Meditazioni provinciali

Meditazioni provinciali è stata una rubrica a cura di Manlio Sgalambro, apparsa sul quotidiano La Sicilia, con frequenza irregolare, da gennaio 1988 a ottobre 1991. Di seguito riportiamo tutti gli articoli.

Manlio Sgalambro, La natura e la grazia del pensiero, La Sicilia, 5 ottobre 1991

La natura e la grazia del pensiero

Sulla grazia del pensiero
Spengler scrive di se stesso (che senso strano ha tutto ciò!) «Sono un vigliacco. Sono inerme e abbandonato. Ancora oggi soltanto l’abitudine a comportarmi con apparente sicurezza verso l’esterno mi dà un minimo di protezione. Ho paura di affittare una casa, di aprire una lettera, di scrivere qualcosa (a parte quando lo faccio istintivamente, senza pensarci, come se la cosa venisse da sé). Ho paura di incontrare gente, delle donne (non appena si spogliano), e di ogni presa di posizione nei confronti del mondo esterno»… Questo essere misero e pavido è lo stesso eroe che scrive Il tramonto dell’Occidente. Lo scalatore di vette inaccessibili, l’acuto aquilotto, insomma Spengler, è questo schifo! La grazia del pensiero non perfeziona la natura ma la toglie di colpo e vi si sostituisce.

Non lasciamole divertire…
Con candore e astuzia insieme Renan scrive: «Man mano che le speranze dell’al di là scompaiono, bisogna abituare questi esseri effimeri a vedere la vita come sopportabile; senza di ciò essi si rivolteranno… Il pessimismo e il nichilismo hanno per causa la noia di una vita che, per la difettosa organizzazione sociale, non vale la pena di essere vissuta… Il più pericoloso errore in fatto di morale sociale, è la soppressione sistematica del piacere… Bisogna che le masse si divertano» (Feuilles détachées). Qui ti voglio sophos! Ecco del Renan autentico. Oggi anche il politico d’infima specie lo sa perfettamente. Egli non ha studiato l’ebraico né ha condotto dispute teologiche di raro livello. Basta un secolo a farci rotolare su questa china. Quanto all’essenziale vorremmo che si abolisse per legge qualsiasi divertimento, vorremmo affidare alla noia questa marmaglia. Non resisterebbe ventiquattr’ore. Forse correrebbe in “massa” a impiccarsi.

Turbamenti matematici
«Ben diversa si era figurata la stanza di un matematico, in qualche modo espressiva dei pensieri terribili che vi prendevano forma» (Musil, I turbamenti del giovane Törless). Così si figura il giovane Törless i pensieri di essa come ciò in cui è persino possibile contare il numero delle stelle. Era quanto aveva sorpreso Valéry: Noi che non esistiamo rispetto a loro, possiamo tuttavia contarle… In ogni caso, della vecchia confidenza con le stelle da cui ci si attendeva bene e male e consigli per la vita minuta è rimasto solo il disperato rapporto matematico.

Basse occupazioni
Ci tocca occuparci, di ciò che resta, dell’eterno; ma ciò che resta è anche ciò che si dà ai cani. In questo senso, dunque, anche “l’eterno” è ciò che si dà ai cani: il monotono e tedioso ripetersi. Morire una volta nati, alzarci la mattina, vestirci, coricarci la sera, oh Seneca! E ciò che ci sorpassa e ci schiaccia, l’universo immobile. La barriera d’immobilità che circonda il piccolo individuo non può essere volta in suo favore. Mentre cade l’elogio, implicito secondo Dewey in ogni predicato di immutabilità, e si esaurisce il ruolo onorifico esercitato da quest’ultima, l’immobilità mostra il suo volto di pietra. L’ultimo elogio rimasto per questo alcunché è chiamarlo “essere”. Stupefatti ascoltiamo il parlare che se ne fa con l’aggiunta che esso è il più degno da pensare! Ma cosa ci possiamo aspettare da questi miserabili folli, e da noi stessi!

Avversari della volontà
«Gli uomini non possono essere tenuti assieme per uno scopo qualsiasi senza una legge o una regola che li privi della loro volontà» (Joseph De Maistre, Les Soirées de Saint Pétersbourg, Huitième Entretien). Ecco ancora un punto che mi rafforza nella convinzione di una intesa profonda tra tutti gli avversari della volontà. Penso naturalmente a Schopenhauer.

Andare d’accordo?
Nella raccomandazione di mettere d’accordo il pensiero con la realtà, c’è qualcosa di distorto. Ecco perché la filosofia non è conoscenza ma sapere. Perché la conoscenza è niente senza questo accordo. Mentre con questo accordo è niente il sapere.

Manlio Sgalambro, È soltanto una tragedia americana, La Sicilia, 28 settembre 1991

È soltanto una tragedia americana

Una tragedia americana
Lo statuto di un evento è di essere analitico e vissuto insieme. Da un lato si disperde nel pulviscolo della storia per poi finire col disintegrarsi nell’universo, dall’altro si concentra in una coscienza. Da un lato, perciò, se ne può avere solo una «scienza» dall’altro solo un’esperienza vissuta. Le due, a quel che si dice, non coincidono. L’amore di x per y è un movimento psichico vissuto (come direbbe Scheler) e in quanto tale inanalizzabile. Ma è anche un incrocio di serie causali diverse. È analisi – la serie delle sue cause e dei suoi effetti – e sintesi: passione di x per y. L’inanalizzabilità vale tanto per l’amore dell’imprenditore per la sua bella, quanto per la serie di atti con cui egli «gagne sa vie» e perde l’altrui. Come insieme di atti semplici considerati con la complicità delle psicologie apologetiche, egli lavorerebbe. Visti invece nelle loro mediazioni egli sfrutterebbe. In ogni caso non è una tragedia, al massimo una tragedia americana.

Falsi ricordi
Chi scrive della propria vita ha certamente di che dire, e lo dice. Comincia dalla sua infanzia che ricorda, sia come sia, a puntino e srotola buffe zie, nonni rantolanti ed altro. I dilettanti di ricordi usano anche consolidati topoi. Ma più grave è ancora la cosa quando al posto di Balbec o Douville c’è uno squinternato paesino e al posto del duca di Guermantes lo scemo del paese e del barone di Charlus qualche checca. A volte si ha pure il sospetto che ciò che ricordano meglio di tutto è alla ricerca del tempo perduto di Proust.

Tristezza e voluttà
Rileggendo Volupté di Saint-Beuve mi soffermo su questo passo: «Più volte la settimana frequentavo le lezioni di storia naturale del signor Lamarck, al Jardin des Plantes… Già a quell’epoca, il signor Lamarck era come l’ultimo rappresentante di quella grande scuola di fisici e di osservatori di tutti i fenomeni che si era avuto da Talete a Democrito fino a Buffon… La sua concezione delle cose aveva grandi tratti di semplicità, e molta tristezza. Costruiva il mondo con il numero più ristretto possibile di elementi e di crisi e attribuendogli il massimo di durata… Per lui il genio dell’universo era una lunga pazienza cieca… Allo stesso modo una volta ammesso nell’ordine organico il potere misterioso della vita, che egli intendeva semplice e il più elementare possibile, presupponeva che si sviluppasse da se stesso, e si perfezionasse poco a poco con il tempo; il sordo bisogno, la sola abitudine fanno nascere, a lungo andare, negli ambienti diversi, gli organi, in un contrasto col costante potere della natura che li distrugge; la natura è la pietra e la cenere, il granito della tomba la morte. La vita non vi interviene che come uno strano accidente, singolarmente industrioso, come una lotta prolungata che può avere qua o là più o meno successo o equilibrio, ma, che in definitiva è sempre vinta. Prima e dopo di essa regna una fredda immobilità». Così lessi in questo passo e mi si strinse il cuore e la mia qualità di filosofo quasi non bastò, dopo tanti travagli e durezze, a sopportarlo. E pensai al fragile Saint-Beuve con pena…

Kafka per tutti
Il campo della letteratura è una distesa fiorita di papaveri e margheritine. Si raccolgono, poi si buttano sfioriti dopo averne goduto profumi e colori. Il principio della forma, su cui tutto ciò che è letteratura poggia giustamente, risale in fin dei conti al tempo in cui si formarono lingue gelose all’interno di cui valevano complicati costrutti che solo col loro essere realizzavano le promesse dell’arte. Le letterature erano così strettamente legate proprio per la forma al principio delle nazioni, a quel complesso di lingue, costumi, eccetera che giustamente venivano considerate intraducibili. La letteratura porta il marchio della lingua in cui è scritta. Oggi trionfa una traducibilità universale. Trionfa l’inglese per tutti, il tedesco per tutti… Si dispone di ampi mezzi di traduzione che appositi istituti forniscono a basso prezzo. La comunicazione si giova di un linguaggio ridotto, accorciato, in cui entrano su per giù tutte le componenti pratiche più urgenti. Mentre la cosiddetta forma, nei linguaggi scritti, si serve di un cliché che poi passa per «Kafka», per «Joyce», e così via. In questa strage si salvano solo le «idee» che però sprovviste di stile, fatto spesso di minime cose ma che dona loro tutta la forza, galleggiano nell’aria, aborti a cui dà una parvenza di vita il capriccio dell’imbecille di turno, il lettore.

Manlio Sgalambro, Ricchi e giusti, La Sicilia, 21 settembre 1991

Ricchi e giusti

Aut aut
Il filosofo Alain, premesso che «la ricchezza proviene sempre o dal fatto che si è acquistata una cosa di cui l’altro non sapeva il valore, o dal fatto che si è profittato delle sue passioni o della sua miseria», raccomanda ai «ricchi»: «Contentez-vous d’être riches et renoncez à être justes» (Alain, Éléments de philosophie, Paris, 1941, pp. 304-305). Contro l’espresso mandato da essi dato ai moralisti: trovare una morale che consenta loro di essere insieme ricchi e giusti.

Conseguenze assicurate
«Chi conosce la catena delle conseguenze, misura la grandezza della responsabilità», così si legge nell’Etica di Nicolai Hartmann, opera dura e insopprimibile. Ma ogni previsione allarma i responsabili della morale che si tutelano. Il mandato dato da coloro che agiscono, che attuano uno scambio, che perseguono un progresso, ossia da coloro da cui, e per cui, nasce il bisogno di un’etica, è esplicito. La responsabilità frenerebbe l’azione e in breve tatti risulteremmo ladri e assassini. Man mano dunque che si afferma il dominio di quelli che vogliono agire senza impacci di sorta, se non il minimo indispensabile, la morale che li rappresenta si libera da ogni punto di appoggio che non può aversi, fu detto per loro conto, «né in cielo né in terra» ma solo nell’intenzione «qualunque ne siano le conseguenze» (così Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi). Gli esecutori del mandato troncano dunque di netto le azioni dalle conseguenze. Bentham, che le calcola, è uno spudorato. La responsabilità integrale è roba da regno dei cieli, mentre quella minima, quella legale, è assicurata.

Linguaggio pessimista
Il linguaggio pessimista possiederebbe, secondo Valéry, una capacita di eccitazione non dissimile da quello erotico. O, per usare i suoi termini, «possiamo essere eccitati dall’orrore della vita, dall’immagine della sua fragilità, dalle sue miserie, altrettanto che da idee erotiche e dagli appetiti sensuali (Léonard et les philosophes, in Variété, III). Noi, che pratichiamo il primo linguaggio, ne siamo convinti. Ecco perché il linguaggio pessimista ha risonanze, vellicamenti, stimoli abnormi. Ma il motivo può anche essere questo: per risalire la china di un’abitudine – appunto l’abitudine alla vita – è necessaria una sensualità per i suoi orrori e le sue miserie che ne vinca le resistenze e in ultimo, come ogni faccenda di sensi, finisca a letto.

Capitalismo e platonismo
Il capitalismo ha «realizzato» il platonismo. Il mondo delle Idee è stato preso in carico dall’Industria che le stampa nelle «cose» a centinaia di migliaia di esemplari. Ciò che un giorno fu Idea, in un mondo celeste ma esangue, troneggia oggi nei lussuosi negozi, nei grandi mercati a cui si rivolge estatico il platonico odierno. Il Meglio si incarna in una perfetta maniglia, in un delizioso water dai soffusi colori e una sfilata di modelle riproduce le divine ipostasi. Sì, il platonismo s’è realizzato.

Nuovo medioevo
La taccia di moralismo colpisce ogni uso di categorie etiche al di là del proprio ambito – che è poi persino problematico definire. Così, moralismo sarebbe ogni giudizio etico su azioni e fatti concernenti la vita politica, su fatti e azioni economiche, sulla vita erotica, eccetera. Il sistema di vita progressivo si fonda su una accurata distinzione di questi ambiti fatta in modo che l’uno non debba rispondere dell’altro. La divisione del lavoro non è l’unica «distinzione» di cui la civiltà progressiva non potrebbe in nessun modo fare a meno. Ad essa non è necessario soltanto specializzare funzioni ma distinguere e specializzare le diverse attività in maniera che non interferiscano tra di loro. L’individuo deve essere posto in grado di essere eticamente adempiente ed economicamente operoso. Di dare – eticamente – e di prendere, economicamente. Senza che l’una e l’altra cosa neghi l’altra. Senonché con lo scatenarsi del capitalismo galoppante, sino al capitalismo odierno senza più antagonisti, avviene una unificazione di tutte le attività. L’Uno economico – come ogni assoluto, secondo ci insegna Hegel, esso è un risultato – ci introduce a un nuovo medioevo. Il medioevo economico succede al medioevo religioso.

Manlio Sgalambro, Piccoli Proust, La Sicilia, 14 settembre 1991

Piccoli Proust

Sociologia delle vecchie cose
Sempre più si diffonde un gusto per le cose vecchie, o, come si dice, per l’antico. Mobili, suppellettili di vario genere per poco che mandino i riflessi di un’altra epoca, attraggono nella loro orbita.
Nel mentre si disattende del tutto una onesta conservazione di qualche oggetto del presente, o appena di pochi anni fa, che invecchierebbe anch’esso. I padroni di casa non hanno scrupoli e li buttano nel tritatutto. Attraverso un mobile, un antico monile, il passato di cui si è succubi, viene maneggiato, spostato qua e là per le stanze. Oppure può essere contemplato a piacere, anzi era evocato a partire da una vecchia pipa o da un ingiallito merletto. Siamo tutti dei Proust.

