’uomo, la cui carne detesta, ma l’Idea dell’uomo». Scortato da questo presupposto, il filosofo prosegue qui il suo cammino solitario attraverso una filza di brevi trattati: da quello che dà il titolo al volume a Teoria del delinquente («In realtà il delinquente rappresenta l’Essere di cui si parla, nei palazzi del sapere, in maniera altisonante»); da Moraletta sulla teologia, «apologia del teologo, ma del teologo infedele», a Intransigenza e clownerie del saggista, sorta di autoritratto filosofico-letterario; da Dialoghetto tra Epicuro e Colote, che dietro l’ap­parenza del divertissement offre una purissima gemma speculativa, al vibrante Il discepolo («Nessuno deve entrare in una filosofia se non è disposto, almeno come possibilità, a non lasciarla per tutta la vita»), a De gubernatione, che delinea una critica del governare: «Non ci può essere offerta politica se non per coloro che non hanno niente, e che quindi non possono ‘rappresentarsi’ da sé».

Manlio Sgalambro, Marcisce anche il pensiero. Frammenti di un poema, Bompiani, Milano, settembre 2011

Marcisce anche il pensiero è uno spaccato temporale – l’ultima mezz’ora della sua vita – del filosofo Immanuel Kant. Un grande evento per un’opera letteraria insolita e forte, come il suo autore. Sgalambro si misura con un linguaggio dai mille strati, memore della potenza dantesca. I suoi versi sono intrisi di citazioni letterarie, filosofiche, storiche, di frasi e vocaboli classici e stranieri, e in apparente contraddizione, di azioni, gesti e comportamenti quanto mai quotidiani, di dotte terminologie sposate a un turpiloquio drammatico, per dire e ridire tragicamente il male e il bene, l’alto e il basso, il nobile e l’ignobile, che sono il luogo dell’umano, quel luogo descritto o anche solo sfiorato in cui si agisce, si sente, si vive e, troppe volte, si sopravvive. Sgalambro è poesia oggi.

Manlio Sgalambro, Nell’anno della pecora di ferro, Il Girasole, Valverde (CT), aprile 2011

L’anno della pecora di ferro, secondo un antico calendario cinese, è quello del declino e dell’imbarbarimento. La stessa poesia diventa impoetica, un gesto laringo-buccale.

Manlio Sgalambro, L’impiegato di filosofia, La Pietra Infinita, settembre 2010

Manlio Sgalambro, Del delitto, Adelphi, Milano, luglio 2009

«Se è vero che le vicende della sua vita sono parte integrante dell’importanza di Socrate, si deve comunque dare tutto il rilievo possibile al fatto che egli morì assassinato» dichiara perentoriamente Manlio Sgalambro. Tuttavia Platone «omette pietosamente quella parola», e dal canto suo Nietzsche afferma – certo a ragione – che «Socrate volle morire». Ma chi desidera morire, osserva Sgalambro, «si trova intrappolato in una insana contraddizione», giacché nello stesso tempo vuole vivere. E così fu anche per Socrate, che delegò infatti il compito a un «benefattore» (euergetikós) – così egli definì l’assassino – e con ciò introdusse una volta per tutte nella filosofia la figura dell’omicida. Eppure la speculazione filosofica ha per lo più evitato di porsi le domande cruciali che ne derivano: quale mistero cela il delitto in se stesso? Chi è l’assassino nella sua essenza? Domande che invece non teme di affrontare qui Sgalambro, tenace esploratore delle zone impervie del pensiero, spingendo lo sguardo verso quel punto dove l’espressione «“L’uomo è mortale” non significa in primis che “l’uomo muore” – insigne banalità concettuale –, ma che l’uomo è datore di morte».

Manlio Sgalambro, La conoscenza del peggio, Adelphi, Milano, marzo 2007

«All’uomo non conviene considerare, riguardo a se stesso e riguardo alle altre cose, se non ciò che è l’ottimo e l’eccellente; e inevitabilmente dovrebbe conoscere anche il peggio, giacché la conoscenza del meglio e del peggio è la medesima» dice Platone in un passo del Fedone. Tuttavia, aggiunge Sgalambro, la filosofia si è invece legata strettamente solo al «meglio», tanto da identificarvisi, e lo stesso Platone non ha affrontato minimamente la conoscenza del peggio che raccomandava. Vi è stato, certo, un «pessimismo che si assunse il compito di avere a che fare col pessimum, ma passando attraverso la sofferenza», e facendoci pagare i lugubri stati d’animo del pessimista, mentre «solo dopo il dolore» compare il vero pessimismo. Verso quest’ultimo, dunque, non può che condurci un «fanatico della verità» come Sgalambro – e il «metodo pessimistico» sarà lo strumento conoscitivo di chi, come lui, «è stato gettato in pasto al pensiero». Un metodo che Sgalambro, filosofo asistematico per eccellenza, trasmette qui con il libero flusso di un pensiero erratico capace di suscitare inattese accensioni nella mente del lettore. Ma per tornare sempre, lungo un percorso le cui diversioni compongono in realtà un disegno di grande coerenza, al tema dominante, fulcro di un’opera filosofica fra le più notevoli dei nostri tempi.

