Sgradevoli possessioni

Manlio Sgalambro
ℹ️ Cronache Parlamentari Siciliane, dicembre 1992, pp. 29-30 (Intellettuali e politica)

«Pas un mot ne me vient aus lèvres qui n’ait d’abord été dans mon cœur».

André Gide, Œdipe

Conseguenze assicurate
«Chi conosce la catena delle conseguenze, misura la grandezza della responsabilità». Così si legge nell’Ethik di Nicolai Hartmann, opera dura e insopprimibile. Ma ogni previsione allarma i responsabili della morale che si tutelano. Il mandato dato da coloro che agiscono, scambiano, perseguono profitti e progressi, ossia da coloro i quali, e per i quali, nasce il bisogno di un’etica, è esplicito.
La responsabilità, intesa veramente, frenerebbe l’azione: in breve tutti risulteremmo ladri e assassini. Man mano dunque che si afferma il dominio di quelli che intendono agire senza impacci di sorta, se non il minimo indispensabile, la morale che li rappresenta si libera da ogni punto di appoggio che non può aversi, come suddetto per loro conto, «né in cielo né in terra» ma sono nell’intenzione «qualunque siano le conseguenze». Gli esecutori del mandato truccano dunque diretto le azioni dalle conseguenze. Bentham, che le calcola puntigliosamente, passa per uno spudorato. La responsabilità integrale è roba da regno dei cieli, mentre quella minima, quella legale, è assicurata.

Attorno all’amore fioriscono leggende
Oggi forse non si pronuncia più tanto questo termine casalinghe e senza tetto lo seguono sugli schermi. Sì, l’amore è per i poveracci, per quelli che non hanno niente e frugano nella spazzatura dei sentimenti in cerca di un osso.
Il filosofo si tormenta attorno alla ricerca della verità, come suole pensare l’insipiens, ma attorno a quella verità che lo possiede e che lo sbatte da tutti i lati e lo scrolla lasciandolo stanco e mortificato. Cos’è la verità? La domanda non merita nessuna risposta.
Ho io una visione delle cose abbastanza precisa e stringata? Posso insomma dire, se me lo chiedono un bambino o fannullone, qual è la mia favola? Ho una precisa idea della tolleranza da quando ho appreso queste parole, molto tolleranti, di Voltaire, «pardonnons-nous réciproquement nos sottises» (Dictionnaire philosophique, Tolérance). Non so cosa sia la libertà. Sono uno dei pochi. Non riesce più a venirmi alla mente il nome di Marcel Proust. È la vendetta della memoria contro il mondo. Mi tormenta sempre più spesso il problema del bene. Vedo ogni mio tentativo sperdersi per oscuri meandri. Ne seguo i fili intrigati, con pena e pazienza. Un mio atto che si potrebbe chiamare buono lo pedino, come uno scaltro detective, perché voglio sapere dove va a finire, con chi si vede. Spesso mi sono trovato con sbigottimento e rimpianto davanti al danno che avevo fatto. Pensare: io non so perfettamente cosa significhi. Però lo faccio. O no?
Quando mi capita di leggere che gli aforismi sono come uno schiaffo smetto di farne per qualche tempo. La sola idea di spingere la mia intimità con un altro sino a toccargli la faccia mentre gli do un ceffone mi inibisce.
«Nessun licenziato ha saputo creare una dinastia» (e neanche nessun filosofo). De Maistre giudica ciò misterioso e ambiguo. È ciò che credo anch’io. Avevo deciso di non leggere più Trakl. Avevo deciso che le nostre vie si dividevano e che l’addio, seppure doloroso, lo sarebbe stato per sempre. Ma poi la dolce costrizione della sua poesia agì a distanza. Più lo ignoravo, più dimenticavo i suoi versi, più i suoi suoni mi si affollavano dentro. Avveniva come una specie di possessione, sgradevole. Da quando leggo di nuovo Trakl, me ne curo di meno.
Tra le mie esperienze intellettuali, metto tra le prime quella del principio di causa. Dei filosofi mai mi ha trattenuto eccessivamente la loro individualità. Quanto piuttosto ciò a cui essi avevano messo mano, il modo come lo avevano costruito, le attenzioni date ai dettagli, insomma quello da cui si vede un buon operaio, la sua maestria: l’opera. Per mia vergogna devo dire che non ho avuto, ad esempio, alcuna ammirazione giovanile per Nietzsche, né tanto meno ne ho ora. Mi sono sforzato di raggiungere qualche punto dei suoi più noti concetti facendomi largo attraverso una certa riluttanza per l’uomo. Ammiro insomma il concetto di eterno ritorno ma non il suo autore. Così la mia venuta della filosofia si riempie di cose, considerando così queste costruzioni perenni, e si svuota di uomini. L’imperativo categorico, il Bene, il concetto di causa, il principio di non contraddizione… questa è la filosofia nel suo insieme. Non mi si parli di Kant, o di Platone o di Aristotele, per favore. Frequentare essere umani in gran numero e a lungo mi intossica. Avverto i sintomi che sono soliti in questo caso. Occhi arrosati, starnuti in continuazione, un tanfo persistente sotto le nari, il fegato saltato e in ultimo ponfi che mi coprono tutto il corpo. Insomma una intossicazione da esseri umani. Così avviene talora del mio pensiero. Come se avesse urtato contro il mondo va in frantumi e solo pezzi ricadono, malridotti, su di me. Tuttavia io li raccolgo.