Regole di lettura
Nessuno deve leggere che non sia disposto a non leggere mai più nella sua vita. L’incontro con un libro deve potere essere l’ultimo. Affinché tutta la faccenda conservi un senso dev’essere sempre possibile che ci sia un libro dopo il quale non se ne vorrà leggere più nessuno. Ma ciò vale per lo stesso libro. Che esso possa essere l’ultimo nella vita di un uomo può essere questa la misura della sua dignità e del suo valore. Mentre la sete affannosa di leggere non testimonia, forse, per la bontà di ciò che si è letto fino a quel momento.

Il nemico
L’affaccendarsi umano offre stimoli più decisivi al nostro amaro contemplare di quelli che possono venire da un sublime paesaggio, dal mare agitato dai venti o da un vulcano scosso dall’eruzione. Quegli uomini intenti, che vanno in tutte le direzioni, ora incrociandosi secondo regole precise, come sembrerebbe, ora in colonne, quasi andassero alla conquista di qualcosa, di cui ti pervengono le voci, come l’abbaiare di cani o i ronzii delle auto a cui sono mischiate, per poco che si possano guardare da un punto che ci mette al coperto dal loro sguardo, rivelano più cose che le nostre filosofie. Ma ciò è sempre avvenuto. Ecco perché la vita contemplativa è stata sempre diffamata. Non si può lasciare sopravvivere il nemico.

Ascetica del linguaggio
Senza una sorta d’ascesi non potremmo parlare seriamente. Ciò dice Brice Parain, nella parte di un filosofo, nel film di Jean Louis Godard «Vivre sa vie». Il che è anche l’essenziale del suo grande saggio di vent’anni prima – Recherches sur la nature et les fonctions du langage -. Il linguaggio – dice qui Parain – è la regola del nostro pensare e del nostro agire. Esteriore e trascendente esso è ugualmente il luogo dell’universale e della volontà. L’affermazione della volontà si persegue infatti tramite il linguaggio. Dire: «Io ho fame» non significa tradurre il proprio desiderio di cibo in una regola, ma progettarne la soddisfazione. Il linguaggio è dunque impegnato nell’eseguire un’azione, nel dare corpo alla volontà. Ma può invece solamente esprimerla. In tal caso bisogna che prenda tutta quella distanza che tramuta il parlare in pensare, dove la volontà si nega. Pensare rettamente è tutto il contrario di un atto di volontà. Quanto piuttosto l’inizio della propria negazione. L’impersonalità del giudizio, non è il risultato di una regola, ma di una ascesi.

Il Signore delle mosche
Nel gettare le mosche ai ragni, Spinoza compie l’atto stesso della Sostanza con cui chiaramente s’è immedesimato. Alla stessa maniera, nell’Ethica, aveva dato gli individui in pasto ad essa. Non è più lui, Spinoza, ma la stessa Potenza dell’Essere. È quel grado di «conoscenza» in cui non si distinguono più conoscente e conosciuto. Spinoza che getta le mosche ai ragni ridendo è l’Essere stesso che getta Spinoza nelle proprie fauci. Il concetto di Potenza ha qui il suo schema sensibile, adatto all’intelletto comune. Giusto come Kant, che aveva accusato Spinoza di speculazione, lontana dall’intelletto di tutti, poi richiese.

Manlio Sgalambro, Conosci te stesso purtroppo, La Sicilia, 31 agosto 1991

Conosci te stesso purtroppo

Quando Anatol ritornò non vide nessuno ad attenderlo, ma i sottili umori dell’aria gli fecero lo stesso buona accoglienza. Uno sconosciuto, dopo averlo guardato a lungo, gli rivolse la parola. Tu Anatol, gli disse, mi sembra proprio che non ti conosci. Cosa ce ne facciamo di uno che non si conosce?
Anatol indugiò a lungo, soprappensiero, poi rispose. «Uno che si conosce non può esigere molto e io esigo molto. Sì, ho presenti quelli che invitano a conoscersi, essi sono pieni di vermi e vogliono che anche gli altri lo siano. Perciò ti dico: non conoscere te stesso ma apprendilo dopo – stupefatto».
Cerca uno scopo che ti serva per un giorno, dice Anatol. Perché di più? Se sei riuscito a terminare un giorno col sorriso e il cuore traboccante, quale altra cosa puoi volere? Pensa a quegli esseri che hanno un giorno solo di vita. In breve tempo – sei tu che lo chiami «breve» – volteggiano gai, si riproducono, e come se avessero visto tutto scompaiono come piccoli sbuffi d’acqua che il mare allegro accoglie sbadato.
Sottile crudeltà di Anatol. Suggerimenti sulla vita felice se ne possono sempre dare, egli dice. Anatol tesse una trama i cui richiami ammaliano come un’eterna aurora. Moralista pentito egli non guarda più le agghindate vesti della virtù ma si scatena bramoso. Passa dall’altra parte con armi e bagagli. Percorre le sconosciute strade del piacere con la baldanza del novizio. Ogni volta che il virtuoso tornò sui suoi passi fu per immaginare una vita felice. Sì, la felicità è possibile: questo ci getta nel più nero sconforto. Senza dolore ci sentiamo vuoti e senza interesse scorrono le nostre giornate. Chiamiamo felicità il rapido abbraccio, l’estasi sfingoide, il sorgere del mattino gaio e splendente. Il duro dolore ci trova invece pronti all’attacco, pronto il cervello, i pensieri che scorrono come guizzi di animali selvaggi che devono nutrirsi e sbranano la preda ancora fumante. Mentre questi li inebria il sangue caldo, gli altri danno forma alle cose, noncuranti.

Anatol racconta come l’idea di Dio divenne banale. Se noi concepissimo un essere perfetto senza esistenza, dice Cartesio, non concepiremmo un essere perfetto, così come, immaginando un triangolo la somma dei cui angoli fosse diversa dalla somma di due angoli retti, concepiremmo una figura che non è un triangolo. Così inteso l’argomento cartesiano fa diventare del tutto triviale l’idea di Dio. Separa l’idea di Dio dal «religioso» e la presenta come una necessità qualsiasi. Una necessità che si presenta come tutte le altre necessità. Ed esaminarne la perfezione, rispetto alla imperfezione umana, non è qualcosa di particolare, ma trattare questa idea secondo il proprio statuto. Così come esaminare secondo il proprio statuto l’idea di albero o l’idea di montagna o l’idea di insetto.
Anche il fatto che l’esistenza non può essere separata dall’assenza di un essere perfettissimo, non è che il suo statuto, come l’altro che l’idea di esistenza può essere separata dall’assenza dell’insetto e la sua. Tutte le idee divennero dunque eguali e banali. Ma pregiudiziale fu il lavoro attorno all’idea di Dio fatto da Cartesio. Togliere questa idea alla teologia e alla religione e farne un’idea che si poteva esaminare come qualsiasi altra, come, ad esempio, l’idea del triangolo o l’idea dell’insetto.

(Si avvia. Il buio lo nasconde. Non fa vedere i pensieri stampati sul suo volto. Il capo basso, gli occhi che guardano attraverso le dure pietre delle pupille. È come se camminasse su un filo o attraverso dirupi, e aprisse sentieri, ma spedito è il suo passo e sicuro. Cosa, stasera, appagherà il suo maniaco Pensiero? A chi tocca? Abbandonato a questo piacere, languido, a dire di Seneca, come ogni piacere di saggio, Anatol è felice).

Manlio Sgalambro, La finzione di abolire il pensiero, La Sicilia, 17 agosto 1991

La finzione di abolire il pensiero

Immaginava una corrente segreta che avesse attraversato la filosofia moderna, talmente segreta da non essersi rivelata che una o due volte (e una di queste a lui). Questa corrente sosteneva il non-pensiero e precisamente era iniziata non appena Descartes aveva messo il pensiero in quel rilievo che si sa. Non appena questa mostruosità aveva avuto luogo, era nata, in certo modo così generata, così perversamente, questa metalepsi. Il non-pensiero gli sembrava questa equivalenza delle idee che ne formavano solo una tendente ad abolire quelle distinzioni da Descartes fortemente sottolineate nelle sue opere. Gli sembrava che gli era promessa così l’indifferenza del ciottolo. O, per usare la tecnica appresa, che riversandosi lo spirito o la mente nello spazio si dovesse estinguere progressivamente. Il pensiero che a poco a poco aveva assunta la responsabilità di tutta la realtà, gli sembrava essersi così trasformato in un orrore. Senza questa segreta aspirazione al non-pensiero gli sembrava perduta ogni dignità e raggiunta la più completa abbiezione.
Che rapporti vi erano tra il non-essere e il non-pensiero? E cosa mai aveva fatto sì che mentre quella questione aveva d’un tratto occupato ogni interrogativo, quest’ultima invece restasse nel silenzio? Problema inquietante anche questo, si diceva. Il filone che si richiamava a Descartes, quello predominante cioè, non mancava di esaltare la sua scoperta ad ogni occasione. Occultamente l’altro, la sua ombra per così dire, inorridiva là dove quello gioiva. Ma là dove l’uomo comune vede il suo orgoglio e la sua dignità, non lascia passare dubbi. L’esaltazione del pensiero viene per l’appunto fatta da questo doppione mentre, anche se segretamente, nel competente che ne dipana i fili cresce l’orrore. Così da un lato il tecnico con saviezza fruga ogni angolo e, separandolo da tutto, a poco a poco ne scopre l’identità con esso. Dall’altro il desiderio di spegnere questa insaziabile sete di pensare, l’inutile sempre ridesta fatica, preme su quello che, sorte beffarda, si definisce proprio da ciò che ha più in disistima. Costui è il pensatore, che non s’accorge che nel fregio del titolo si nasconde un non so che di imbarazzante, come se così egli prendesse nome da qualche lordura. Ma perché si stabilisse una chiara consapevolezza di questo e perché dall’ostilità di un sentimento nascesse una coerenza sistematica doveva passare tempo e dovevano incrociarsi più destini.
Naturalmente tutto ciò passa attraverso la finzione. Bisogna fingere di non pensare mentre si sta pensando e fingere che sia possibile pensare di non pensare. Naturalmente ci sono più vie… Una passa attraverso l’esaltazione di ciò che ostacola il pensiero o lo rende malcerto. Mescolarsi così alle passioni come ai rumori, lasciarsi andare ai morsi del corpo, sempre buon cane. Fingere che esso ti addenti e non molli la presa. Ma un pensiero aperto a tutti i vizi non rischia di alimentarsi invece di spegnersi? Un’altra toglie alimento al pensiero staccandone una per una le passioni. Ma un pensiero non rischia di trionfare per sempre se le passioni non lo molestano? Decise di tentare queste vie assieme e attendersi la salvezza dalla confusione di tutte. Un’altra via restava: la degradazione, ma si proibì di tentarla. Un’altra infine ritorna all’inizio del circolo e affida al pensiero di eliminare il pensiero. Fu questa che scelse.
Una cosa che lo attraeva era la pace del pensato. Egli pensò – ormai poteva liberamente usare questa forma – egli pensò che il pensiero si spegne in ciò che pensa. E che nel pensato ci sia dunque il minimo di pensiero possibile. Ciò gli permetteva di dire che è nel pensato che si spegne il pensiero. In altre parole, bisognava pensare per non pensare. Ogni volta che il pensiero esce da sé, in una poesia, in un oggetto, in un sistema filosofico, in essi trova quiete fino a quando in un’opera totale, che tutte le assommi non trovi la quiete assoluta nel pensato. Non ci sarà ormai che il pensato, solo il pensato e niente più…
Così si salvava dai marosi del pensiero. Ma era una finzione.

Manlio Sgalambro, Nobiltà segreta distinzione, La Sicilia, 10 agosto 1991

Nobiltà segreta distinzione

«Un uomo nobile partì per un Paese lontano per ottenere un regno…».
— Meister Eckhart, Opere tedesche

Dell’uomo nobile
«Non esistono più uomini nobili»: questa affermazione è del genere di quelle in cui si sostiene che non esiste più il senso della verità, o del bello, e così via, eppure gli elementi sono tutti là. C’è piuttosto una cecità per la nobiltà che nella sua Sociologia Simmel definisce, con una procedura macchinosa, «mancanza del senso della differenza di importanza tra gli uomini».
Mentre peraltro abbonda un disgustoso senso della loro uguaglianza, esaltato sino all’inverosimile.

Morte livellatrice e «salutare» illuminismo
Ciò che percepiamo sin dall’inizio, per lo più, è una accentuata mancanza di distinzioni come se fossimo veramente, secondo quel che si dice, «tutti gli stessi». Una considerazione ignobile fa della morte la livellatrice che riporta tutti alla giusta misura. Mentre il raccapriccio di un Goethe per l’assurdità della propria morte rivela che più giusta sarebbe una totale discriminazione. La morte, agitata davanti agli occhi come una sferza, è il tipico frutto del risentimento di chi ha a stento un nome e per giunta solo come lo hanno i comuni oggetti. Là dove c’è ancora un rispetto sulla base di un’aura, o di un vigoroso modo di esistere, si contrappone il «salutare» illuminismo contro queste forme «attardate» di differenza. Davanti a chi non percepisce la nobiltà non c’è nessuno. Mentre chi la percepisce non per questo la fa esistere. Bensì è vissuta, da chi la possiede, quietamente. Essa non è un rapporto ma una qualità.
«Di fronte all’uomo importante nota ancora Simmel – c’è una coercizione interna a mantenere le distanze, che non scompare neppure in un rapporto intimo con lui e che non è presente soltanto per chi non possiede un organo in grado di percepire l’importanza». Così per la nobiltà. Questo senso della distanza è la componente principale della percezione della nobiltà. Non riteniamo che essa sia scomparsa o se ne debba lamentare – oppure apprezzarne – la perdita. Essa si attua discreta e nel silenzio.
Colui che incarna la nobiltà, non in base al ruolo che riveste, ma in base al suo essere non esige il riconoscimento, non ne ha bisogno. Egli è la sua distinzione. Ma ciò, nello stesso tempo, è un dono, di non si sa chi. L’appartenenza a un ordine che è arrischiato affermare che sia e tuttavia appare, o lo sembra: ora, come un balenio o una folgore attraverso questi stessi individui.

