L’esistenza di DIO
Riccardo Sgalambro, Mio padre
Buonasera, io sono Riccardo Sgalambro, sono uno dei sei figli di Manlio, l’unico maschio e il più piccolo. Sono nato nel 1973, quando mio padre aveva quarantotto anni, quindi il mio giudizio risente di tale differenza. Sicché l’esperienza che ho di mio padre parte dalla fine degli anni Settanta. Mio padre era un uomo gentile ma anche severo. Ricordo che negli anni successivi alla pubblicazione de La morte del sole era lui a preparare il pranzo visto che la mamma provvedeva alle cose della pratica. Eravamo tanti e tante erano le esigenze. Credo che in quegli anni, i primi anni Ottanta, mio padre stesse guardando l’abisso.
Ogni giorno dopo il suo severo rintanarsi nello studio, mi invitava verso le diciassette a fare una passeggiata. Abitavamo a Catania, in una piazza del centro. Mi prendeva a braccetto anche se non avevo nemmeno dieci anni d’età, e camminavamo lenti. Mi sentivo come un allievo e lui infilava due o tre concetti in ogni passeggiata. Era disagio per me però, non riuscivo a sostenere la gravità di quei suoi discorsi né, evidentemente, a comprenderli a pieno, ne coglievo certo la stranezza, l’insolito. Arrivavamo, a poca distanza da casa, ad un’altra piazza, quella intitolata a Giovanni Verga che tra l’altro ospita il tribunale, brutto edificio come la gran parte dei tribunali in Italia, e ci sedevamo ad una panchina. Si restava lì a volte laconici per dieci minuti e poi percorrevamo, esattamente al contrario, il tragitto che avevamo compiuto all’andata. Proponeva sempre uno sguardo originale sulla realtà. Ricordo un gioco, che riempiva il silenzio, l’ascolto dei discorsi dei passanti che incrociavamo, li componevamo insieme, forzandoli solo un po’, venivano fuori robe assurde e divertenti.
Oggi direi che mio padre fosse chiuso nella condizione del chierico, pur essendosi a tratti calato nel reale; citerei Julien Benda con il suo Il tradimento dei chierici che non a caso sottendo: «Ogni esistenza che persegue solo un bene spirituale o si afferma sinceramente in un universale, si pone fuori dal reale».
Vista l’oggettiva soggettività nella quale mi muovo da figlio, vorrei alla fine di questo mio intervento tornare a sedere tra chi vuole ascoltare le tesi proposte a determinare il significato del testo scritto da mio padre e fatto suo da Franco Battiato. Solo una cosa, credo fortemente per quanto riguarda mio padre, che Dio sia un concetto e quindi materia fertile per lo scrittore di filosofia, come amava definirsi lui stesso.
Venendo al tema di quest’incontro, voglio ringraziare Paolo Jachia e Alice Pareyson autori di Franco Battiato. La cura edito da Fabio D’Ambrosio Editore; ringrazio poi Alessio Cantarella, memoria storica sgalambriana; Piercarlo Necchi e Antonio Carulli, che alimenteranno la già nutrita interpretazione del testo della canzone L’esistenza di Dio facente parte dell’album di Franco Battiato, L’ombrello e la macchina da cucire.
Piercarlo Necchi, Per la critica del commento di Paolo Jachia alla canzone di Battiato-Sgalambro “L’esistenza di Dio”
Premessa
Le osservazioni critiche che seguono presuppongono e si riferiscono al commento di Paolo Jachia alla canzone di Battiato-Sgalambro L’esistenza di Dio (in Franco Battiato, L’ombrello e la macchina da cucire, 1995), presente nel volume di P. Jachia-A. Pareyson, Franco Battiato. La cura. 27 canzoni commentate 1971-2015, Fabio D’Ambrosio Editore, Milano 2016, pp. 106-112.