Manlio Sgalambro, Quaternario. Racconto parigino, Il Girasole, Valverde (CT), novembre 2006

Questo racconto si svolge tra piccoli trattati, aforismi e pensieri “oscuri”. Sullo sfondo si intreccia una vicenda tra il “narratore” e uno spirito affine. L’autore, in questo libro, rievoca la propria visione del mondo, per sensazioni ed emozioni, attraverso una scrittura appassionata.

Manlio Sgalambro, Trattato dell’empietà (2ª edizione), Adelphi, Milano, maggio 2005

«Osservare freddamente Dio – caldamente, lo fu già abbastanza». Per questa impresa, che è già in sé un’empietà, Sgalambro si è scelto come invisibili protettori quei grandi teologi dimenticati, come Suárez o Melchor Cano, che sapevano trattare di Dio con cupa professionalità. Qui, come ancora in Spinoza e in Schopenhauer, Dio torna a essere il mondo nella sua profonda estraneità, nella sua avversione al soggetto, che attacca fino a ucciderlo, nella sua controfinalità. Mentre oggi la filosofia dei disincantati è diventata almeno altrettanto consolatoria della filosofia dei bigotti, e per essa, alla fine, tutto va bene perché tutto è ugualmente infondato, il fosco sguardo del teologo fa risorgere il mondo quale alterità nemica, quale rocciosa resistenza al pensiero, quale catena delle cause che stringe in una morsa, «come una costrizione fisica».
Per praticare questo superiore «cinismo teologico» non occorre devozione, fede e sentimento, ma la capacità di guardare attraverso un vetro tentando di vedere il vetro, l’arte di «pensare contro se stessi», di avvolgersi nella vita della mente come nell’unica vera che ci sia concessa. Si traccia così una teologia non religiosa, oggi possibile «come ieri le geometrie non euclidee». E le figure del passato – si tratti di Proust o di Plotino, di Warburg o di Mauthner, di Renan o di Hegel – vi appaiono impigliate in un nuovo ordine di rapporti, che è illuminante. Un pensiero di questa specie non può che essere solitario all’estremo e risultare impenetrabile per chi è fedele all’«oscurantismo dell’illuminismo». Ma la superba asprezza di questo libro apparirà salutare a chiunque rifugga quei «tiepidi» che costituiscono gran parte della filosofia contemporanea.

Manlio Sgalambro, De mundo pessimo, Adelphi, Milano, giugno 2004

«Nello spirito vi sono ancora continenti da conquistare, scoperte e grandi viaggi» si legge in una delle pagine di questo libro, dove sono raccolti scritti che Sgalambro definisce con brillante sprezzatura «‘parerga’ che precedono, anziché seguire, un sistema ancora inesistente». E il viaggio cui ci invita – «scalando le vette della metafisica e buttandosi poi giù a capofitto» – è più aspro che mai. Da Sgalambro, d’altra parte, il lettore si aspetta non già un sistema, ma schegge vulcaniche, che qui si presentano sotto forma di brevi trattati: da De mundo pessimo (in cui la vulgata pessimista viene sottoposta a una critica radicale, in modo da sottrarre al pessimismo quel «troppo umano» concernente solo la ‘vita’ e individuare così il pessimum della totalità) al Dialogo sul comunismo (dove si oppone alle concezioni correnti l’idea di un «comunismo metafisico»); da De cœlo (in cui Sgalambro torna sui temi che innervano la Morte del sole, il libro che lo rivelò) a Della filosofia geniale (dove, muovendo da Schopenhauer, «si pone il problema se la filosofia non debba essere sottratta all’università e restituita al “genio”») a Contro la musica (nel quale si prendono le distanze dalla tradizione concettuale che fa capo a Bloch e Adorno per gettare le basi di «una critica dell’ascolto») – per concludere con una Lettera sull’empietismo e su un recente progresso della teologia, che riprende e sviluppa uno dei motivi fondamentali del pensiero di Sgalambro. «Scricchiola in qualche modo l’impalcatura che il mio spirito si è dato in tutta la vita» dice l’interlocutore del filosofo nel Dialogo. E non saranno pochi a condividere questa percezione.

Manlio Sgalambro, Opus postumissimum. (Frammento di un poema), a cura di Silvia Batisti – Rossella Lisi, Giubbe Rosse, Firenze, 2002

Manlio Sgalambro, Trattato dell’età, Adelphi, Milano, settembre 1999

A partire da Cicerone, il tema della senilità ha sempre ispirato opere provvidamente consolatorie o delicatamente elegiache. Nella nostra epoca, votata all’idolatria della giovinezza – reale o apparente –, si preferisce eluderlo o ignorarlo. In questo aspro, spregiudicato Trattato dell’età Sgalambro ne fa invece il centro di una vibrante riflessione sul perenne disgregarsi delle cose arrecato dall’opera del tempo – poiché la vecchiaia è il «tempo duro e orribile, dove però si annida, assieme ad altri, il segreto dell’età».
Implacabile osservatore, incisivo e corrusco nella potenza delle immagini, Sgalambro sviluppa in poche, densissime pagine – sovvertendo molti fondamenti della speculazione corrente – le linee di una «metafisica dell’età» che diventerà lo specchio in cui si riflette la temibile sembianza della vecchiaia, oggettivazione dell’essenza distruttiva del mondo.