Assolto il volgare punito il cavaliere
Quest’uomo raccolto in sé stesso come un pugno serrato o aperto come una mano stesa passa sconosciuto tra i più. Solo quel punto in lui rifulge come uno schiocco di luce, come voragine di lattee fiamme. Per il resto egli porta il segreto con levità e passa scivolando tra gli uomini, sconosciuto ad essi. Egli è l’uomo nobile di cui parla Meister Eckhart: «Un uomo nobile partì per un Paese lontano per ottenere un regno, e poi tornò». Supponibilmente è nel tratto che sta tra la sua partenza e il ritorno il suo mistero. Cosa fece egli durante quel tempo? La sua azione differisce per un capello da quella del bene; chi dunque poté distinguerla? Allo stesso modo essa differisce per un capello da quella del male, come non poté esservi scambiata? Supponibilmente egli è il cavaliere medievale che è punito per la stessa cosa per cui il volgare è assolto o a cui è proibito ciò che è permesso a quest’ultimo. «Soltanto il fatto che alle masse inferiori sono permesse molte cose vietate al nobile, giustifica che esse siano trattate con disprezzo e l’indifferenza più profondi: esse non vengono ritenute degne della normazione più rigorosa» (Simmel, Sociologia, Excursus sulla nobiltà).
Mentre il volgare «fa» il bene, che diventa parodia di se stesso, l’uomo nobile dispensa il bene senza farlo? Al suo semplice tocco esso dilaga o s’arresta per un momento su uno qualsiasi, e chi ne è toccato per quel giorno è felice? Un giorno l’uomo nobile partì per conquistare un regno e poi tornò. Qui s’arresta la nostra domanda: su ciò che fece in quel frattempo. L’apologo non permette di andare oltre.

Manlio Sgalambro, Tutti uguali davanti alla cultura, La Sicilia, 3 agosto 1991

Tutti uguali davanti alla cultura

Frequentatore di biblioteche
Le lunghe attese gli sono concesse dal destino.
In quei momenti il suo spirito assorto si rifà del perduto tempo. Le bieche facce di chi consegna i libri, stanche mani di villani, o quei tozzi volti di chi li consulta ma ne è lontano, non sono con lui. Ma è come se volesse scoraggiarlo dal proseguire e gli indicano la porta. Ma poi un lampo dorato, un dorso ammiccante, il titolo ambito, frutto di una attesa, cioè di una parte della sua vita già così scarsa, ridestano l’ostinazione e a capo chino si tuffa nella lotta.
Più tardi tutto è finito. E quando esce, esce riconciliato. Se la musa è venuta a visitarlo e ha messo da parte un piccolo bottino, cambia il vento e i volti li vede sorridenti, alacri, e da ogni punto spira un’aria di amicizia.

Studioso
Il vecchio Spengler fu uno studioso alla maniera antica, voglio dire ebbe questa fortuna. Disponeva le sue finche civiltà per civiltà, nettava le sue penne e eliminava gli errori col raschietto.
Il Mauss che studiò la segregazione urinaria e le diverse posizioni nella minzione gli sarebbe piaciuto e ne avrebbe fatto buon uso.
Il volto da junker ma in realtà modesto professore di matematica mandava a spasso le civiltà come alunni che non avessero risposto alle sue domande. Ma per esse non vi era alcun settembre.
Io sto immaginando tutto questo. Sto immaginando Spengler seduto al tavolo, e cortesi bibliotecari come maggiordomi inglesi che gli servono libri.
Immagino segretarie legnose (che non lo tentino perciò con le loro carni) con gli ultimi dati sulla produzione dell’acciaio e sulla seconda legge della termodinamica.
Sto immaginando un meticoloso pittore di paesaggi che attende l’ultimo sfolgorio del giorno mescolando impaziente i colori.

Biblioteca circolante
Entri nella biblioteca circolante, diffidente. Ti pare d’entrare in una maison tolérée d’altri tempi. La signora che ti viene incontro truccata e sorridente ha del lascivo. Ti inviterà a letto, ma ti dirà prima il prezzo? Tutto ciò che ti puoi portare in camera sarà un libro oppure estrema audacia fino a tre, se paghi beninteso. Questo ti rasserena.
Il denaro ti salva da ogni timidezza e ti restituisce ai tuoi nervi e alle tue letture.

La biblioteca è uguale per tutti
Questa l’austera scritta che mi sembra di leggere all’entrata.
Essa dice che tutti i libri sono uguali alla cultura. La biblioteca realizza questa eguaglianza e rende giustizia al libro ignoto, o al più modesto di essi trattandolo come gli altri.
Sarà spolverato egualmente, perseguitato il reo se viene rubato. E comprato a suon di quattrini come l’altro. Poiché tutto ciò mi sembra losco e ingiusta questa giustizia, sogno che i libri vengano dispersi ai quattro venti, che non ci sia nessun luogo che li conservi e solo il fato li conduca a questo o a quello per le vie che esso sa.
In questo incontro, non si incontrerebbero solo un libro e un lettore ma un individuo col suo destino.

Sala di lettura come vita
Si ritrovano qui, davanti ai libri, tipi che puoi vedere al mercato o davanti alle vetrine dei negozi.
Uno studioso non sembra più distinguersi e nessuno è più nessuno di lui quando è nella sala di lettura.
Le pagine scorrono davanti ai suoi occhi ed egli sminuzza concetti, divora emozioni, incolla ragionamenti e visioni mentre per il resto è immoto, fermo come una statua.
Sala di lettura come vita. Tornerà domani. To-morrow and to-morrow and to-morrow

Manlio Sgalambro, Nietzsche comico involontario, La Sicilia, 27 luglio 1991

Nietzsche comico involontario

Orgasmo intelligibile
Mentre leggo Justine di Lawrence Durrell (romanzo ispirato da due grandi Muse, Kavafis e Alessandria d’Egitto) mi imbatto in questo brano: «Il nostro amore… era come un sillogismo manchevole delle sue vere promesse… era una specie di possesso mentale».
La sola idea dell’amore, ne sono convinto, può indurre all’orgasmo due esseri ben disposti. Platone trascurò gli effetti sensibili delle idee, o meglio non ne curò altro che il lato obbrobrioso. Mentre l’idea dell’amore può avvolgere il corpo in carezze che fanno urlare.
Il concetto di “possesso mentale” dunque mi convince di uno stato in cui non perderemmo la bellezza dei nostri sensi ma vi aggiungeremmo la sensualità dell’idea.

Suicidio come salute?
L’incremento costante del tasso dei suicidi indicherebbe, secondo ovvietà sociologiche, che la società è malata. O che la nostra cecità agli scopi è completa.
In realtà li conosciamo fin troppo. L’erosione del margine di sicurezza offerto una volta dagli istinti ne ha accresciuta la consapevolezza.
Lo scopo di una società “giusta” che non millanti credito, e che farebbe cessare, così si dice, lo stato di anomia, ha a sua volta uno scopo sugli altri: l’allargamento di questa chiarezza, raggiunta privatamente dalla coscienza, fino a una illuminazione collettiva che porti luce su tutto e quindi all’aumento, per qualità e quantità, del comune senso della verità.
Sapere come stanno le cose, quale stato complessivo e permanente della società. È difficile allora che di fronte a questa coscienza, alla maggiore luce e consapevolezza, le correnti suicidarie che percorrono intensificate il tessuto della società ne attestino ancora la malattia.
Tutto sommato esse ne rappresentano la salute, anche se mortale.

Vacanze
Un banchetto alla tavola di Costantino fu immagine del regno dei cieli che Eusebio di Cesarea ci trasmise con palese soddisfazione. Succulente vivande, rari ori e splendidi efebi e ragazze.
Oggi le vacanze anticipano la società chiliastica. Si gode in esse ciò che poi dovrebbe essere lo stato normale. Girare come trottole senza direzione.

Nietzsche e la nascita del comico
Il riso filosofico comincia a darsi ragione di se stesso con Nietzsche.
Egli scrisse sulla nascita della tragedia e non sulla nascita del comico ma vi sono sparsi frammenti che inducono a pensare che ne avesse l’idea.
In ogni caso con Nietzsche ha inizio la filosofia comica. «Chi di voi può conoscere insieme il riso e l’esaltazione? Colui che sale i monti più alti ride di tutte le tragedie rappresentate e vissute», dice Zarathustra.
«Non con l’ira, ma col riso si uccide». Ma sono cose di poco conto. Nietzsche ha raggiunto la più compiuta visione del comico perché può ridere insieme degli uomini e di Dio. Mentre un tempo ci si doveva appoggiare a Dio per ridere dell’uomo e all’uomo per ridere di Dio. Ma sono cose ancora di poco conto perché la stessa filosofia di Nietzsche è comica. Come filosofo comico Nietzsche ritiene anzitutto che il mondo non è serio. In realtà il riso che il mondo desta può essere ancora una conferma che esso è rappresentazione.
Ma il riso è «un giuoco di forze vitali» come Kant lo definì? Vedremo tra poco. Per intanto torniamo alla comicità di Nietzsche. Quando egli dice, ad esempio, che la verità è un errore necessario, egli è comico senza saperlo. Non si può sentire infatti pronunciare questa proposizione senza smascellarsi dalle risa. Oppure quando dice che il riso è una forma di autoconservazione quando è chiaro che esso è invece una forma del nulla e dell’autodistruzione.
In realtà, come è stato detto, il mondo è troppo serio perché si rida. Nel riso è possibile vedere, perciò, un ulteriore segno della nostra imperfezione.
“Rideva senza ragione” si dice di uno. Questo modo di dire sembra che imbrocchi il segno. È vero infatti che si ride senza ragione. Ma fino a un certo punto.
Il riso più perfido, il riso che domina in questa età di lucidità, è il riso che nasce perché c’è troppa ragione.

Manlio Sgalambro, Dell’idea d’obbedienza e conoscenza, La Sicilia, 20 luglio 1991

Dell'idea d'obbedienza e di conoscenza

I violenti battiti del cuore che Malebranche provò alla lettura di Descartes ci aiutarono a formarci. Essi imprimevano al corpo i segni dello spirito. Oggi una filosofia demotica rovescia sullo spirito le falsità del corpo e s’indigna oltretutto di una distinzione che essa ritiene stolta e puerile. Si voleva ciò che è comune ma ciò che è comune si riteneva la ragione. Memori anche qui delle parole, così perfette, di Malebranche: «Due uomini non possono nutrirsi di uno stesso frutto, abbracciare lo stesso corpo… Tutte le creature sono degli esseri particolari, che non possono essere un bene generale e comune. Quelli che posseggono questi beni particolari ne privano gli altri e con ciò li irritano e ne fanno dei nemici. Ma la ragione è un bene comune, che unisce d’una amicizia perfetta e durevole quelli che la posseggono. È un bene che non si divide mediante il possesso, che non si racchiude in uno spazio, che non si corrompe con l’uso» (Morale, Seconda parte, cap. VII, 7).

Oggi un Malebranche, è dimenticato dai cultori della materia o racchiuso nel campo degli studi specialistici. Mentre alla formazione dei filosofi attendono spiriti immondi. L’accento su ciò che è comune è crollato davanti allo spirito particolaristico e si esalta l’originale, cioè il differente. «Questo pensiero mi sembra interamente falso, il segno del genio intellettuale sembrandomi consistere al contrario nello scorgere delle rassomiglianze che nessuno prima aveva scorto». (L’osservazione è di Julien Benda, La fin de l’Eternel, Paris 1929, p. 135).
Questo mi conduce ad esaminare la somiglianza tra l’idea militare e un gruppo di altre idee che mi sembrano più affini di quanto normalmente si conceda.
Se io esamino l’idea di storia in rapporto alla mente, essa mi appare come un’idea militare. (Appartenendo essa all’ordine del tempo e il tempo essendo, come scrisse Peguy, “essentiellement militaire”). Anche quella di conoscenza mi sembra dello stesso tipo, se Nietzsche può parlare – Aurora, 576 – dei bravi soldati della conoscenza (ma si veda l’astensione di questa idea alla morale: «Onesti verso se stessi… valorosi contro il nemico, magnanimi verso il vinto, cortesi, sempre»; Aurora, 556).
Mi appare dunque la storia come dominata in tutti i punti dall’idea militare sulla quale mancano però acconce riflessioni. Ritornando all’idea di conoscenza, approvo le parole di Nietzsche: «qualsiasi uomo impara a conoscersi quasi soltanto in relazione alle sue forze di difesa e attacco» ma per quanto riguarda la conoscenza in senso lato, mi sembrano inappropriate. L’idea eterna del soldato è il senso della milizia che è poi la dedizione. Nel soldato soltanto la furia si mostra placata. Che ci siano stati soldati della religione e non della conoscenza, mi rende triste. È segno che questa non è presa sul serio come quella.

In realtà l’idea di conoscenza si regolerebbe sull’idea di libertà, non di obbedienza. Da quando la conoscenza perse il grande problema di Dio e quelli ad esso connessi, dove la militanza, fosse esplicata nel chiostro o negli esercizi spirituali, dava prova di sé nella lotta contro errori e passioni, l’idea di conoscenza diviene una piatta riflessione da laboratorio dove al più può andare in fumo un esperimento. Sappiamo come oggi l’idea militare sia assolutamente invisa. Ma qui noi la esaminiamo in quanto idea e come tale essa rappresenta il momento del controllo della forza e dell’obbedienza. In essa vediamo la ragione trionfare del suo opposto e il rigore installarsi in questo campo confuso.