Quæstio
Nelle Facoltà di Teologia delle università medievali, la quæstio su Dio («Si Deus est an non / Quid est Deus») non era una questione tra le altre, ma – senz’altro – la questione. Qui, più modestamente, in questione saranno la concezione di Dio e l’atteggiamento verso Dio che emergono dalla canzone di Battiato-Sgalambro L’esistenza di Dio. E se a Paolo Jachia – in quanto Autore del commento – tocca necessariamente la parte del ponens, a me è toccata invece accidentalmente la parte dell’opponens. Agli altri ospiti intervenuti, il compito di dare eventualmente la determinatio magistralis e la soluzione.
A titolo di premessa, mi pare importante sottolineare che il testo della canzone L’esistenza di Dio è effettivamente costituito (come giustamente nota e ampiamente illustra Jachia) da un «montaggio / collage» quasi-dadaista di frasi / brani delle opere teologiche di Sgalambro pubblicate al momento dell’uscita dell’album L’ombrello e la macchina da cucire (in particolare il Trattato dell’empietà, 1987, e il Dialogo teologico, 1993). Ora, tra le canzoni dell’album, questa è decisamente quella più sgalambriana, più legata al mondo (teologico) del solo Sgalambro e – di conseguenza – la meno «battiatiana», meno connessa ai mondi e alle avventure (spirituali) di Battiato –, mentre il libro di Jachia-Pareyson è esplicitamente un libro su Battiato e su Sgalambro in relazione a Battiato, non su Sgalambro in quanto Sgalambro.
Disputatio
Le proposizioni di Jachia che accuso sono le seguenti:
1. «La canzone allude al fatto che vi sono due strade per “immaginare Dio”. La prima è un percorso razionale e scientifico e la seconda propone una traiettoria mistica e teologica. È la seconda prospettiva, quella mistico-teologica, che ci propongono Battiato e Sgalambro..» (p. 107);
2. «(…) la comprensione dell’Esistenza di Dio (…) non deve essere un procedimento esclusivamente razionale. (…), ma, al contrario, deve essere in grado di utilizzare anche immagini-concetti apparentemente contraddittori (…)» (p.107-108). E, qui, l’Autore prosegue con l’immagine di Dio come «pietra infinita», che pare considerare – in quanto tale – contraddittoria;
3. «(…) il dettato complessivo della canzone è polemico. e (pare di capire) l’accusa principale è quella di aver trasformato Dio in un “cadavere”, in qualcosa di stupidamente ottuso. Ben diversa la prospettiva di Sgalambro. certo condivisa da Battiato.» (p. 108).
Come cercherò di mostrare, in questo modo, almeno la comprensione della teologia dell’empietà di Sgalambro viene mancata. Infatti:
Ad 1. Che la teologia di Sgalambro sia una teologica mistica non sta né in cielo né in terra. La teologia di Sgalambro è/vuole essere una teologia naturale/razionale, che regredisce intenzionalmente addirittura al razionalismo dogmatico/dogmatismo teologico pre-kantiano. Dio è un «termine tecnico», il Principio, l’Origine, Dio è un Ente, è il Mondo ecc.: è questa la concettualità di Sgalambro in theologicis. Qualsivoglia sentimento o «afflato» mistico cosiddetto, sono qualcosa da cui il gelido Sgalambro rifugge come la peste. Niente a che vedere con le tentazioni/fascinazioni per i mistici di un Cioran. La posizione di Battiato è un’altra storia, senz’altro, ma – appunto: in questo testo è Sgalambro, e solo lui, che «parla». Perché poi Battiato abbia condiviso parole come queste è un mistero che solo il compositore/cantautore potrebbe svelare.