Manlio Sgalambro, Nietzsche. (Frammenti di una biografia per versi e voce), Bompiani, Milano, gennaio 1998

Questi frammenti catturano il lettore e lo trascinano in un universo personalissimo, affollato di rimandi letterari e filosofici, di immagini lunghe un solo verso, di incanti improvvisi e altrettanto fugaci innamoramenti, di parole e di suoni, di lirismo e ironia, in un continuo e apparentemente inesauribile vortice musicale. La lettura di Nietzsche è un’esperienza di immersione totale: la musicalità dei versi, l’evocazione continua di suoni, personaggi, il fascino di un mondo incantato e cristallizzato in un’immagine di nervosa armonia fanno di questo poema sull’ambiguità dell’esistere e su coloro che hanno tragicamente pensato tale ambiguità, un unicum nel panorama culturale italiano.

Manlio Sgalambro, Teoria della canzone, Bompiani, Milano, gennaio 1997

La sfida, in filosofia della musica, non nasce dal confronto sdegnato tra arie, rondò, lieder e canzonacce… “Ma tra ciò che si pretende eterno e ciò che si sfascia la sera stessa”. Se la cifra di questo secolo è la brevità (intesa come morte dello Spirito e dei suoi attributi “eterni”) solo la canzone riesce a inseguirla e a raggiungerla, essa di brevità se ne intende. Per essere attendibile la “filosofia della nuova musica” deve fondarsi sulla musica cosiddetta leggera: “la musica leggera sarebbe costruita con gli avanzi della musica”, nella Teoria della canzone “non si vuole scaricarla di questi attributi, ma capire perché essa vuole essere proprio così”. La canzone è un occhio puntato contro questo secolo: “come uno gnostico il batterista… punta l’arma e spara direttamente contro il cielo… Dio ci pesta a dovere e noi gli cantiamo in faccia”. Con questo sorprendente “libretto” Sgalambro torna a quel pensare breve in cui è maestro. Aforismi tesi come lucidi plettri di chitarra.
La “filosofia della nuova musica” abbandona i polverosi salotti e si butta nella mischia di un concerto rock.
Proprio così: leggendo questo libro mi è sembrato di vedere, come durante un’esecuzione di Bach, un elegante signore tra il pubblico fare un cenno a se stesso con la testa, spolverarsi i pantaloni, alzarsi in piedi, e tirare fuori una chitarra elettrica.
— Ottavio Cappellani

Manlio Sgalambro, La morte del sole (2ª edizione), Adelphi, Milano, marzo 1996

In questo libro parla un filosofo di cui non sapremo fino all’ultimo a quale scuola appartenga. Ma subito percepiamo il suo timbro: è un pensiero che ci offre il suo stile prima ancora dei suoi concetti. Vagando fra gli imponenti relitti della storia della filosofia, Sgalambro risale alla celebrata conversione del «vero» nel «certo», che si compie con Descartes – e, con freddezza protocollare, riconosce nei passi successivi la graduale cancellazione dell’«unilateralità scandalosa del vero». Insieme al «vero», nel suo baldanzoso avanzare, la filosofia progressiva tendeva a sbarazzarsi del «mondo», in quanto origine di quel terrore da cui la filosofia era nata e che ormai la macchiava soltanto. La transizione dall’illuminismo all’idealismo appare allora come il passaggio da un tentativo di guardare il mondo senza terrore a una risoluzione di abolire il mondo stesso, mentre il terrore intanto continua a crescere. La «prassi» infatti – ora adorata come un tempo l’Uno – non riesce a nascondere la visione che, a poco a poco, la scienza svela: quella dell’universo disincantato come di un immane mostro, acefalo e caotico, avvicinabile soltanto nell’ostile linguaggio dei numeri. Da allora, scrive Sgalambro, il «lutto matematico» avvolge le cose. Così si sviluppa, nella seconda metà dell’Ottocento, l’ossessione della «morte del sole», condannato dalla termodinamica, «spietata erede dei problemi della ‘salvezza’». La morte termica prende il posto dell’eschaton redentore. Il fantasma del sole in agonia si avventa da un futuro cosmico sul secolo della civiltà trionfante e lo paralizza in un tableau vivant della catastrofe. Per Sgalambro, questo quadro diventa lo sfondo di un magistrale tentativo di morfologia della décadence. Il suo è un procedere per incursioni rapidissime, non solo fra le grandi ombre di Kant, di Spinoza, di Schopenhauer, «voce dell’ultima filosofia cosmologica dell’Occidente», ma in tutto il frastagliato terrain vague del moderno, dove troviamo – quali altrettanti guardiani della soglia – Poe e Proust, Warburg e Simmel, Benn e Spengler. Sulle loro pagine, come su una Vanitas ingombra di oggetti abbandonati e lucenti, si posa lo sguardo complice dell’allegorista saturnino. Mentre con asprezza, con staffilante sarcasmo Sgalambro osserva il motore indefesso del nostro mondo, la macchina anonima di un «pensiero, che da quando è il più reale – in quanto fare, creare, produrre – non ha più realtà» e oggi assiste alla più desolata delle scene: non già alla deprecata «crisi dei valori», ma al loro squallido realizzarsi. A quel pensiero si contrappone, prima ancora che un pensiero avverso, un’altra percezione: quella del Roderick Usher di Poe, immagine di coloro «ai quali qualcosa di improvviso ha restituito il senso della realtà» e nell’indistinto fruscio della città mondiale odono l’eco del rumore originario: «La filosofia moderna ha inizio col dubbio, ma la filosofia eterna ha inizio col terrore».