Manlio Sgalambro, Il volo degli Albatros, La Sicilia, 13 luglio 1991

Il volo degli Albatros

Il Giornale di viaggio di un filosofo (Das Reisetagebuch eines Philosophen) di Keyserling (opera di cui si desidera ancora la traduzione) è un capolavoro della filosofia minore. Come i Tristi tropici di Lévi-Strauss – non ne conosco altri – entrambi legano al viaggio la retta riflessione e collegano il triste errare del viaggiatore di professione allo stesso errare del pianeta su cui ci troviamo.
«lo prego di leggere il presente Diario come un romanzo» scrive Keyserling (p. XXX) ma se posso introdurmi nel discorso io vorrei che si leggesse come un’opera. C’è infatti un filosofare il cui esito maggiore è di essere un’opera di filosofia. Non si vuol dire un’opera d’arte, concessione maliziosa che annulla l’audacia filosofica nel gorgo dei rigurgiti artistici. Opera filosofica è ciò che resta allorquando i rumori del giorno, gli interessi, il saccheggio di una filosofia si sono perpetrati e, ormai finiti, è come se non fosse rimasto nulla. E invece è proprio il momento in cui resta, solida e monumentale, l’opera “filosofica”.

La Metafisica, l’Ethica, il Discorso sul metodo, … ormai sono “opere”, cioè più di quello che furono.
In questo “Viaggio” anche la spume del mare, le onde che battono i fianchi della nave che lo porta, svelano il loro segreto a questa spia. E la pagina sul volo degli Albatros, animali perfetti a paragone della miseria dell’uomo, è indimenticabile. L’ameba è più dotata di noi, il verme si rigenera come un dio indù. Mentre l’invidia che l’uomo ha per gli dei attesta la sua imperfezione. Quanto agli Albatros essi rappresentano un ideale superiore e più irraggiungibile della condizione degli Dei. «Questo volo che scivola sull’acqua mi sembra la perfezione stessa» annota Keyserling (II, 700).
Le meditazioni sulla lava ci riconducono a problemi originari. Davanti alla massa inerte e nerastra gli pare spenta ogni vita. Lo slancio della lava infuocata ricade in effetti su se stesso. Nello stesso momento ci coglie il generarsi della materia. Ma anche di un’antica quiete che lo spaventa. Così la vegetazione umidiccia dei Tropici gli ricorda, anche qui con orrore, la temuta scomparsa della vita. Gli ideali vegetali prospettano, infatti, l’ondata nirvanica che colpirà, prima o poi, l’Occidente.

Un viaggiatore di continenti o un viaggiatore stellare?
In ogni caso il viaggio di riflessione non si sa dove può condurre. Questo viaggiatore ha problemi di metafisica non di geografia. Alla fine del suo viaggio sta scritto: «Heute weiß ich die Wahrheit», oggi io so la verità. Squisita affermazione metafisica. Precise parole pronunciò Goethe un giorno riguardo alla filosofia. «Ad ogni sistema – egli disse – riesce di sbrigarsela col mondo, solo che vi compaia l’eroe adatto». Ora questo sistema, se così possiamo chiamarlo, ha come eroe lo stesso autore. Ecco perché le contraddizioni che vi possiamo incontrare sono inefficaci. Mai confuteremo una vita e meno che mai un pensiero che osa.
«In realtà, quando si è nutrito il proprio animo con riflessioni di questo genere, basta uno sguardo al cielo stellato, in una notte chiara, per provare quel senso di rapimento di cui solo le anime nobili sono capaci» (Kant, Storia universale della natura e teoria del cielo). Ci congederemo dalla ennesima lettura di questa opera così ispirata. E in effetti essa ci porta a guardare infine il cielo. Nel diario sono assenti gli uomini: Keyserling non ne ha voluti. Ci sembrò di avere capito, quando fu, che i suoi occhi non poterono più sopportarli da che videro il volo degli Albatros.

Manlio Sgalambro, Uomo politico, La Sicilia, 29 giugno 1991

Uomo politico

Intendo esaminare l’idea di politica in relazione a qualcuno che la professa ed entrambi in relazione al mio spirito. Essa appare ovvia se esaminata all’esterno. Ma vista in rapporto al mio spirito l’idea che qualcuno si occupi di politica mi sorprende continuamente. L’estraneità del mio spirito a questa idea è totale. Per chi ne esamini l’idea, in realtà, essa è quella relativa a una attività servile. Mi sembra infatti che l’uomo politico null’altro dovrebbe fare se non assicurare che un gruppo, una città, una società, un popolo possano svolgere i loro veri compiti che sono quelli produttivi, creativi, scientifici, eccetera.
Dall’esame dell’idea risulta che l’uomo politico è soltanto un mezzo, mentre se lo esaminiamo dall’esterno esso sembra essere un fine. È un rovesciamento non solo paradossale ma grottesco. Mentre l’uomo politico deve assicurare l’amministrazione di un paese, e tutti i problemi inerenti, per dir così fare le pulizie, preparare la tavola e ritirarsi discreto, egli al contrario batte i pugni ed esige che gli altri lo servano. La qual cosa è del tutto strana e curiosa. Ma è ancora più strano, per non dire pericoloso, quando l’uomo politico si incarica dell’avvenire, della felicità, dell’ordine, e cose del genere, dei suoi simili.

A tal proposito ritengo che si possa condividere questa riflessione di Nietzsche: «Ogni filosofia che creda che il problema dell’esistenza sia spostato o magari risolto da un avvenimento politico, è una filosofia per burla» (Nietzsche, Schopenhauer educatore).
Condivido, ripeto, questa riflessione e mi pare veramente ridicolo che si possa pensarlo. Tuttavia è proprio quel che pensa l’uomo politico. O almeno quel che sembra pensare.
Per l’esattezza la convinzione che un evento politico possa risolvere o rappresentare qualcosa per il problema dell’esistenza è la convinzione oggi dominante.
Qui ha vinto l’uomo politico. Egli è riuscito a persuadere – non soltanto le grandi masse che si possono facilmente convincere di qualsiasi cosa – ma anche quei pochi che varrebbe ancora la pena di salvare, della necessità della politica non per la soluzione dei problemi inferiori e più triviali, ma addirittura per i problemi superiori dello spirito.
L’uomo politico, come definizione caratterologica, rappresenta l’ultimo tipo di uomo in ordine al «valore». La trivialità dell’aspetto – egli deve somigliare a chi rappresenta – «aggregato di bocche, nasi, barbe e pance» dice Hermann Broch, l’incredibile gergo, più squallido di quello degli idraulici o dei netturbini, il linguaggio ridotto altrimenti a melassa, il politico è «l’ultimo uomo» di cui andava a caccia Nietzsche. Così finisce la civiltà occidentale. Not with a bang but whimper.

Mentre l’uomo politico dilaga, e dilagano i fellah della politica, in alcuni individui si afferma l’idea della apolitia. Di uno stato o condizione in cui ciascuno possedendo se stesso ha il vero potere (l’altro quello dei politici essendo veramente una forma di impotenza perché è potere sugli altri non su di sé). Questa sia la nostra practica, essi dicono, estraneità e rapporti fuggevoli.
Rapporto con sé e rapporto con il cosmo: questi vengono riconosciuti. E al margine sta il rapporto con l’altro, quello che amministra il politico. Ma questo è un rapporto insignificante, che non tocca null’altro che la superficie, la scorza dell’uomo. Mentre l’altro è «horror et divina voluptas».

Manlio Sgalambro, Nietzsche t’imitiamo in ginocchio, La Sicilia, 15 giugno 1991

Nietzsche t'imitiamo in ginocchio

L’acquisizione di Nietzsche al “gergo” filosofico dà per scontato che egli sia acquisito alla filosofia. Dopo l’opera di Heidegger, Nietzsche, vero monumento all’interpretazione, la filosofia che si insegna s’è ritenuta legittimata a un ennesimo imbroglio. Il linguaggio di Nietzsche è inoltrepassabile. Se una cosa esso significa sin dall’inizio è l’impossibilità di essere mutato in gergo. Il ricorso alla filosofia non potenzia Nietzsche. Heidegger che lo pone in rapporto ad Aristotele e a Schelling, ad esempio, fa un giuoco sporco. Per un verso ciò dipende dalla delicatezza di chi lo fa. Un’opera come quella di Lowith, Nietzsche e l’eterno ritorno, riesce a evocare attorno a Nietzsche i grandi spiriti della filosofia senza che si perda l’essenziale di entrambi. Resta senza dubbio vero che l’opera che ha saputo darci una indicazione per un serio problema dell’imitazione di Nietzsche, è l’opera di Bertram. Ma in essa c’è il limite insito in opere di questo genere. Gli importuni vogliono essere informati, sedotti, vogliono vedere il loro pensiero già in quello di Nietzsche e sortire dalle cabale interpretative i più reconditi effetti. Mentre dal libro di Bertram – Nietzsche. Versuch einer Mythologienon esce niente.
Gli altri sono veri cilindri da prestigiatori: col sorriso ben marcato e il gesto trionfante i bei spiriti ne traggono di tutto. Ma dal libro di Bertram niente. Capitoli che si intitolano Filottete, Arione, Giuda, Claude Lorrain, non “insegnano” niente. Collocano in una immagine. Quel che avviene poi non si può raccontare. A questo concetto di imitazione a cui la passione ci trasporta senza ritegno, lo stesso Nietzsche diede man forte. Alle parole di Schopenhauer: «L’umanità deve operare costantemente per generare singoli grandi uomini – e questo e nessun altro è il suo compito», c’è il controcanto di Nietzsche: «In che modo la tua vita, la vita del singolo acquista il più alto valore, il più profondo significato? In che modo è meno sciupata? Certo soltanto così: se tu vivi a vantaggio degli esemplari più rari e pregevoli e non invece a vantaggio dei più, ossia degli esemplari che, individualmente presi, sono i più privi di valore». E la nobile aggiunta: «Io vedo al di sopra di me qualcosa di più alto e di più umano di quello che io stesso sono, aiutatemi voi tutti a raggiungerlo, come io aiuterò chiunque conosca la stessa cosa e soffra per la stessa cosa: perché rinasca infine l’uomo che si senta pieno e infinito nel conoscere e nell’amare, nel contemplare e nell’agire, e con tutto il suo essere senta e sia nella natura, come giudice e misura di tutte le cose». Così il giovane Nietzsche, senza ritegni o astuzie, nel suo meraviglioso Schopenhauer come educatore, celebra quello che noi chiamiamo imitazione.
Imitazione significa infatti dire a colui a cui ci si rivolge: io sono nelle tue mani. Abbandonarsi al suo pensiero ovunque ci porti. Ma soprattutto sentire la suggestione dell’opera come qualcosa da cui non ci possiamo nemmeno difendere. O per chiarire meglio, noi ci possiamo difendere da Nietzsche – infine, da un pover’uomo – ma come difenderci da Così parlò Zarathustra? A un’opera non si può rispondere che con un’opera. L’eros con cui ci si collega più che a degli individui superiori con delle opere superiori, questa spinta all’imitazione è così forte come negli eroi plutarchei. Da qui nascono gli eroi del pensiero, a cui dapprima fu un gesto, la seduzione di un concetto, l’emozione di una nuance a rivelare loro un destino. Così se possiamo deprecare il pensiero di Nietzsche, per tornare a lui, se esso può sollevarci dubbi e infine pietà, è solo perché cadiamo in ginocchio davanti alle sue opere. Qui non ci sono più perplessità ma: sia benedetta la tua parola dolce più di un favo di miele. Non si tratta più di pesare meriti e deferti, di stabilire ragioni e valutare argomenti. Ma ecco, io sono nelle tue mani, si dice all’opera, ti affido tutto me stesso. Mi perdo in te. Che non io possa rinascere ma l’opera mia. Questi sono solo alcuni spunti di un serio problema dell’imitazione di Nietzsche.

Manlio Sgalambro, Borghese sinonimo di carattere, La Sicilia, 8 giugno 1991

Borghese sinonimo di carattere

«O si ha carattere o non lo si ha», queste parole di Kant suonano nell’Antropologia pragmatica e denunciano il mistero del carattere o il fatto che lo si voglia tenere nel mistero. Ancora non sappiamo. In ogni caso in esso si rinchiuse l’individualità borghese come in un munito castello. Prima che ciò avvenisse nel carattere s’era visto qualcosa di maleodorante. Da Teofrasto a La Bruyère. Dal dissimulatore allo stupido, dall’impudente al brutale Teofrasto vede in una individualità appena pronunciata già un difetto. E Les Caractères ou les Mœurs de ce siècle, oscillano tra virtuosi impudenti e malvagi inutili. L’analisi dei moralisti seviziava ogni individualità alla scoperta del carattere che essa metteva in mostra. In realtà non si sapeva dire di un individuo se non che era «furbo» o «ingenuo» o «brillante» o «avaro», eccetera. Fin quando non si scoprì il carattere dei caratteri: «borghese». In esso infatti si compendiarono tutti i caratteri e nello stesso tempo si superavano.
Il Borghese ha in sospetto l’ineffabile. Con questo termine egli diceva di sé più di tutto ciò che finora s’era potuto dire. «Non ho mai avuto né mai perseguito – ebbe a scrivere nei suoi ultimi anni Theodor Mommsen – una posizione politica e un’influenza politica; ma nel mio essere più interiore… ho desiderato essere un borghese». Con borghese si intendeva un «carattere», o, come abbiamo avuto modo di precisare, il carattere dei caratteri. Per Leon Bloy è pacifico che «borghese» riassume tutti quei caratteri che abbiamo definito maleodoranti che i moralisti avevano scovato nell’individualità. Per dirla in breve basta consultare la Esegesi dei luoghi comuni per vedere che in merito egli è arrivato più lontano di Marx e Nietzsche. «Il vero Borghese, vale a dire, in un senso moderno e il più generico possibile, l’uomo che non fa assolutamente uso della facoltà di pensare e che vive o sembra vivere senza essere sollecitato almeno per un giorno dal bisogno di capire un accidente». Qui non vi è alcuna condanna del borghese, come di solito si usa. Ma la descrizione, appena appena enfatica, del carattere borghese o, come preferiamo dire, del borghese come carattere. Trascuriamo le intemperanze di Leon Bloy: il borghese come «lavatura della specie umana». Diciamo soltanto: come compendio di tutti i caratteri, e cioè di tutte le limitazioni, il borghese è il compendio delle limitazioni dell’individuo. Tuttavia, sotto il peso della sua stessa oppressione, il carattere borghese si sfalda. Al suo posto compare la condizione di cittadino che finora era rimasta mascherata da quella di borghese (mi rifaccio allo studio di Dolf Stenberger, Aspetti del carattere borghese, nel volume Immagini enigmatiche dell’uomo apparso recentemente in traduzione per i tipi de Il Mulino, che sostiene, innocentemente pare, la transizione dal borghese al cittadino). Al primo sguardo essere cittadino non si presenta come un carattere. Ma sarebbe fermarsi troppo presto. Quando si definì l’uomo animal politicum si credette di definirne ciò che allora si chiamava sontuosamente l’essenza. E se invece si tratta di un carattere? Se invece si tratta solo di socievolezza? In realtà c’è da dubitare che l’uomo sia un animale sociale.
La socievolezza è l’impulso ad associarsi senza scopo. Esistono dunque uomini socievoli, non animali politici. Ritorniamo alla condizione di cittadino intesa come un carattere. O di più come il carattere dei caratteri, al posto di «borghese» che crolla sotto il peso delle sue, vere o presunte, infamie. Ma nello stesso tempo la condizione di cittadino che, volente o nolente, eredita dal borghese meriti e demeriti, presto gli sarà buttata in faccia. Buon cittadino, padre encomiabile, onora i suoi debiti e i suoi debitori, vota per la libertà…: non è il borghese fatto e sputato? «Onorare le canaglie che possiedono denaro o autorità, è la legge della coscienza borghese. Ma fare onore alla propria firma o agli affari è un testo difficile. So quanto voi che, in una lingua inintelligibile ai puri spiriti, significa pagare una cambiale, un assegno o simili porcherie. So anche che un tenutario di bordelli, un avvelenatore della gente, un usuraio… fanno onore ai loro affari quando pagano esattamente le loro scadenze. Ebbene…?». Qui Léon Bloy è stupendamente insopportabile. Il cittadino è già oltre la pruderie borghese sull’onore di mogli e figlie. Egli, laico, onora assegni e cambiali. «Il primo dovere del cittadino, scrive ancora Leon Bloy, dopo quello di votare per degli acefali, è di scegliersi una carriera o di farsela scegliere… Tutto il resto è fantasia e grave pericolo per la società». Ma qui Bloy esagera, lo sdegno lo acceca. Tutto sommato il cittadino non è che un innocuo insetto sociale.