Ad 2. Sulla questione della «pietra infinita». Qui emerge in modo chiaro e distinto la distorsione della prospettiva interpretativa in cui cade Jachia. L’Autore cita infatti un passo di Dialogo teologico nel modo che segue: «“Dicono che egli (Dio) è sale, stella, fuoco, acqua, vento, rugiada, nube, persino roccia e pietra”. (….) Ricordi ciò che sostiene Ockham? Dio differisce dalla pietra perché questa è finita. Ma io (teologo) ti dico: dobbiamo immaginare una pietra infinita…» (p. 46). Il problema è che, dalla citazione, Jachia espunge proprio l’espressione fondamentale nella quale è dato cogliere il senso del discorso e del concetto di Dio di Sgalambro – ovvero: «Queste parole di Dionigi l’Areopagita esprimono nel loro stesso incalzare la pesanteur di Dio: ecco ciò che ti dico: Dio è Peso..» Ecco il punto: la «pesantezza» di Dio, questa immane «massa d’essere» che – appunto come una «pietra infinita» – schiaccia l’individuo e ne fa poltiglia (vedi poi, nell’ultimo Sgalambro, il concetto di Dio come «Annientante» e l’attribuzione a Dio dell’epiteto di homicida ab initio). L’unico sentimento che, in questa situazione, può essere provato verso Dio è la sensazione di una insopportabile «costrizione fisica». Qui, in questione parrebbe esservi solo la classica distinzione tra l’ente finito (la creatura) e il Sommo Ente Infinito (Dio), ma la scelta dell’immagine della pietra non è né casuale né neutrale: la pietra – archetipo del corpo contundente – è qualcosa che schiaccia e distrugge. Quello che Sgalambro vede è – per così dire – l’insostenibile pesantezza di Dio. Ma Jachia vuole invece scorgervi l’esempio di una teologia non esclusivamente razionale, ma immaginativo-fantastica, capace di servirsi di immagini-concetti contraddittori («pietra infinita») per fare segno all’infinita distanza di Dio dalle capacità di comprensione della mente umana, rimuovendo in questo modo il tratto fosco e corrusco, radicalmente critico-negativo, dell’empietismo sgalambriano.
Ad 3. Qui si trova il fraintendimento più grave. Se riguardato dalla prospettiva di Sgalambro, il «dettato della canzone» non può assolutamente essere «polemico». Jachia – in un momento di perplessità o di prudenza – scrive tra parentesi «pare di capire». Sed contra. Sgalambro non è contro la cupa professionalità del teologo e quella che si potrebbe definire la sua «anatomo-teologia / teologia anatomica» che tratta Dio come un «cadavere» sul tavolo da «dissezione». Che, sotto i ferri di un Suárez o di un Cano, Dio si trasformi in un insecte, a Sgalambro piace / dà piacere intellettuale. «Osservare freddamente Dio» è (fin dall’incipit del risvolto di copertina del Trattato dell’empietà) l’intentio fondamentale del suo pensiero. Infine: per Sgalambro, Dio è (veramente) un Ente stupidamente ottuso (come una pietra appunto). L’«ente infimo», appunto, del quale il teologo empio prova tedio, fastidio, disprezzo e infine odio. Et amen.
Da ultimo. Penso che Jachia sia stato fuorviato dai primi due versi della canzone, dove si dice «Giovane teologo non fare / come in rue de Fouarre», lasciando intendere, in questo imperativo rivolto al giovane teologo di non fare come i teologi della Sorbona, una presa di distanza polemico-critica rispetto alla grande Scolastica del Medioevo. Il problema – ancora una volta – è che Jachia non riporta / tace completamente i due versi seguenti, nei quali – a mio parere – sta la chiave di tutto. Il testo prosegue infatti così: «dove si produceva amore / si produceva per Dio». Se il giovane teologo non deve fare come alla schola della rive gauche è perché, nelle sue aule, il fine ultimo era quello di produrre «amore per Dio», di generare amor Dei nell’anima pia / devota del discente / fedele / credente, in vista del fine ultimo della salvezza e della beatitudine, della perfetta unio con il Principio. Proprio quello che il teologo empio – pervaso da un radicale odium Dei e alla ricerca della separazione della mente da Dio – non può apprezzare né accettare e che, di conseguenza, il giovane teologo deve astenersi dal fare. Tantum est.