La morte del sole apparve nel 1982 e fu allora definito da Rolando Damiani «un libro nuovo e incontaminato, di un pensatore duro e lucente come diamante, che guarda la verità in viso senza infingimenti né calcoli, non aspettandosi nulla e niente avendo da perdere».

Il cavaliere dell’intelletto, opera in due atti di Manlio Sgalambro, musica di Franco Battiato, Sonzogno, Milano, luglio 1995

Manlio Sgalambro, La consolazione, Adelphi, Milano, giugno 1995

Da molto tempo la filosofia tace – quasi ne fosse imbarazzata – sull’argomento della consolazione, così come trascura ostinatamente la figura del consolatore. Questi temi, tuttavia, benché spinti per comodità nei recessi più appartati, lontani dalla speculazione corrente, hanno continuato a informare occultamente il pensiero, tanto che forse non sarebbe illegittimo «riscrivere la storia della filosofia moderna dal punto di vista della consolazione». Se la vetta più alta della morale è la compassione, in virtù della quale un individuo riconosce se stesso nell’altro e agisce di conseguenza, il consolatore non prova che assoluta indifferenza nei riguardi dell’afflitto. Ma è proprio questa indifferenza a permettere il passaggio dalla compassione alla consolazione: «A me non importa nulla di te, ma solo così ti posso consolare». Al pari del cinico seduttore che, freddo come un rettile, finge l’amore dicendo ed eseguendo esattamente tutto ciò che schiude il cuore, così il consolatore mima la bontà con gesti artefatti. Le parole, le carezze di entrambi sono posticce, di cartapesta, nondimeno assolvono il loro compito, perché «c’è un inganno di cui, primo fra tutti, si rallegra mestamente l’ingannato».
In questo libro piccolo e denso, che ha la struttura di un trattatello, il pensiero viene indagato come dai grandi seicenteschi venivano indagate le passioni: nei suoi moti segreti, nella sua miseria e nella sua grandezza. Alla fine del percorso, che attirerà chiunque preferisca i sentieri aspri ai confortevoli itinerari accademici, il consolatore apparirà dunque «un truffatore, ma in senso superiore», e la consolazione si rivelerà come il contrassegno di quell’«età del gesto» preconizzata da Kant in cui, esaurite le risorse dell’agire, non rimarranno che le virtù taumaturgiche della parola.

Manlio Sgalambro, Dialogo sul comunismo, De Martinis & C., Catania, maggio 1995

La ‘comunione’ della ricchezza materiale va in frantumi contro le parole di Malebranche: «Due uomini non possono nutrirsi d’uno stesso frutto, o abbracciare uno stesso corpo…». Il comunismo di Sgalambro è volto alle disparità metafisiche, alle disuguaglianze ontologiche, a ciò «… per cui uno è un genio e l’altro un parassita dell’essere… per cui uno è buono e l’altro malvagio…».

Manlio Sgalambro, Dell’indifferenza in materia di società, Adelphi, Milano, settembre 1994

C’è un idolo dinanzi al quale i contemporanei, anche delle più opposte convinzioni, si mostrano bigotti: la società. Tutto viene ricondotto alla società quasi fosse la barriera ultima, oltre la quale non si distingue ciò che pure sarebbe forse più essenziale: la vita e la morte, il bene e il male, la felicità e l’infelicità. Come dando licenza a una furia a lungo repressa («Come si pronunciò un tempo, con orrore, “stato di natura”, così mi trovo a dire, con pari orrore, “stato di società”»), Sgalambro ha voluto, con questo pamphlet, scendere in mezzo alla «società» di cui tanto si parla per analizzare di che cosa è fatta. Sferzante, caustico, dichiaratamente provocatorio, ha così enunciato, con argomenti lucidi e appuntiti, le ragioni del suo dissociarsi da un amalgama politico-sociale dove la ricerca ansiosa della mediocrità va unita al desiderio di disprezzarla, in un circolo vizioso che permette di garantirsi con poca fatica una immeritata buona coscienza. La forma è diretta e bruciante, ma in filigrana si riconoscono i lineamenti di una «filosofia solitaria» che molti lettori hanno scoperto con ammirazione in questi ultimi anni.

Manlio Sgalambro, Contro la musica, De Martinis & C., Catania, marzo 1994

Un rozzo ascoltatore, senza ethos alcuno, si è impadronito della musica (come una volta si diceva che la musica si impadroniva dell’ascoltatore). Essa lo segue ipnotizzata e sprigiona suoni dai suoi stessi fans. Dalle loro orecchie spalancate suona la musica che essi vogliono ascoltare.