Manlio Sgalambro, Soldi erotici, La Sicilia, 24 maggio 1991

Soldi erotici

Pierre Klossowski ne La Monnai Vivante immagina un’epoca industriale – poi si vedrà che è già la nostra – in cui i produttori si faranno pagare dai consumatori con piaceri ed eccitanti emozioni. La persona umana, cioè, come fonte di piaceri, svolgerà il ruolo di moneta. «In che modo – si chiede Klossowski – la “persona umana” può svolgere il ruolo di moneta? E come i produttori, invece di “pagarsi” delle donne, si faranno mai pagare “in donne”? Come gli imprenditori, gli industriali pagheranno allora i loro ingegneri e gli operai “in donne”? Chi manterrà questa moneta vivente? Altre donne. E questo presuppone il contrario: delle donne che esercitano un mestiere si faranno pagare “in ragazzi”».
A questo punto Klossowski non indugia più, ma mostra come tutto questo già avviene: «Ciò che stiamo dicendo esiste già effettivamente. Senza ricorrere ad un baratto letterale, infatti, tutta l’industria odierna si fonda su un baratto mediato dal segno della moneta inerte che neutralizza la natura degli oggetti scambiati, vale a dire su un simulacro di baratto che consiste nella forma delle risorse in manodopera, dunque di una moneta vivente come tale inconfessata, ma già esistente».
Qui abbandoniamo temporaneamente Klossowski non senza riportare con noi una domanda e un problema. La domanda, prevedibile, è se il denaro non sia affatto inerte ma voluttuosa emozione. Mentre il problema, ovviamente, è quello dell’amore venale. In esso, infatti, l’atto di pagare entra a far parte dell’orgasmo come quello di essere pagati. La prostituzione non è uno scambio tra denaro e sessualità ma una tensione tra entrambi. Il che significa che la teoria della prostituzione come fogna seminale, dove vengono raccolti e dispersi i liquami seminali di una città (il vecchio libro di Parent-Duchatelet, De la prostitution dans la ville de Paris, Paris 1836, lo sosteneva con ammirevole puntiglio) non fa più testo. Essa echeggiava lo spavento di Agostino – «Se sopprimete le prostitute, le passioni sconvolgeranno il mondo» (De ordine, libro II, cap. IV, par. 12) – ma niente di più. Si tratta invece di capire il rapporto tra i due grandi piaceri nel momento in cui essi si incontrano e si uniscono. L’intervento del denaro mobilita il corpo e a suo modo lo eccita. Si ha una sessualità venale che non gode meno di quella carnale. La danza dell’orgasmo non vi è meno flessuosa. È fuori luogo la corrente osservazione che nel rapporto venale, il rapporto stesso viene ridotto a un livello assolutamente generico. Si incontrerebbero, cioè, una vagina e un pene.
Il denaro, invece, media altre qualità individuali non meno eccitanti. L’individuo infatti può non rispondere ai minimi canonici: giovinezza, prestanza, bellezza, aspetto maschio, virilità, eccetera ma essere ricco. Ma “essere ricco” è una qualità come essere giovane, bello, eccetera. La sessualità dei “poveri”, senza denaro ma solo “amore”, può essere scarsamente remunerata dal punto di vista dell’orgasmo. «Al desiderio risvegliato istantaneamente, e altrettanto istantaneamente spento, che la prostituzione soddisfa, è adatto soltanto l’equivalente in denaro… per il piacere venale, che rifiuta ogni rapporto che vada al di là dell’attimo e dell’impulso esclusivamente sessuale, il denaro, che una volta dato si separa in modo assoluto dalla personalità… serve nel modo materialmente e simbolicamente più perfetto, scrive Simmel nella Filosofia del denaro. Proprio per questo, continua poi il Simmel esso «è forse il caso più pregnante di degradazione reciproca alla condizione di puro mezzo».
In tutto ciò è però ignorato il carattere vivente del denaro. E quindi i soliti piagnistei. Ma giustamente Kossowski richiama al principio radiano della prostituzione universale: ciascuno e ciascuna sono chiamati a vendersi o a proporsi all’acquisto. Decisivo non è più il valore – il valore di quell’uomo o di quella donna – ma il suo prezzo. Più questo aumenta, più aumenta la sensazione voluttuosa. Ma a questo punto il disegno immaginario di Klossowski, da cui abbiamo iniziato, non ha più ragione di essere. Il carattere vivente del denaro rende superfluo il denaro vivente.

Manlio Sgalambro, La verità il verduraio e il filosofo, La Sicilia, 11 maggio 1991

La verita il verduraio e il filosofo

Leggo il breve trattato di Boezio di Dacia De summo bono. Il filosofo è virtuoso, vi leggo, per tre ragioni. La prima è che solo lui ha conoscenza piena della turpitudine e della nobiltà delle azioni e perciò può scegliere le seconde ed evitare le prime… Non vado più avanti. In realtà, tutta la capacità di leggere sta nel sapere non andare avanti. Ma soffermarsi, anche per anni, su un semplice punto come questo. Oppure vederlo æterno modo. Il filosofo è vizioso e corrotto, questo so io, e mi appare strano quello che leggo. Come se si fosse saputo da sempre. Il filosofo è vizioso e corrotto, questo per me è vero per trenta ragioni. Ma una mi basta. Chi ha a che fare con la conoscenza – con tutta la passionalità con cui si instaura un tale rapporto – non può accadergli qualcosa senza che gliela dia in pasto. Così se capita un guaio al suo migliore amico, egli fa tutto quello che si deve fare, ma come un sonnambulo, perché per il resto è tutto teso a carpire le mille sensazioni che gli provengono e a trasformarle, ebbene sì, in conoscenza. Egli è talmente legato al lato passionale della conoscenza da desiderare che a quell’amico capitino tutti i mali possibili per potere egli tagliare con il coltello della conoscenza il pane dell’amicizia. Per lui è dunque semplicemente ovvio che il filosofo sia un corrotto e un vizioso. Guai anzi se non lo fosse.
Chi è dunque il filosofo in senso extraaccademico (è di lui che stiamo parlando)? Lo chiediamo ancora una volta ma vogliamo raggiungere il climax. Egli è un tiranno, un mostro, un Tiberio. Ma tutto ciò avviene in lui come tra parentesi. Egli uccide, imprigiona, sevizia, sempre tra parentesi. Se non ci fosse l’epochè, ripeto, andrebbe dritto in prigione. Ma c’è l’epochè e così può starsene tranquillo nel suo studiolo a macchinare infamie, protetto dall’epochè.
«Lei dice delle cose sgradevoli, non delle verità» dice la celebre battuta. È così che viene rimbeccato il filosofo in senso extraaccademico. Ma questi insiste sulla parzialità della verità, cioè sulla identità di sgradevolezza e verità e non se ne da per inteso. Tra colui che è la verità e colui che ha la verità si insinua colui che è posseduto dalla verità. Naturalmente a questi tre bricconi viene opposta la logica della scoperta scientifica o che so io. Ma senti anzitutto con che tono viene esposta la cosa: «… posso essere profondamente convinto della verità di una asserzione, posso essere sicuro dell’evidenza delle mie proposizioni, posso addirittura essere sommerso dall’intensità della mia esperienza… ma può un’asserzione qualsiasi essere giustificata dal fatto che uno è profondamente convinto della sua verità? La risposta è “no”». Ma una cosa somiglia all’altra quanto Popper a un filosofo. Io ho una spina nella mente e tu mi parli di regole del giuoco – dice il filosofo in senso extraaccademico – tu giuoca quanto vuoi e divertiti. Io preferisco osservare il volo degli uccelli e regolare su esso il volo della conoscenza.
Io sono dunque un testimone. È accaduto qualcosa, io ero lì a tre passi, ho visto e sentito e dirò tutto. Ho visto la verità, dice costui, era così e così fatta, no non aveva la barba… Insomma è qui la differenza tra un popperiano e uno come me. Io non insegno, ripeto. Ma è come se le cose stesse mi si precipitassero addosso. Sì, mi si precipitano addosso e io le precipito addosso agli altri.
Il problema centrale dell’epistemologia è quello di accrescere la conoscenza, sostiene il popperiano. Ma che te ne fai se nello stesso tempo diminuisci il sapere? Accresci pure la conoscenza, ti dico, ma ciò che sai s’è ridotto a una lisca. Se dobbiamo parlare seriamente, l’unico filosofo che ci sia mai stato è Hegel. Semel emissum volat irrevocabile verbum: sì, ormai l’ho detto. Ma perché Hegel? Perché è l’unico che, quanto a lui, non ha avuto alcun dubbio e che ha detto, illico et immediate, la verità. Egli non ha “cercato” la verità – trattengo a stento il riso solo a dirlo – né l’ha “trovata” o altre idiozie del genere, ma egli ha detto la verità come il verduraio al mattino dice broccoli, lattuga, pomodori freschi. Era così an sich e für sich per lui insegnare la verità com’è an sich e für sich per il verduraio bandire i suoi pomodori. Egli non ha bisogno di dimostrare o di provare alcunché, lo dice e basta. Tu vuoi essere filosofo e non vuoi pagare nulla? Anzi vuoi essere pagato? No, amico mio, devi pagare con la tua vita.

Manlio Sgalambro, Scuola di noia, La Sicilia, 4 maggio 1991

Scuola di noia

Che la scuola produca individui mediocri e mal formati è esattamente ciò che essa deve fare. Individui funzionali che possano mandare avanti la baracca. Forti coscienze, individualità spiccate, metterebbero a repentaglio il comune senso della vita. La scuola deve anzi abbassare l’intelligenza al minimo, in maniera che da questa non provengano danni irreparabili.
Ciò che si affetta di rimproverare alla scuola, la scialba raffigurazione di geni e talenti, lo squallido avvilimento di grandi poesie, eccezioni della vita ridotte a sonnolente ruminazioni, tutto ciò, insistiamo, non è che il suo vero compito. Essa, per dir così istituzionalmente, deve fare sorgere nello stesso momento un senso di avversione per quanto insegna, in maniera che per tutta la vita si scelga di fare i farmacisti, gli avvocati, uomini politici senza grandezza, idraulici e pompieri. Essa funziona a menadito quando strema intelligenze curiose, ingegni arditi, inventori in pectore. Si finge di ignorarlo, anzi glielo si rimprovera con affettato candore.

Si imprende quindi a “migliorare” la scuola, come se essa potesse diventare altro da ciò che è. Dalla sua eterna essenza. La distruzione del concetto di verità è invece il suo compito, la noia per la bellezza è quello che deve assolutamente instillare pena i pericoli che possono derivarne per intere generazioni. Il senso della bellezza o della verità travierebbe coloro i quali ne fossero presi. La scuola deve evitarlo assolutamente. Nel suo insegnamento v’è il vaccino per il male che inocula. Ed in effetti il buon scolaro non ne sarà mai più ammalato. La scuola, dunque, adempie veramente il suo compito quando spegne o almeno attenua il danno dell’intelligenza selvaggia, lasciata a se stessa. Il suo compito è come la catarsi che mentre fa vedere passioni e vicende, ne cancella la volontà.

Le grandi vicende storiche vengono insegnate ma affinché si spenga il desiderio stesso di ogni storia. La scuola intorpidisce le menti, ma è il suo scopo. Banalizza o rende stupidi, ma è quanto deve fare. Ciò che l’umanità ha accumulato, poesia, filosofia, scienza, storia…, passando attraverso la scuola, passa così attraverso un filtro possente che le toglie il veleno. Da queste pallide immagini è quasi esulata la vita, così la scuola può fare il dover suo: insegnarle e nel contempo renderle innocue. Chi volesse altro dalla scuola avrebbe sbagliato indirizzo. La scuola si afferma come la più possente istituzione neutralizzatrice del sapere. I decisivi processi di neutralizzazione moderni, sono affidati ad essa. Tutto ciò che fu terribile nel sapere, l’oscuro, il misterioso, il tremendo, la scuola lo fa sparire. Essa compare quando tutto è fatto.