Postilla
Sulla possibile interpretazione-della-interpretazione di Jachia mi riservo di tacere o di intervenire in un altro momento.
Antonio Carulli, L’enigma della commissione
Vorrei spostare la questione con questo mio intervento su un terreno altro rispetto a quello della conciliabilità di Battiato con Sgalambro. Anzi, lo dico subito, in maniera diretta, sulla loro inconciliabilità sostanziale. Più che di una intersezione, credo la loro collaborazione possa essere intesa come una giustapposizione. Secondo un teorico del liberalismo era l’egoismo del singolo venditore a fare le fortune della società più che un generico «altruismo». Nel perseverare ognuno verso il proprio obiettivo, ciascuno ha fatto sì, prestando la parte più o meno nobile della propria produzione, che grande fosse l’esito complessivo delle quattro mani.
La collaborazione di Sgalambro e Battiato ripropone quello che possiamo definire l’«enigma della commissione». Cosa significhi essa è meritevole di interrogazione: dovesse l’artista limitarsi ad eseguire le indicazioni del committente la sua attività sarebbe identica a quella dell’ultima delle maestranze; dovesse fare di testa sua il destinatario della commissione il signore sarebbe preda della fraudolenza di un artefice scatenato. Né tantomeno si potrebbe pretendere dalla commissione l’esecuzione di un lavoro identico alle centinaia di altri che lo hanno preceduto: la «serie» ammazzerebbe l’opera d’arte, il suo miracolo che deve compiersi qui e ora, la mano d’artista diversa eppure riconoscibilissima che crea di sana pianta come pure riutilizza materiali di risulta di cui all’improvviso non sapeva più che fare… Discorso che si complica ulteriormente qui se pensiamo al fatto che il committente è artista a sua volta. Si reduplicano le gerarchie e neppure si ripropone la dialettica secondo cui il padrone è servo del suo servo. Né servo né padrone qui, ma forse ancora una volta nemo contra se nisi Deus ipse. Battiato contro Sgalambro, e viceversa, e ciascuno di essi contro se stesso a propria volta.
Uno sguardo rapido allo spazio che il pontefice ti concede, la tua idea, le sue idee, un labile punto di incontro – ma proprio su questa labilità si regge la grandiosità dell’intera operazione di commissione – e la realizzazione che tiene conto di ciò che eri ma anche di tutto ciò che ti serve per non esserlo più e incontrare i desiderata dell’altro. La commissione – vedi Caravaggio – prevede anche il rifiuto della pala d’altare che offri e il rifacimento di un dettaglio perché il diniego sia superato. I piedi sporchi dei pellegrini o la gravidanza di una prostituta presa a Madonna – accettati – non possono farci gridare allo scandalo dell’eterodossia del committente ecclesiastico; la liquidità dell’ultimo Tiziano non ne sbugiarda le convinzioni compositive precedenti.
Ogni discorso intorno alla necessità di forzare una «quadra» non tiene. A distanza ci si segue a dovere, e ci si capisce. A distanza l’uno dall’altro, come pure da se stessi. Cambiare per l’altro o in se stessi nel corso del tempo, non depone a favore di uno «snaturamento» della propria sostanza.
Credo questo sia il modo migliore per non incorrere in quella collezioni di luoghi testuali potenzialmente infinita perché Sgalambro – la sua visione delle cose – risulti conciliabile con Battiato e viceversa.
Ad un luogo testuale invece farò riferimento, quello contenuto in un vecchio cofanetto Einaudi, se non ricordo male, che ritrae Battiato in copertina di nero vestito, dove Sgalambro scriveva del fatto che due veri amici tacciono e nella distanza possono dirsi e dare in pasto alla Forma tante di quelle cose che le parole evidentemente devono sconoscere.