Manlio Sgalambro, Dialogo teologico, Adelphi, Milano, marzo 1993

Sgalambro definisce questo scritto «una piccola macchina che smonta il concetto di Dio sino al suo scheletro». Diviso in due parti – la prima di soliloquio, inteso come «via regia della filosofia», e qui dedicato a un insolente e vigoroso autoritratto speculativo, che poi si diparte in «falso dialogo» -, questo breve testo sembra uscire dalle pieghe più nascoste della teologia medioevale, là dove l’ossessiva attenzione a quella «massa d’essere» che è chiamata Dio aveva fatto crescere le piante avvelenate dell’avversione e della diffidenza: in breve, aveva allevato l’empietà all’ombra della scienza di Dio. Sgalambro rovescia brutalmente alla luce questo remoto e tenebroso passato con un gesto quanto mai moderno, possibile soltanto a partire da Schopenhauer – e che colpisce ben più a fondo le molli filosofie secolari oggi diffuse per il mondo che non l’aspra e antica sapienza teologica. «Ma uomo giusto è chi sa questo: che egli deve ‘annullare’ Dio quotidianamente affinché la misura dell’eterna giustizia quotidianamente si compia».

Manlio Sgalambro, Del pensare breve, Adelphi, Milano, maggio 1991

La peculiarità del pensiero di Sgalambro non è forse mai apparsa così chiaramente come in questo libro, che si presenta come un «cervello messo a nudo», una rete di nervi speculativi, un monologo notturno, continuamente spezzato, fatto di rapide accensioni del pensiero, prima che torni alla sua tenebra naturale. Il contrario della verbosità sistematica, che pretende dalla realtà di essere «una volta per tutte pensiero». Qui invece pezzi sconnessi della realtà diventano pensiero «volta per volta». L’effetto è sconcertante e dà una scossa salutare. Il «metodo ipocondriaco» spregiato da Hegel come qualcosa che, nel migliore dei casi, potrebbe nascondere un «talento poetico», ma non speculativo, viene qui rivendicato ironicamente come il «sangue blu» del pensiero. Quanto al «talento poetico», ne testimonia la tensione della prosa, inconfondibile nella sua mescolanza di pathos e sarcasmo.

Manlio Sgalambro, Anatol, Adelphi, Milano, gennaio 1990

Anatol, la voce che parla in questo libro, è una mente che si racconta. Non accumula episodi. Disegna i tratti sghembi di un personaggio che ormai «un numero incredibilmente piccolo di individui» conosce: il filosofo. Come apparirà? «Pacifico, con l’aria di un conciapelli in vacanza … eppure i segreti del mondo passano per le sue mani». Subito l’aria trema di un sarcasmo violento. Questo filosofo è quanto di meno conciliante possiamo immaginare. Con lui torniamo a sentire «quel che di cupo e fatale c’è in fondo a ogni idea». Quale funzione si attribuisce? Riscrivere Il mondo come volontà e rappresentazione di Schopenhauer, «senza cambiarne una riga», con un solo corollario: che il mondo è rappresentazione di una rappresentazione. «Riteneva che era più esaltante ridire che inventare». Però, se vogliamo sentire qualcosa che ci fa sussultare per la sua novità, a proposito di parole abusate o impossibili come tecnica o bello o bene, apriamo le pagine di questo libro… E ricordiamo: «La filosofia genera mostri e non toilettes de circonstance».

Manlio Sgalambro, Del metodo ipocondriaco, Il Girasole, Valverde (CT), aprile 1989

Il pensiero breve accompagna il tedio del vivere in un modo sinistro. «L’aforisma è l’uso pessimistico della scrittura». Pensare dunque è un rapido lasso, un angoscioso intervallo, mentre la macina della vita esegue il suo perfetto piano. Il metodo ipocondriaco finisce col dividere ogni problema in tante parti minori per meglio risolverlo, dando ragione a Descartes. Ma così capitò. L’autore non se l’era proposto.

Manlio Sgalambro, Trattato dell’empietà, Adelphi, Milano, ottobre 1987

«Osservare freddamente Dio – caldamente, lo fu già abbastanza». Per questa impresa, che è già in sé un’empietà, Sgalambro si è scelto come invisibili protettori quei grandi teologi dimenticati, come Suárez o Melchor Cano, che sapevano trattare di Dio con cupa professionalità. Qui, come ancora in Spinoza e in Schopenhauer, Dio torna a essere il mondo nella sua profonda estraneità, nella sua avversione al soggetto, che attacca fino a ucciderlo, nella sua controfinalità. Mentre oggi la filosofia dei disincantati è diventata almeno altrettanto consolatoria della filosofia dei bigotti, e per essa, alla fine, tutto va bene perché tutto è ugualmente infondato, il fosco sguardo del teologo fa risorgere il mondo quale alterità nemica, quale rocciosa resistenza al pensiero, quale catena delle cause che stringe in una morsa, «come una costrizione fisica».
Per praticare questo superiore «cinismo teologico» non occorre devozione, fede e sentimento, ma la capacità di guardare attraverso un vetro tentando di vedere il vetro, l’arte di «pensare contro se stessi», di avvolgersi nella vita della mente come nell’unica vera che ci sia concessa. Si traccia così una teologia non religiosa, oggi possibile «come ieri le geometrie non euclidee». E le figure del passato – si tratti di Proust o di Plotino, di Warburg o di Mauthner, di Renan o di Hegel – vi appaiono impigliate in un nuovo ordine di rapporti, che è illuminante. Un pensiero di questa specie non può che essere solitario all’estremo e risultare impenetrabile per chi è fedele all’«oscurantismo dell’illuminismo». Ma la superba asprezza di questo libro apparirà salutare a chiunque rifugga quei «tiepidi» che costituiscono gran parte della filosofia contemporanea.