Nella scuola si insegnano guerre, sofferenze, dolori, tormenti della creazione: ma tutto come fosse dipinto. Il sapere neutralizzato non fa ormai nessun male. La scuola insegna il sapere ormai addomesticato, divenuto innocuo. La scuola deve produrre ingegni mediocri, individui di second’ordine, cavalli da tiro. Essa appartiene a ciò che altrove chiamammo il nirvana occidentale. Il regno dell’ex eroe, a cui il cuore palpita tranquillo, dell’uomo acquietato, dell’uomo che mangia e digerisce, del filisteo. La scuola moderna è il regno del sopravvissuto, dello scampato che vivrà fino a ottant’anni. A cui ciò che sa non avrà tolto nemmeno un giorno.

Manlio Sgalambro, Ipse dixit, La Sicilia, 27 aprile 1991

Ipse dixit

Io credo che per ognuno che pensi sia un obbligo delineare i tratti del proprio spirito. I miei contemporanei usano trattarne come fenomeno generale. Io resto fermo all’idea di descrivere le caratteristiche della mia propria mente. Ritengo che offrire un quadro del mio modo di pensare sia più importante che offrirne una trattazione generale. È qui ancora un altro punto di contrasto con la tendenza della mia epoca. Essa apprezza Kant per questa ragione. Ma io stimo di più Descartes per l’altra.
Non mi preoccupa a chi appartenga un pensiero, ma della sua verità o, se si preferisce, della sua conformità al mio. In tal caso me ne approprio come se mi appartenesse.
Per quanto indaghi nel mio modo di essere io non vi trovo alcuna idea morale; ne desumo che essa sia un’idea riflessa e che abbia bisogno per essere, almeno di un altro. Le idee di questo tipo mi sembrano dunque derivate come tutte le idee di relazione. Con tutto ciò, l’imperativo categorico che rende conto di una delle possibilità più alte della specie o almeno di alcuni dei suoi membri, mi sembra una delle due o tre cose per cui vale la pena della sua esistenza.
Da che presi la decisione di pensare credo di averla fedelmente mantenuta. Che sia una decisione è ciò che mi mette in contrasto con quanti ritengono il pensare spontaneo. Intendo esaminare questa decisione perché mi pare che possa essere un contributo valido in generale. Definisco pensare l’attenzione per tutto ciò che non è se stessi o per se stessi ma come se non lo si fosse. Per gli equivoci che causa sono propenso a usare invece di «pensare» essere attento e al posto di pensiero attenzione. Uno dei benefici sarebbe quello di lasciare «pensiero» all’uso corrente. In quanto all’idea di sforzo con esso connessa sarebbe bene espressa dal concetto di attenzione a cui è implicito. Definisco, poi, idea lo scarto tra noi e le cose. Allibisco quando sento dire che entrambe sono identiche. È il potere di questo scarto che definisce la stessa capacità di pensare.
Io credo che chi ha scelto di filosofare ha scelto di sapere. Né riesco a prendere in considerazione chi dice il contrario. Non mi sorprende certo la professione del dubbio, ma mi meraviglia che la faccia chi nello stesso tempo fa quella di filosofia. Lo confesso schiettamente: se mai io faccio aperta professione di dogmatismo. Come Spinoza ritengo che le cose sono così come le dico. Ciò, s’intende, ex cathedra. Io credo infatti di avere raggiunto la filosofia nel momento stesso in cui ho messo da parte due o tre idee indubitabili. I lunghi anni passati prima che ciò avvenisse non mi sento di dire che io già facessi della filosofia. Fu piuttosto una lunga introduzione durante la quale qualcosa montava.
Sono dell’idea che la serietà da cui io sono, per così dire, perseguitato, non sia che una certa cupezza che corrisponde a ciò che altri chiamano sentimento dell’evidenza. Quest’ultimo infatti per me non è altro che un senso dell’estraneità. Ma non come se ciò mi soddisfacesse o completasse ma come qualcosa di oscuro che porto in me e di cui non so liberarmi o non voglio. Ho definito qualche volta la verità come il mondo senza l’uomo. Ho cercato di immaginare un mondo in cui non esistessi o esistessi solo per constatare che non esistevo. Questo magnifico stato in cui io non vi ero, o vi ero solo per constatare che non vi ero, mi parve che solamente si potesse chiamare verità e me ne compiacqui. La simulazione a ciò richiesta non credo sia tra le ultime qualità del filosofo. Anzi ritengo quest’ultimo un simulatore almeno in ciò che egli deve immaginare tutto un altro stato di cose per potere appena appena avere qualche cenno di quello che ha presente. Ci fu sempre chiesto di dimenticare tutto ciò che vediamo e udiamo per potere in qualche modo sapere qualcosa di ciò che veramente è. Non ultima qualità del mio spirito che ho cercato di delineare v’è questa facoltà della dimenticanza che mi permetto di contrapporre a quella, più reputata, della memoria in cui si dilettano i miei contemporanei. Dalla dimenticanza cerco di guadagnare un altro tipo di vita.

Manlio Sgalambro, Virtù bestiali, La Sicilia, 6 aprile 1991

Virtù bestiali

Antropologia minore
Alla fine dello scorso secolo, secolo infine esaltante per l’uomo, i suoi simili puzzavano anche se l’odore femminile, in pratica l’odore delle ascelle, faceva impazzire. In Francia, andava dicendo Vacher de Lapouge, la maggior parte delle donne morivano senza aver fatto un bagno (Eugen Weber, France fin de siécle, Harward University Press, 1986: trad. it. Bologna 1990). Tra le tante cose che l’uomo perderà col progresso vi sarà il suo odore. La sua affinità con gli animali, oggi affidata ai loro diritti, alle effusioni e alla pubblica assistenza per i cari cugini, era allora testimoniata dal suo odore di capra e dell’Origine della specie. Non era poco!

L’onesta cattiveria
Nella celebre lezione L’uomo e le scimmie, che praticamente aprì in Italia il di-battito sul darwinismo, letta da Filippo de Filippi l’11 gennaio del 1864 a Torino, l’eminente zoologo, dopo avere motivato la sua adesione al darvinismo, afferma che la filosofia naturale non rinunzia tuttavia alle sue ragioni se riconosce «un regno umano». «La legittimità di questo regno non può essere contrastata. Chi la acconsente e chi la rifiuta concorre ugualmente a dimostrarla, poiché di tanti assoluti distintivi morali dell’uomo, di tanti suoi attributi esclusivi, due sono certissimi: quello di mettere se stesso in questione, e l’altro di porsi in lotta coi suoi sentimenti. Chi non vuol riconoscere come appannaggio esclusivo dell’uomo il dubbio filosofico, il sentimento morale, il religioso, dovrà vedere nel fondo del calice delle miserie umane queste affatto caratteristiche e proprie, che sono il maligno sospetto, la menzogna, il suicidio».
Una antropologia che ancora tenga a differenziare l’uomo dall’animale ha da apprendere da questo zoologo. Malignità, menzogna e suicidio ci distinguono dagli animali ma ciò non per sciogliere un peana ai «buoni» animali ma per affinare le nostre idee sulla onesta «cattiveria» dell’uomo che infine è ciò che lo distingue veramente.

L’offesa
Vorremmo descrivere meglio un certo sentimento di offesa che accompagna la nostra esistenza. Dopo che l’analisi del dolore falli il suo intento – convincerci sulla base di esso del miserando stato del mondo – si poté scorgere, dietro l’infantile piagnucolio, il congegno. Felici coloro che il dolore aveva fin lì protetto e distratti dai loro lamenti. Assordati dalle loro stesse urla non avevano sentito né visto. Si trattava ora di una infelicità senza dolori, l’infelicità di un orgoglio ferito. Restava dunque un sentimento dell’offesa che non si sarebbe mai potuto cancellare, l’offesa di essere vivi. Stato umiliante per chi aveva in qualche modo assaporato l’onore del nulla.

Del ritratto
L’assenza di ritratto è il ritratto del nostro tempo. Esso rispecchia oggi quel «nessuno» che l’individuo, senza volerlo, vuole essere. Mentre la facies pubblica, già per conto suo, ne ha cancellato i tratti e impresso la medesima fisionomia. Il ritratto non ha mai avuto anima. Oggi non ha neanche volto. Esso mostra proprio questo: che il volto non ha più importanza. Ma la sua scomparsa è la spia dell’autentica condizione dell’uomo odierno che mira, nei fatti, all’indistinzione. Tutti le stesse facce, aveva pronosticato Hegel. Affondare. cioè, in questo indistinto, perdere ogni individualità è ritrovare l’anonimità originaria, la pura vita senza volto.

Goethe e il suo libraio
Parlare di specie umana è sospetto di disattenzione. Se l’occhio si fa un tantino più circospetto è possibile scoprire enormi crepe che si aprono in seno alla supposta «umanità». Si re-sta dubbiosi che l’identità possa giocare veramente un ruolo cosi determinante. Alcune cose sono certamente note comuni – ad esempio un volto, le estremità superiori e inferiori, il camminare eretto, un sesso… -. Ma cos’ha a che fare con te quel cialtrone? Perché fare ingiuria a te stesso sino al punto da ritenerti simile a lui? L’assillante domanda di una volta: cosa differenzia l’uomo dall’animale ci interessa meno di quella che oggi ci preoccupa fortemente e che riguarda la differenza dell’uomo dall’uomo. Coglierne le uguaglianze ci ha occupato a lungo e inutilmente. Adesso vogliamo renderci ragione di Goethe e del suo libraio.

Manlio Sgalambro, Un’etica della catastrofe, La Sicilia, 23 marzo 1991

Un'etica della catastrofe

La descrizione di eventi cataclismici comincia usualmente con toni da tragedia per poi finire con quelli della farsa. Più aumentano gli aggettivi, in una rincorsa disperata verso l’espressione migliore, più si ottiene questo effetto.
Uno scritto di un contemporaneo sul terremoto calabro-siculo del 1783 porta il titolo Spaventosissima descrizione dello spaventoso spavento. L’evento è caduto in mano all’ironia. Ma essa, come sempre, e liberatoria.
I saggi come Goethe sanno invece scorgere in mezzo alle rovine la vitalità che vince (come si può vedere dal Viaggio in Italia che lo porta a Messina nel 1787) e l’incremento dell’attività sessuale. Ma la catastrofe qui era trascendente, segnasse i limiti della natura odi Dio.

Oggi la catastrofe è immanente: segna i limiti della società (come si sa oggi lo stesso terremoto non e più un evento naturale quanto un evento «sociale»).
«Lo spettacolo di tante miserie, quali quelle prodotte dall’ultima catastrofe tra i nostri concittadini – scrive Kant in merito al terremoto di Lisbona del 1755 – deve suscitare l’amore del prossimo e farci partecipi, almeno in parte, della sventura che li ha colpiti con tanta durezza» (Immanuel Kant, Scritti sui terremoti curati da Paolo Manganaro, Salerno, 1984).
Queste generiche considerazioni restano al di sotto dell’etica, né Kant riprenderà il problema, né nella Critica della ragione pura né nella Metafisica della virtù. Se di fronte all’etica kantiana c’è una natura, essa non si vede più. Un’etica della catastrofe è invece necessaria.
Quale dev’essere la condotta permanente davanti a essa?
Il pericolo è infatti insito in società complesse come le presenti. Dalle centrali nucleari, all’incremento demografico, all’impauperimento improvviso, all’evento bellico, l’elemento catastrofico convive con noi. Il moralista non può essere che un creatore di panico, come dice uno tra essi.

«In effetti, il compito morale più importante – scrive Günther Anders – consiste oggi nello spiegare alla gente che deve avere paura».
Ma non possiamo limitarci a questo. È necessaria, si deve insistere, un’etica della catastrofe in cui la domanda «che devo fare?» si colleghi alla vita minacciata.
La solidarietà, la reciproca compassione sono il serio frutto di un ethos che vi si richiami. Mentre l’inganno di massa si trastulla con l’idea di catastrofe, trascendente e aleatoria, l’idea invece che essa sia incombente stringe gli individui in una unità dinamica e assume la funzione di una massima dell’agire che si può così formulare: agisci come se dovessi salvare te stesso e gli altri da una minaccia alla vita.

La percezione della catastrofe deve dunque sollevarsi dalla sudditanza passiva all’evento estraneo. Con ciò la comunità che lo subisce se ne riscatta scongiurando la propria perdita nell’evento. La comunità davanti all’evento cataclismico, riassume il proprio Sé e prende in mano il proprio destino pur nella malasorte. La minaccia non più solamente subita, resi come siamo consapevoli dell’implacabile mondo, ci accomuna non soltanto nella sofferenza ma nella lotta contro il dolore e l’affanno finché ci sarà data vita.

Manlio Sgalambro, La povertà per troppa abbondanza, La Sicilia, 9 marzo 1991

La povertà per troppa abbondanza

Si può prevedere l’avvento di una povertà razionale, non subita, ma sapientemente voluta. I bisogni inariditi, si guarda il pullulio di cose ma la mano non si muove ad afferrarle. Lo sbadiglio davanti a una colma vetrina suggella l’accaduto. Come nell’amore l’eccesso spegne il desiderio e la donna più amata si guarda annoiati, così si inaridisce il bisogno e restano quelli primordiali: qualcosa da mangiare, qualcosa per coprirsi, un tetto, un rapido coito senza amore.
Si percorrono le vie come monaci erranti, con gli occhi che sorridono a Dio.
Sorge dunque un nuovo tipo di povertà, dovuto all’abbondanza dei mezzi non come la povertà tradizionale. Essa diviene un denaro negativo con cui non si acquista ma si possiede ugualmente. La pura essenza delle cose è fatta nostra come nel vecchio filosofo, nel rapido sguardo, le Idee.
Decisiva è a questo riguardo la noia. Non una noia patita, ma, si deve insistere sull’aggettivo, razionale. Come se essa fosse escogitata e tuttavia condivisa. Una noia diventata un’abitudine della mente, se così si può dire.

Si perviene alla fine a un francescanesimo “scientifico” che ricava il suo anelito non dalla gioia divertita ma dall’indifferenza più rigorosa. Il francescanesimo tradizionale si separò allegramente dalle cose, facendo capriole, ma ciò appartiene al passato della rinunzia occidentale.
Oggi subentrano o la noia oppure la frivolezza e l’ironia del blasé (indagate da Simmel nella Filosofia del denaro; ciò è significativo). L’ironia rispetto alle cose prende il posto del desiderio convulso, nello stesso momento in cui il blasé si trastulla con le cose come un giocoliere, esse perdono la loro consistenza. Subentra il possesso della loro immagine. Come nell’antica novella, nell’odore dell’arrosto si inzuppa il pane con gusto.