Antropologia minore
Alla fine del secolo scorso, così esaltante per «l’uomo», i suoi simili puzzavano anche se l’odore femminile, in pratica la flora delle ascelle, faceva impazzire. In Francia, andava dicendo Vacher de Lapouge, la maggior parte delle donne morivano senza avere fatto un bagno. Tra le tante cose che l’uomo perderà poi col progresso mi sarà il suo odore. La sua affinità con gli animali, oggi affidata ai loro diritti, alle effusioni e alla pubblica assistenza per i cari cugini, per allora testimoniata dal sudore di capra e dall’Origine della specie. Non era poco!
Unire carne e idee, questo voglio anche da un rapido abbraccio. Il problema dell’incarnazione mi ricorda che ciò che si incarnò era il Logos. Questo voglio dalla donna conquistato: non ti suoi soli pomidori ma anche, ripeto, che mi parli del problema della verità.

Frequentatore di biblioteche
Le lunghe attese gli sono concesse dal destino. In quei momenti il suo spirito assorto si rifà del perduto tempo. Le bieche facce di chi consegna i libri, stanche mani di villani, o quei tozzi volti di chi li consulta ma ne è lontano, non sono con lui. Ma è come se volesse scoraggiarlo dal proseguire e gli indicano la porta. Ma poi un lampo dorato, un dorso ammiccante, il titolo ambito, frutto di una attesa, cioè di una parte della sua vita già così scarsa, ridestano l’ostinazione e a capo chino si tuffa nella lotta. Più tardi tutto è finito. E quando esce, esce riconciliato. Se la Musa è venuta a visitarlo e ha messo da parte un piccolo bottino, cambia il vento e i volti li vede sorridenti, alacri, e da ogni punto spira un’aria di amicizia.

Biblioteca circolante
Entri nella biblioteca circolante, diffidente. Ti pare d’entrare in una maison tolérée d’altri tempi. La signora che ti viene incontro truccata e sorridente ha del lascivo. Ti inviterà a letto, ma ti dirà prima il prezzo? Tutto ciò che ti puoi portare in camera sarà un libro oppure estrema audacia fino a tre, se paghi beninteso. Questo ti rasserena.
Il denaro ti salva da ogni timidezza e ti restituisce ai tuoi nervi e alle tue letture.

La biblioteca è uguale per tutti
Questa l’austera scritta che mi sembra di leggere all’entrata. Essa dice che tutti i libri sono uguali alla cultura. La biblioteca realizza questa eguaglianza e rende giustizia al libro ignoto, o al più modesto di essi trattandolo come gli altri. Sarà spolverato egualmente, perseguitato il reo se viene rubato. E comprato a suon di quattrini come l’altro. Poiché tutto ciò mi sembra losco e ingiusta questa giustizia, sogno che i libri vengano dispersi ai quattro venti, che non ci sia nessun luogo che li conservi e solo il fato li conduca a questo o a quello per le vie che esso sa.

Sala di lettura come vita
Si ritrovano qui, davanti ai libri, tipi che puoi vedere al mercato o davanti alle vetrine dei negozi. Uno studioso non sembra più distinguersi e nessuno è più nessuno di lui quando è nella sala di lettura. Le pagine scorrono davanti ai suoi occhi ed egli sminuzza concetti, divora emozioni, incolla ragionamenti e visioni mentre per il resto è immoto, fermo come una statua. Sala di lettura come vita. Tornerà domani. To-morrow and to-morrow and to-morrow
Condivido la tesi dell’eterno ritorno. Perché si intenda che ciò che ritorna, ritorna ogni volta meno di prima. Come segni volta ne diminuisce la vitalità e vi fosse un ultimo ritorno che equivalesse al nulla. Attraverso il ritorno, tedioso malinconico, le cose perderebbero a poco a poco ciò che la prima volta li contraddistinse, ne confermerebbero tutti i tratti ma non la vita. Come se una cosa, un’epoca, un’opera si ripetessero ma ogni volta perdendo qualcosa, pur negli immutati tratti. E in ultimo tutto. In ciò vediamo abbozzarsi un’altra teoria del nulla, più credibile. Le cose si ripeterebbero, ogni volta sempre più di meno – s’intende nell’energia che le anima – pur rimanendone eguali i tratti. Poi crollerebbero tutte di colpo. Per giri concentrici, sempre più stanchi, arriverebbe in fine il desiderato nulla.
Dove non ci sono buoni bordelli, non ci sono buoni salotti.

Del ritratto
L’assenza di ritratti è il ritratto del nostro tempo. Esso rispecchia oggi quel «nessuno» che l’individuo, senza voler lo, vuole essere. Mentre la facies pubblica, già per conto suo, mi ha cancellati i tratti e impresso la medesima fisionomia. Il ritratto non ha mai avuto anima, credo. Oggi non ha neanche volto. Esso mostra proprio questo: che il volto con la più importanza. Ma la sua scomparsa è la spia della condizione dell’uomo odierno che mira, nei fatti, all’indistinzione mentre se ne rammarica. Tutti le stesse facce, aveva pronosticato Hegel. Anche il volto è vanità.