Manlio Sgalambro, La morte del sole, Adelphi, Milano, aprile 1982

In questo libro parla un filosofo di cui non sapremo fino all’ultimo a quale ‘scuola’ appartenga. Ma subito percepiamo il suo timbro: è un pensiero che ci offre il suo stile prima ancora dei suoi concetti. Vagando fra gli imponenti relitti della storia della filosofia, Sgalambro risale alla celebrata conversione del «vero» nel «certo», che si compie con Descartes – e, con freddezza protocollare, riconosce nei passi successivi la graduale cancellazione dell’«unilateralità scandalosa del vero». Insieme al «vero», nel suo baldanzoso avanzare, la filosofia progressiva tendeva a sbarazzarsi del «mondo», in quanto origine di quel terrore da cui la filosofia era nata e che ormai la macchiava soltanto. La transizione dall’illuminismo all’idealismo appare allora come il passaggio da un tentativo di guardare il mondo senza terrore a una risoluzione di abolire il mondo stesso, mentre il terrore intanto continua a crescere. La «prassi» infatti – ora adorata come un tempo l’Uno – non riesce a nascondere la visione che, a poco a poco, la scienza svela: quella dell’universo disincantato come di un immane mostro, acefalo e caotico, avvicinabile soltanto nell’ostile linguaggio dei numeri. Da allora, scrive Sgalambro, il «lutto matematico» avvolge le cose. Così si sviluppa, nella seconda metà dell’Ottocento, l’ossessione della «morte del sole», condannato dalla termodinamica, «spietata erede dei problemi della ‘salvezza’». La morte termica prende il posto dell’eschaton redentore. Il fantasma del sole in agonia si avventa da un futuro cosmico sul secolo della civiltà trionfante e lo paralizza in un tableau vivant della catastrofe. Per Sgalambro, questo quadro diventa lo sfondo di un magistrale tentativo di morfologia della décadence. Il suo è un procedere per incursioni rapidissime, non solo fra le grandi ombre di Kant, di Spinoza, di Schopenhauer, «voce dell’ultima filosofia cosmologica dell’Occidente», ma in tutto il frastagliato terrain vague del moderno, dove troviamo – quali altrettanti guardiani della soglia – Poe e Proust, Warburg e Simmel, Benn e Spengler. Sulle loro pagine, come su una Vanitas ingombra di oggetti abbandonati e lucenti, si posa lo sguardo complice dell’allegorista saturnino. Mentre con asprezza, con staffilante sarcasmo Sgalambro osserva il motore indefesso del nostro mondo, la macchina anonima di un «pensiero, che da quando è il più reale – in quanto fare, creare, produrre – non ha più realtà» e oggi assiste alla più desolata delle scene: non già alla deprecata ‘crisi dei valori’, ma al loro squallido realizzarsi. A quel pensiero si contrappone, prima ancora che un pensiero avverso, un’altra percezione: quella del Roderick Usher di Poe, immagine di coloro «ai quali qualcosa di improvviso ha restituito il senso della realtà» e nell’indistinto fruscio della città mondiale odono l’eco del rumore originario: «la filosofia moderna ha inizio col dubbio, ma la filosofia eterna ha inizio col terrore».

Collaborazioni

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Omaggi

Libri

Antonio Carulli, Sgalambro materialista. Gentile, Leopardi, Sciascia, Cioran, La Scuola di Pitagora, Napoli, giugno 2022

Manlio Sgalambro fu dentro quel tramonto della cultura siciliana di cui parlò Giovanni Gentile? Fu materialista e irreligioso come voleva Sciascia fossero i siciliani o ateo come – a torto – ancora si ritiene e non piuttosto empio come si definiva? E il suo teologo irregolare è l’erede dell’inquisitore ucciso di quello? V’è un illuminismo in Sgalambro? Lo stratonismo di Leopardi agisce ancora su di lui?
A queste ed altre domande – decisive per l’esatta collocazione critica del filosofo di Lentini – non teme di rispondere Carulli, nell’ennesimo capitolo della lunga e difficile ricostruzione critica della figura del pensatore siciliano.
Conclude il volume un’ulteriore riflessione sul senso della sua attività di “paroliere”: che le visioni di Sgalambro e Battiato furono giustapposte, nient’affatto fuse, contrariamente a quanto si è continuato a leggere con la morte del musicista di Riposto.
Acclusa al volume, la postfazione di Piercarlo Necchi lumeggia il rapporto tra Sgalambro e l’illuminismo radicale, materialista e ateo, del barone d’Holbach.