Mentre si profila il tracollo della più sublime energia cosmico-storica, la forza-lavoro (Arbeitskraft), essa piomba intanto nell’autoderisione e corona la sua camera nell’infinito miglioramento di un modello di water o di una maniglia di automobile. Non per economia è nata l’economia; questo insegnamento sta alle soglie dell’antieconomia che la prende in custodia. La definizione negativa della Filosofia del denaro – «Non una riga di questa ricerca è intesa come appartenente all’ambito dell’economia politica» – riassume lo statuto dell’antieconomia.
Essa tratta l’essenza immaginaria della ricchezza, la sua seconda esistenza. Per la povertà affamata tutte le cose sono buone. Per la povertà razionale tutte le immagini sono buone. Il denaro positivo è il valore delle cose senza le cose (Simmel, Filosofia del denaro). Il denaro «negativo» è il valore delle immagini senza le cose. Per il blasé – se è in lui che s’incarna il tipo del povero razionale – la ricchezza possibile sta più in alto della ricchezza reale.

I classici tipi di caratteri in rapporto al denaro – l’avaro, il prodigo, l’avido… – sorgono in funzione della ricchezza reale. Nei limiti in cui si afferma una ricchezza possibile che può essere goduta senza possesso, essi sono un fossile caratteriologico. Scomparirebbe anche il risentimento, come caratteristica del povero tradizionale. Il salto qualitativo dall’abbondanza dei mezzi all’abbondanza delle loro immagini indicherebbe il passaggio a questa nuova ricchezza o a questa nuova povertà.

Manlio Sgalambro, Del mostrare un quadro, La Sicilia, 23 febbraio 1991

Del mostrare un quadro

Del mostrare un quadro
Nel mostrare si mostra il mostrare stesso. Bisogna distinguere l’atto del mostrare da ciò che si mostra. Senza questo perdiamo l’essenza del mostrare ed esso diventa un mero segnale, una povera indicazione. Ben poco infine. Comunque non quello che si vuole.
Si deve anzitutto esporsi al «niente» che si insinua tra l’atto e la cosa. Soffermarsi su di esso, farne il tema iniziale di un impegno visivo. Non guardare ciò che si vede, ma il vedere. Non guardare ciò che si mostra, ma il mostrare. Il vuoto che si delinea è uno spazio più spesso. È come se vuoto viene percepito come resistenza. Come se esso espellesse ogni altra cosa. Ma cos’è ciò che resiste? Niente. «Niente» ci resiste.
Lo spazio è occupato, ma da se stesso. Tuttavia se chi guarda non apprende a guardare prima di tutto lo spazio, l’atto di mostrare non si svela. Se il mostrare non si svela non ci può essere «mostra». E quelle «cose» appese ad una parete non si «vedono» neppure. Cosa si mostra dunque nell’atto del mostrare? Si è detto, il vuoto. Ma come se esso occupasse lo spazio e non ci fosse posto per altro. Lo spazio è ingombro di se stesso. Ogni altra cosa è un’intrusa. Attraverso questi atti che evocano dunque lo spazio, attraverso questi atti iniziatici, si apprende man mano l’atto del mostrare. Solo ora si può guardare. Ciò che c’è emerge dunque dal mostrare. Se non si mostra il mostrare stesso non si può «guardare» nulla perché nulla si può «vedere». Solo dopo che si è mostrato il mostrare, solo assieme al mostrarsi del mostrare, si comincia finalmente a vedere. Solo allora c’è «mostra».

Dov’è un quadro
Un quadro non è altrove ma là dove si vede. Invano lo si colloca nella storia dell’arte, nell’artista, nella critica, ovunque: esso è là, e basta. Anzi quanto più la sua presenza elimina i referenti tanto più c’è. Non si tratta di eliminare quelli oggettivi soltanto: la natura, la figura, ecc., ma al limite ogni suo referente, l’arte inclusa intesa come rassicurante tradizione. Compreso lo stesso artista che vuole recuperare a sé la «sua» opera circondandola di cure. Dopo averla dipinta, egli la «parla». Ma ogni parola che aggiunge, toglie qualcosa all’opera. Essa è là, dura, opaca, inerte. Questo spaventa l’artista: da qui il continuo tentativo di recuperarla alla sua soggettività. Di riaffermarsi su di essa. Ma più vi è opera d’arte, più l’artista è superfluo. Egli disturba con la sua «presenza», la presenza dell’opera.

Tutto sarà spazio
Una ragionevole domanda di Heidegger – «La scultura corrisponde… alla conquista tecnico-scientifica dello spazio? (vedi Heidegger, Die Kunst und der Raum, trad. it., Genova, 1984) – pone non trascurabili problemi. Mentre, nello stesso tempo in cui esso si affermava con Galilei e Newton, la letteratura indietreggia davanti allo spazio – Corneille ad esempio parla solo una volta delle stelle, nel Cid, e Racme solo una volta del sole – l’arte figurativa si rende conto di essere arte spaziale. In un primo tempo sembra che contenda lo spazio allo spazio. Che essa affermi il «suo» spazio come il «vero» spazio. In questo senso essa partecipa alla «conquista» dello spazio. Ma in questa lotta un quadro, una scultura alla fine perdono. Alla fine lo spazio li inghiotte. Se essi vogliono contendere lo spazio allo spazio non possono che perdere. Ma se si abbandonano allo spazio allora vincono assieme allo spazio. Poiché un giorno tutto sarà spazio.

Manlio Sgalambro, Esercizi spirituali in pubblico, La Sicilia, 16 febbraio 1991

Esercizi spirituali in pubblico

«Con il termine di esercizi spirituali s’intendono tutti i modi di esaminare la coscienza, di meditare, contemplare… ed ogni attività spirituale».
— Ignazio di Loyola

Io credo che siano nel giusto coloro che in filosofia cominciano dall’uomo. Per me però significa il tentativo di sbarazzarsene. In effetti l’uomo trattiene la conoscenza e la rivolge a sé, mentre io ritengo conoscere un atto che deve collocare il suo soggetto ben al di là. In altre parole io ho sempre sostenuto che per la conoscenza, o per una conoscenza rispettabile, l’uomo stesso non è umano. Questa dev’essere infatti la prima regola che deve seguire colui che eventualmente se ne voglia occupare.
Coloro che nel filosofare concludono con «l’uomo» mi sembra che abbiano seguito una via parecchio disprezzabile. In ciò mentre approvo gli sforzi della filosofia «moderna» e le vie che essa ha aperto, non la seguo laddove essa non tratta l’uomo o l’io come un inconveniente che sopravviene alla conoscenza ma che ogni decente filosofare deve fare in modo da evitare.
Coloro che hanno a cuore gli interessi della conoscenza subiscono aborrendolo il suo punto di partenza. Essi concordano con Descartes ma non con il suo trionfalismo. Nessun trionfo ritengo infatti che possa rappresentare il rinchiudersi dentro i confini della specie e maneggiare la conoscenza in riferimento ai suoi bisogni.
Depreco quindi egualmente il trionfalismo di Kant ed in genere di quelle filosofie che trovando necessario partire dall’io, inneggiano ad esso come se fosse una grande conquista e non invece una miserabile sorte.
Un’altra regola che seguo è di accostarmi a ciò che fu pensato con un senso di colpevolezza. Solo perché siamo vivi ed essi, i pensatori del passato, no, noi abbiamo ragione. Essendo qui «ragione» nient’altro che la vittoria del più forte. Per il fatto che essi vivono solo mediante il nostro ricordo noi ne facciamo ludibrio e l’ermeneutica di cui meniamo vanto ci sembra non diversa dall’aruspicina. Frugando l’interprete nei resti di un pensiero come l’aruspice nelle viscere di un animale. E con gli stessi scopi. Quanto meno la consapevolezza di questa ingiustizia sia la pena per la nostra colpa.
Devo confessare una certa tendenza al lato estetico delle idee. Ciò mi da dei turbamenti. Un’idea non mi sembra veramente attendibile se non appaga anche i miei sensi.
Devo dire però che la Metafisica di Aristotele o l’Etica di Spinoza soddisfano il mio senso estetico più che i dialoghi di Platone o qualunque scritto di Nietzsche.
E più di una volta, mentre la leggo, sto ad ascoltare La scienza della logica di Hegel come se da essa emanino suoni. Proprio per questo il linguaggio a ciò preposto – la poesia o il romanzo o la stessa musica – mi sembrano spesso inferiori nell’uso della forma. Essa riceve manifestamente la sua forza da ciò che contiene. Ciononostante mi turba, ripeto, questa attrazione e mi afferra perfino il dubbio che il mio status di filosofo ne venga leso. Tuttavia non mi sogno di affidarlo alla argomentazione. Per cui il modo come l’idea viene resa sensibile resta primario.
La mia tendenza al pensare breve (come preferisco chiamarlo piuttosto che con l’equivoco nome di aforisma) affonda anzitutto, se io mi devo confessare, nella mia incostanza. Io non so restare fedele a un tema.
Ma d’altra parte è altrettanto vero che è smisurata la quantità di sfumature che può cogliere un’intelligenza in esercizio. Si può vedere da qui come io mi regolo su una certa idea di intensità piuttosto che di estensione. D’altra parte io ho una certa diffidenza per il pensiero eloquente. Ritengo che chi pensa deve talmente dimenticare l’idea di un interlocutore da potere escludere sinceramente di averne uno.
Ciò che Descartes ritenne necessario di dover fare preliminarmente e cioè non tener conto di ogni opinione e di ogni sapere ricevuto, io ritengo di doverlo fare con ogni interlocutore. Suppongo, cioè, di non averne; che il filosofare, voglio dire, non ne abbia alcuno. Ciò se è ipoteticamente tenuto per vero e in ogni caso creduto sino al punto di avere per ogni possibile altro una assoluta indifferenza genera in chi filosofa una tale «libertà» che egli può ben dire di non avere né limiti né condizioni. Io ritengo infatti che i limiti alla conoscenza nascono dalla esistenza dell’altro o, piuttosto, dal tenerne conto. Ne nascono in ogni caso i compromessi e dalla pietà che l’altro ci desta per il male che gli facciamo rivelandogli le cose come stanno e per i suoi bisogni che siamo indotti a soddisfare con la conoscenza.
Per quanto riguarda coloro che mi leggono io vorrei il loro indiscusso favore o niente. Poiché io condivido i loro favori con mille altri, ciò mi desta solamente furore. Mi meraviglia quanto sia apprezzata la fedeltà nell’ordine della carne e quanto essa sia ignorata nell’ordine dello spirito. Dopo che uno spirito avesse fatte le sue esperienze io vorrei che egli si legasse a me esclusivamente. Ma questa fedeltà è vista con assoluto disdegno e so come invece siano in auge gli spiriti leggeri.
Io amo più l’idea di necessità che quella di libertà e mi riempie di maggior gioia il pensiero di essere determinato in tutti i miei atti.
Non vedo in che la figura del triangolo, retta da leggi rigorose, sia meno di me. Ma so pure che sono in qualche modo costretto a pensarmi libero. Questa libertà non essendo altro che il riflesso della necessità dei propri atti in una coscienza tentata.

Manlio Sgalambro, Una prova disperata di se stessi, La Sicilia, 2 febbraio 1991

Una prova disperata di se stessi

La guerra è misteriosa
Come risuona cupo questo giudizio di De Maistre e tuttavia quanto chiarore v’è contenuto. Ma d’altra parte quante ipocrisie. Sentiamo ancora De Maistre: «L’angelo sterminatore gira come il sole attorno a questo infelice globo, e non lascia respirare una nazione che per colpirne altre». Diciamolo pure allora: la guerra esiste sempre, solo c’è un momento in cui essa esiste anche per te, ecco tutto. Ma c’è anche quello che Ernest Psichari chiamo «l’appel des armes». (Quando egli scrisse questo dimenticato romanzo «il faut rappeler que l’on était au temps du plus grand triomphe des pacifistes. On réprouvait tout emploi de la violence, toute action de la force… Il fallait détester les fusils», L’appel des armes, pp. 16-17. Insomma si era alla vigilia della prima guerra mondiale). La battaglia, non la guerra: qui le cose cambiano. La guerra è un concetto politico; la battaglia una forma di vita.

La forma di vita del combattente
Si potrà discutere quanto si vuole se la guerra è giusta o no, mai se una battaglia è «giusta» o «ingiusta». La battaglia, dunque, è la forma di vita del combattente. Ernst Jünger, in Der Kampf als inneres Erlebnis (che tradurrei La battaglia come esperienza interiore), parla della «bramosia di scatenarsi del tutto nella battaglia». In un altro punto scrive: «Nel fragore dell’orgia il vero uomo si risarcisce di tutto il tempo perduto. Le sue pulsioni, a lungo tenute a freno dalla società, ritornano ad essere l’elemento unico e sacro e la ragione ultima». E ancora «La volontà di uccidere spinge allora gli uomini… e quando due uomini cozzano l’uno contro l’altro nella vertigine della battaglia, a colpirsi sono due entità, delle quali soltanto una può sussistere. Infatti queste due entità si pongono reciprocamente in un rapporto originario, nella lotta… nella sua più nuda forma». A questo punto Jünger parla di «estasi». Il combattente, scrive immaginosamente, «è come la tempesta che strepita, il mare che mugghia ed il tuono che rimbomba… Egli si è fuso con il tutto, arrestandosi sulle nere porte della morte come un proiettile sull’obiettivo».

L’individualità solo apparenza
Diciamolo con parole nostre: il combattente nella battaglia si prova. La sua vita non è più il banale fatto che egli è nato, che vive, ma una conferma, un «Sì» non importa di chi o di che cosa. Qui si dipartono comunque due grandi visioni. Quando nella Bhagavad Gita, davanti ai due eserciti dei Kuru e dei Pandu pronti alla battaglia, il giovane Arjuna domanda al dio Krsna se si può uccidere, la risposta del dio è che si può uccidere perché l’individualità è solo apparenza e il vero Sé è uno e immortale. Ma se ognuno è l’altro anche uccidere è illusorio ed illusorio è essere uccisi. La battaglia quindi non prova niente.