Ho sempre avuto la netta impressione che l’uno ignorasse veramente cosa l’altro avesse detto: il filosofo non poteva «capire» veramente in fondo le ragioni del pop, e il musicista le asperità tecniche del filosofare. Filosofo e cantore dovevano stare evidentemente come il cuore e la mente di Pascal: incomprensione reciproca che ritma lo splendore dell’uomo. D’altronde, come l’uno doveva risultare per forza di cose estraneo all’altro – età anagrafica e percorsi umano-intellettuali del tutto differenti –, ognuno doveva risultare apparentemente inconciliabile a se stesso: il Battiato delle canzonette non poteva intendersi come mero prosecutore dello sperimentalista, come pure lo Sgalambro paroliere non poteva disconfermare la sua attività di pensatore. Sarebbe – come dire – rinfacciare a colui il quale dichiarava di preferire l’insalata a Beethoven la successiva pratica della musica classica e al pessimista funereo la scrittura di testi come quello secondo cui il vivere sarebbe un dono che ci avrebbe fatto il cielo.
Caro Jachia e cari tutti, non fa questione qui il punto dove l’uno e l’altro possano incontrarsi, come dici nel tuo – e di Alice – documentatissimo volume; non fa qui questione che possano incontrarsi nella loro irregolarità di teologi, ma nella loro straordinaria normalità di camminatori di sentieri paralleli, dove l’uno poteva ignorare dell’altro in marcia – forse – verso una stessa direzione.
Alessio Cantarella, Sgalambro e l’esistenza di Dio
L’esistenza di Dio
Nel sistema teologico di Sgalambro l’esistenza di Dio è una «puerile idiozia». Essa è ignobile e va considerata solo come un «fattarello sinistro». Niente di più.
La pietra infinita
Dio non appare divino, ma ciò che vi è di più basso. Dio è de trop, è un oggetto, è un attributo positivo, è un ideale, è la pesanteur della «pietra infinita» di Ockham: «Dio ci pesta e noi gli cantiamo in faccia!».
Terminus technicus
Il nome di Dio è un insulto… è il termine tecnico che gli ingenui chiamano «essere». Dio si dà tutto in esteriorità e non ha interno, è volgare, è una costrizione fisica, è detestabile, è il più infimo grado dell’essere. Dio non sa di esistere e se lo sapesse si odierebbe.
Odium Dei
Solo l’odium Dei ci riempie la vita: attraverso il dolore che proviamo nel vedere il mondo in un «disordine mostruoso», sentiamo la gioia di avere in ordine la nostra mente. Sappiamo chi siamo, da dove veniamo e dove andiamo, ma, in fin dei conti, abbiamo la garanzia di una verità unilaterale: «davanti a Dio abbiamo sempre ragione».
The end of the world
Dio è il mondo – «questo dannato mondo» –, ma è anche la sua origine e la sua fine: è spregevole per natura (come ogni origine) e uccide tutto ciò che è «altro».
Bobok
L’ultima volta che andai a trovarlo, mi parlò di un piccolo libro di Dostoevskij, nel quale sono narrati i dialoghi fra i morti sepolti in un cimitero. Alla fine del racconto, uno di questi personaggi si chiede: «Come mai noi qui parliamo? Infatti siamo morti e tuttavia parliamo; sembra pure che ci muoviamo, e tuttavia non parliamo e non ci muoviamo?! Che giochetti sono questi?». Un altro defunto cerca di spiegare la faccenda: «Quando eravamo ancora vivi, erroneamente, consideravamo la morte di lassù come morte. Sembra invece che qui il corpo, in un certo senso, si vivifichi; i residui della vita si concentrino, ma solamente nella coscienza. La vita, non so come spiegarvi, continua come per inerzia… C’è qui, per esempio, un tale che si è completamente decomposto, ma, una volta ogni sei settimane, ancora tutt’a un tratto borbotta una sola paroletta, naturalmente insensata, su un certo bobok: “bobok, bobok”. Anche in lui, dunque, la vita palpita ancora come una scintilla impercettibile».