Roberto Fai – Luca Farruggio – Rita Fulco – Caterina Resta, Essere contemporanei della fine del mondo. Saggi su Manlio Sgalambro, a cura di Rita Fulco, Mimesis, Milano, aprile 2022

«Contemporanei della fine del mondo» è espressione che Sgalambro utilizza in più luoghi per definire la condizione degli esseri umani. Il fatto che il genere umano, nell’attimo, remoto eppure già da sempre attuale, della “morte del sole”, scomparirà nel suo insieme costituisce l’orizzonte costante del suo pensiero. A partire da questa incontrovertibile certezza, occorre avere il coraggio di una verità intollerabile: tutto è già da sempre destinato alla distruzione. Questa verità, che il filosofo Sgalambro assume con i toni sprezzanti dell’indignazione e della rabbia, ma anche con quelli più pacati, ma non meno aspri, del cinico disincanto, costringe a un radicale mutamento di prospettiva. Il pensiero, ultima roccaforte in cui trincerarsi, in tutte le sue declinazioni – la teologia, l’etica, la politica, l’estetica – deve trarne le dovute conseguenze. Confrontarsi con questa «filosofia del terrore», radicale fino all’estremismo, esacerbata fino al livore, comunque urtante, è quanto provano a fare i saggi raccolti in questo volume, tentando di mostrarne anche un ulteriore risvolto, quello di un disperato e inappagabile desiderio di assoluto.

Patrizia Trovato – Antonio Carulli – Piercarlo Necchi – Manuel Pérez Cornejo, La piccola verità. Quattro saggi su Manlio Sgalambro, Mimesis, Milano, luglio 2019

Può darsi pessimismo senza voltare le spalle all’essere e alla filosofia tradizionalmente intesi? Sgalambro fu veramente un filosofo intellettualmente isolato? Come amare Spinoza e allo stesso tempo capovolgerlo radicalmente? Come considerare l’attenzione di Sgalambro alla musica, prima dell’incontro con Battiato e a prescindere da quello? A cinque anni dalla morte dell’autore questo volume intende rispondere a questi e ad altri interrogativi altrettanto cruciali attorno all’unico vero grande “caso” della filosofia italiana della seconda metà del Novecento, rifacendosi unicamente a una solida base storico-filosofica.

Antonio Carulli, Introduzione a Sgalambro, Il Melangolo, Genova, settembre 2017

Nella forma apparentemente piana di una biografia intellettuale, in quella che si presenta come la prima monografia esaustiva su Manlio Sgalambro a tre anni dalla morte, l’autore ne svela le origini e gli inizi del cammino di pensiero, ricostruisce il paesaggio filosofico nel quale si compì la sua formazione, ne illustra e discute le vette speculative toccate nelle opere maggiori come La morte del sole e il Trattato dell’empietà, ne segue gli sviluppi attraverso una paziente collazione degli articoli di giornale e rivista fino agli esiti degli ultimi libri filosofici e poetici, delineando in modo chiaro e distinto le posizioni del pensatore siciliano sul Vero, il Bene e il Bello, vale a dire negli ambiti della metafisica, dell’etica e della politica, dell’estetica. Quello che ne risulta è un vibrante “esercizio di ammirazione” che non si sottrae al compito di segnalare le debolezze e i limiti del filosofo che rovesciò uno dopo l’altro con indiavolata lucidità alcuni tra i principali fondamenti inconcussi del pensiero occidentale.
— Piercarlo Necchi

Manlio Sgalambro. Breve invito all’opera, a cura di Davide Miccione, Lettere da Qalat, Caltagirone (CT), marzo 2017

Singolare figura di pensatore, personaggio capace di evocare l’antica figura del filosofo quale si presentava prima della cattività accademica e al contempo di flirtare con il pop più spudorato, Manlio Sgalambro attende ancora chi possa ritrarlo nella sua sorprendente personalità.
Questo agile volume che brevemente esplora l’opera di Sgalambro come filosofo, teologo, poeta e librettista, si pone su questa strada come passaggio necessario per comprenderne l’ancora misconosciuto discorso. Tra idiosincrasie, compiacimento della propria inattualità e lavoro sulla scrittura, queste pagine presentano un viaggio nel pensiero di uno dei pochi contemporanei che non ha temuto di pensarsi solo come filosofo.
Testi di Davide Miccione, S. Ivan D’Agostino, Giovanni Miraglia e Cosimo Cucinotta.

Salvatore Massimo Fazio, Regressione suicida. Dell’abbandono disperato di Emil Cioran e Manlio Sgalambro, Bonfirraro, Barrafranca (EN), ottobre 2016

Questo libro, chiude la tetralogia della nuova tesi filosofica del nichilismo cognitivo, di cui Salvatore Massimo Fazio è fondatore. Una totale sconfitta ricavata dalla perdita di qualsivoglia valore. Una resa che nel paradosso faziano punta ad umiliare i guitti, che nel teatro della politica sociale sono riusciti ad ingannare qualunque padre di famiglia, facendosi garantire il voto di fedeltà e poi, ottenuti i propri successi, si sono rivoltati come disconoscitori della società.
Partendo dalla sinéité in Cioran e procedendo col terrore in Sgalambro, nelle pagine di questo libro, si effettua una seduta chirurgica, volta a sezionare la stupidità dell’uomo per ricompattarla, trasformandola in un’unica azione possibile: regredire nel concetto di suicidio.
Si intenda bene, un suicidio che è una retroazione sino ad arrivare al momento della venuta al mondo, ripartendo con l’esperienza del ricordo, rammemorazione, per poi agire senza più altre riflessioni e scandalose umiliazioni subite: “puntare alla coscienza, risvegliarla e spedire al diavolo chi osa governarci e insultarci”.
Un omaggio, quello più alto, con il quale Fazio – partendo dal lirista Cioran e dall’empio (credente, per poterlo essere) Sgalambro – senza alcuna tensione e non anarchicamente, rigetta il mondo: il luogo migliore per inetti peggiori.

Caro misantropo. Saggi e testimonianze per Manlio Sgalambro, a cura di Antonio Carulli e Francesco Iannello, La scuola di Pitagora, Napoli, giugno 2015

Con questo volume, ad un anno dalla scomparsa, si dà l’avvio alla ricognizione critica della figura di Manlio Sgalambro (Lentini 1924 – Catania 2014). L’obiettivo è quello di stabilire il luogo dell’attività multiforme del grande autore, percorritore di strade inusitate e impervie: se la filosofia del Novecento italiano fu crociana, marxista ed heideggeriana, Sgalambro la attraversò come un cristallo alieno.
Alla filosofia contemporanea, che avrebbe ribadito la confusione del pensare con le altre discipline, egli oppose la lucidità del pessimismo. Imperterrito fustigatore della banalità, Sgalambro ha sempre fatto mostra di una singolare forma di comprensione superiore delle cose, alla cui luce – confrontandosi con ciò che il tempo miserabile offriva – ha denunciato i tratti di un universo in rapido peggioramento. La crisi della Forma, l’impossibilità di ogni prassi o morale operativa, il congedo progressivo dal concetto assoluto di verità: sono alcuni dei temi su cui ha indagato per più di mezzo secolo con un’attività multiforme, ma dal centro filosofico inalienabile.

Con i contributi di:
Rolando Damiani, Sergio Quinzio, Mario Andrea Rigoni, Pino Aprile, Franco Rella, Maurizio Cosentino, Antonio Carulli, Patrizia Trovato, Marcello Faletra, Fabio Presutti, Calogero Rizzo, Massimo Iiritano, Giuseppe Pulina, Mariacatena De Leo, Luigi Ingaliso, Pietro Barcellona, Giuseppe Testa, Francesco Iannello, Antonio Contiero, Domenico Trischitta, Marco Iacona, Massimiliano Perrotta, Gianluca Magi, Alan Magnetti, Giordano Casiraghi, Antonio Mocciola, Alessio Cantarella, Angelo Scandurra, Giuseppe Condorelli.

Manlio Sgalambro. L’ultimo chierico, intervista a cura di Rita Fulco, Mesogea, Messina, aprile 2015

Manlio Sgalambro, in quest’intervista del 2004, risponde alle domande con il consueto tono, istrionico e drammatico a un tempo che, tradotto in scrittura, scolpisce le pagine attraverso un linguaggio d’incompatibile espressività. «L’ultimo chierico», contemporaneo alla fine del Quaternario, pronuncia parole come «dardi di vipera e denti di lupo»: sulla Sicilia, la filosofia, la politica; sulla figura del vecchio, «concrezione del tempo», sulla poesia, sulla musica.
All’intervista segue il saggio che la curatrice, Rita Fulco, ha voluto dedicare alla febbrile tendenza a pensare del suo interlocutore, filosofo-chierico-teologo.

Fabio Presutti, Deleuze e Sgalambro. Dell’espressione avversa, a cura di Marina Guerrisi, Prova d’Autore, Catania, febbraio 2012

Lina Passione, La notte e il tempo. Divagazioni su Franco Battiato, Manlio Sgalambro e… altro, prefazione di Enrico Fubini, C.U.E.C.M., Catania, maggio 2009

Mariacatena De Leo – Luigi Ingaliso, Nell’antro del filosofo. Dialogo con Manlio Sgalambro, Prova d’Autore, Catania, marzo 2002

Francesco Saverio Nisio, Comunità dello sguardo. Halbwachs, Sgalambro, Cordero, Giappichelli, Torino, agosto 2001

Il libro si propone di leggere, come compito filosofico e politico dell’attualità, alcune questioni aperte dall’impiego congiunto di termini quali «massa», «bontà», «comunità». Il metodo seguito è quello del dialogo pluridisciplinare, nel quale volta a volta vengono interrogati: il parlare «contro» la morte del cineasta dei mille sguardi, Godard, e di un filosofo, Sgalambro, nella compagnia di Spinoza, Wittgenstein e antichi maestri cinesi; la sociologia «etica» di Maurice Halbwachs; la scommessa sul diritto di Cordero negatore. Dal confronto degli sguardi emergono figure della comunità quali il cinema e la memoria, il canto e il diritto. Al centro di queste forme di vita c’è la parola, il gioco della lingua e le sue metamorfosi. Seguendo la lezione di Canetti, è questo il gioco che salva la possibilità della speranza, indirizzando la ricerca «cittadina» verso la costituzione di una soggettività molteplice e plurale, non subordinata all’«ordine del comando».