Perché ha torto il principe di Condé
L’altra è contenuta nella risposta del principe di Condé al cardinale Mazzarino che compiange i seimila morti in battaglia presso Friburgo: «Suvvia, una sola notte a Parigi fa nascere alla vita più uomini di quanto questa azione militare ci sia costata». Qui uccidere ed essere uccisi è reale. Ma se nessuno è l’altro, nessuno può essere sostituito ed il principe di Condé ha torto. Solo in queste condizioni la battaglia può essere una forma di vita. Una di quelle situazioni – come la fede, il sapere, l’agire morale – entro cui l’individuo prova disperatamente se stesso.

Manlio Sgalambro, Il quadro malattia dello spazio, La Sicilia, 26 gennaio 1991

Il quadro malattia dello spazio

Una certa devozione allo spazio ci induce a resistere alla tentazione di aderire alla tesi che lo spazio è il dominio della volontà. Abbiamo immaginato questa analisi. Un quadro occupa lo spazio la cui intelligibilità ne resta lesa. Ne deturpa la purezza. Ma l’atto di occupare è l’atto stesso di esistenza. Senza quest’atto il quadro non esiste: è solamente là. Lo spazio dunque respinge il quadro. Se ne avverte la resistenza allorquando gli occhi che tentano di posarsi su di esso sono invece sospinti a forza sul suo rapporto con lo spazio. Ecco che allora tutto si sovverte. Non è il quadro la cosa più importante, ma lo spazio che lo invade e lo soverchia da tutti i lati. Il quadro allora diventa l’occasione perché lo spazio si mostri. Si rovesciano le parti. Il quadro esordisce da protagonista riducendo lo spazio a un mezzo. Ma di colpo lo spazio si scrolla d’addosso il quadro che inizia la sua misera esistenza. In effetti chi non «vede» lo spazio non vede nemmeno il quadro. Lo sguardo che vede lo spazio è legato al suo vuoto. Esso non vorrebbe che fosse mai occupato. Il vuoto dello spazio è il richiamo che esso esercita sull’individuo.

All’inizio non c’è altro che lo spazio. Il quadro non è nemmeno «visto». Lo spazio e solo esso ci interessa. L’individuo se ne sente avvolto, avvinghiato. A poco a poco vi si distende, vi aderisce, diventa un essere geometrico. Qualsiasi quadro offende lo spazio. Turba il grande vuoto che ci invia il suo appello. Il quadro dunque è un disturbo, un inceppo, un graffio magari, un segno comunque che la solennità di questa sovrana omogeneità è turbata. Si crea dunque uno squarcio, una infruttuosa ferita, nel tessuto dello spazio. Il quadro nasce come una malattia dello spazio, una escrescenza velenosa, un attentato alla sua divina integrità. Ma solo se questa offesa si realizza, solo se un quadro ha questa forza di lacerare il suo ordine segreto, allora il quadro esiste. Altrimenti lo spazio l’inghiotte, lo ricompone nella immensa pace, senza increspature, della sua superficie.

Le arti spaziali lottano dunque contro lo spazio che minaccia di incorporarle. Un quadro deve anzitutto affermarsi davanti allo spazio. Da un lato esso sottrae spazio, incorpora spazio, come se volesse in qualche modo diminuirne la sorgente inesausta. Dall’altro sembra che «doni» spazio. Fermiamoci qui. In questo complesso scambio sembra il punto più fermo. Un quadro riesce allorquando dona spazio. Allorché non ruba spazio, ma lo aumenta. Così lo spazio ora lo accoglie, gli dà un ricetto, una nicchia. Lo accoglie dentro se stesso. Esso vi scompare. Fa ormai parte dello spazio. Non come prima, però, quando lo spazio lo cancellava con un gesto indifferente. Adesso lo spazio lo accoglie. Esso diventa, in qualche modo, un punto d’onore dello spazio, un suo luogo privilegiato. Ma in tutto questo agisce ancora l’essenza dello spazio. Come se un abisso fosse al di dentro di esso.

Infine, ciò che è accolto dallo spazio vi scompare. Così l’opera d’arte che ha a che fare con lo spazio o può essere solo un segno avvilente, una cattiva macula, una disomogeneità senza importanza e scomparire nello spazio come in un cesto di rifiuti. Oppure si annulla nello spazio ma nel senso che anch’essa ormai ne fa parte. Che lo spazio l’accoglie e la benedice. Questo sprofondare nello spazio, e la sua accoglienza, è la nobiltà del quadro.

Manlio Sgalambro, Vivere di idee, La Sicilia, 20 gennaio 1991

Vivere di idee

Io sono un chierico, uno che vive, cioè, o lo vorrebbe, in una continua attenzione allo spirito. Che i miei tempi non lo consentano io non ne sono affatto disgustato. Mi immagino questa torma di gente occuparsi delle cose dello spirito, portare in esse il proprio lezzo, l’unto della propria anima! Essi vivono di verità rivelate: essendo queste non le sole verità religiose, ma qualsivoglia verità di cui non portino la responsabilità. L’attenzione allo spirito è tutto ciò che mi occupa veramente. Poiché io sono fermamente convinto della dualità delle sostanze (cosa che i miei contemporanei hanno in orrore preferendo essi vivere su l’unico piano di cui dispongono senza sforzo), lascio al mio corpo gli atti quotidiani impegnandomi almeno a regolarli con l’abitudine che ritengo (anche qui contro i miei contemporanei) l’impronta lasciata dallo spirito. Un’altra cosa che mi separa da essi è il loro impegno sui problemi «attuali». Sui problemi di cui l’epoca ha bisogno. Imporre alla propria epoca un problema a cui essa rilutta, o almeno tentarlo, mi sembra cosa più confacente a chi fa professione d’intelligenza. La mia avversione verso l’uomo «pratico» è un’altra delle cose che io riporto a questa professione. Quella della pratica è la religione del mio tempo. Non solo questo ha reso impossibile il tranquillo divagare, la mente che segue distratta e pigra il farsi del giorno, ma a tutto questo essa ha impresso il terribile sigillo della noia. Chi non sprofonda nei mille atti della religione della pratica, non è punito nel cielo, ma qui e subito. Un’altra avversione, che io ritengo un’avversione stessa dello spirito, è verso il moltiplicarsi della specie quando uno solo basterebbe. L’idea di molteplicità, da sempre invisa all’intelletto, riportata su questo terreno, provoca un profondo disgusto per quegli esseri con cui si deve condividere lo spazio. Con cui si deve camminare, respirare persino in comune. lo preferisco una chiara ingiustizia a una giustizia confusa. Ciò non è solo una eredità della mia educazione cartesiana. Credo che faccia parte di me. Poiché scrivo libri, ho chiara l’idea dell’ingiustizia che c’è nel fatto che un mio libro sia pubblicato e quello di un altro no. Ma questa ingiustizia non mi produce l’idea di rimuoverla, come avviene agli spiriti confusi, né quella di nasconderla. Io posso convivere perfettamente con l’idea di ingiustizia e credo che ciò che si chiama comunemente giustizia non sia che il minimo di ingiustizia possibile. Anche l’idea del male che si arreca agli altri non mi indigna quanto invece indigna il secolare. L’idea di fare il minimo male possibile mi sembra, talora, che sia solo quella del bene quando s’è chiusa la bocca all’eloquenza. A questo proposito, io credo che gran parte delle idee che comunemente si scambiano siano di genere oratorio. Allorquando la gente ordinaria passa da un problema d’uso, che essa tratta in maniera pertinente, a un problema per essa inconsueto, io credo che faccia solo eloquenza. Nel loro spirito non corrisponde niente. Come ho già detto essa non si assume la responsabilità delle idee che usa, ma vive di verità rivelate. Ho detto pure che considero verità rivelate quelle di cui non si è l’origine. Poiché io scrivo, ho qualcosa da dire al riguardo. Ritengo indispensabile avere un ethos della scrittura. Io non do soverchia importanza alla morale che riguarda gli atti. Ritengo infatti che dopo la grande rivoluzione gesuitica, davanti alla quale le idee di Nietzsche sulla morale fanno ridere, non ci sia da curarsene troppo. Ma credo che per chiunque «pensi» sia indispensabile una morale del pensiero. Credo anzi che non ci sia delinquente peggiore di colui che ne infrange le leggi. A tal proposito credo che ciò avvenga spesso nella cosiddetta letteratura. (Debbo dire che talora ho vergogna del mio amore per essa). L’esercizio del pensiero, essendo l’unico oltretutto in cui io provi gioia, resta per me l’unica misura delle cose e degli uomini. Non ritengo però, e in ciò dissento dal mio maestro Descartes, che tutti pensino o meglio che ci possa essere identità tra il «pensare» funzionale dei più e il pensare fine a se stesso di alcuni. Non so se ci sia una morale dei signori e una morale degli schiavi, come fu sostenuto, ma so di sicuro che c’è un pensiero degli schiavi di cui non mi curo.

Manlio Sgalambro, Le idee statali, La Sicilia, 12 gennaio 1991

Le idee statali

«“Sophos!” universi clamamus», che sapiente, gridiamo in coro! Se potessi dirlo così, con Petronio! O uomo eccellente, genio, valentissimo filosofo! E chi è costui? Eccolo, impassibile, perfetto; ti viene di dire: ecco uno stoico. O è solo un impiegato? Un tempo, per sapere se uno era filosofo se ne osservava la vita. Se uno abitava in una botte o portava la barba, ci potevi giurare che quello era un filosofo.
Oggi che devi giudicare da ciò che scrivono, la cosa non è più così semplice. Sono tante le metafore, le metonimie, le allegorie, i metaplasmi, eccetera, che ti si smarrisce il senno. Quel libro che elogia il pudore, ad esempio, è destinato alle educande, a chi va in viaggio, oppure? Non è che leggendolo ti togli i dubbi. Tu non devi dire che cosa è il mondo, non devi giudicare, idem condannare; devi avere pudore, devi, questo sì. Va bene che il filosofo fu sempre uno spudorato, ma sarà che il progresso è arrivato fin qui. Certo, per vuotare un pitale ci vuole tempo, per vuotare un libro molto meno. Però è una prova che va fatta. Vuotalo e vedi cosa resta: lì resta il pitale, qui nulla.
La prima conseguenza, dunque, è che il filosofo accademico è un furbo di tre cotte. Egli mette su una filosofia dove non c’è niente dentro. Tu la scuoti da tutti i lati: nessun rumore. La guardi bene, niente; provi a sopportarla: una piuma. A me non ne va una: dopo avere cercato tanto non mi resta che ripiegare sulla mia. Dico così tanto per dirlo subito e togliermi il pensiero. Se mai, dovessimo sentire dire, può capitare, «quello è un filosofo», ci sarebbe da smascellarsi dalle risa. No, non è possibile, ti ingoi la lingua, prima.

Tu della verità puoi parlare solo in certe ore del giorno e in determinati luoghi. Non è che mentre si sta parlando di cose amene, così tanto per fare, vieni tu e dici di punto in bianco: «Bisogna parlare della verità. Non ci si deve distrarre nemmeno un minuto». Non solo tu sei un ineducato, non rispetti l’ospitalità – ad esempio ti hanno invitato tanto gentilmente, eccetera, eccetera e ti scappa di dire agli altri attoniti: bisogna parlare della verità. No, non è così che si fa. Eppure non ti zittiranno, no, non ci riusciranno e dovunque tu sei, se devi farlo, fallo senza paura. La verità non è un ombrello che tu lo porti comodamente appeso al braccio e quando vai dalla gente lo lasci all’ingresso. Se hai una verità – o come bisognerebbe dire, se ti ha una verità – tu fai come un folle, ti agiti, non prendi sonno, insomma stai certo peggio di prima.
Questo, diciamolo per inciso, distingue un filosofo extraaccademico, uno che filosofa in proprio, da un impiegato. Costui ha ridotto la verità a una lisca, che non si vede nemmeno, ne parla tutt’al più con gli intimi, al più per farsi quattro risate. Fatti tutti i debiti controlli non resta niente, dice. Ma i controlli sono fatti proprio per questo. Così il nostro «filosofo» accademico può andare tranquillo. Si ingozza di libri, mischia, pasticcia, tira qua e là la sua «filosofia» (no, egli non è della filosofia ma essa è sua, mehercules) e invece di chiudersi in quella come in un chiostro, come in una celletta, per dire le sue orazioni, insomma per contemplare o pensare, cercare di vedere le Idee come vede i bottoni della sua giacca, ecco che egli ti diviene mistico, di quello bisogna tacere, quest’altro non si può dire, l’altro ancora non si può pensare, sebbene pensandolo già lo hai pensato e via di seguito. Chi vuole questo filosofo? Quanto lo pagano al mercato?
Il filosofo extraaccademico è un prodotto originario della natura; il filosofo accademico è un prodotto artificiale dello Stato. Il filosofo accademico dice: dopo di me il mio allievo (cioè, ancora io); il filoso extraaccademico dice: al diavolo, dopo di me il diluvio. Ma egli dice pure: il filosofo è un’esca per la verità. Bisogna che tu ti faccia esca perché la verità abbocchi.

Manlio Sgalambro, Luce su di sé, La Sicilia, 5 gennaio 1991

Luce su di sé

Conoscenza e malvagità
In ogni conoscenza si annida qualcosa di malvagio.
Ciò si poté vedere nell’illuminismo in cui tuttavia rimase nascosto.
Nel distruggere fedi, antiche certezze, o superstizioni, manifestava il suo carattere sadico misto a bonomia.
Assestava mazzate e diceva: è per il tuo bene che lo faccio, fidati. E ci credeva.
Oggi il raffinato conoscitore non si nasconde e sa perfettamente il fatto suo: è per il tuo male che lo faccio, egli dice. Non posso dirti che distruggo il palazzo in cui abiti per il tuo bene.
In verità l’illuminista di un tempo illuminava gli altri ma restava nascosto a se stesso. Il vero illuminista fa luce anche su di sé.

Aphorismus est sermo brevis
L’aforisma è scrittura in cui è già penetrata l’inesorabile morte.
La brevità lo rode dal di dentro.
A chi pensa per aforismi, qualcosa ricorda di fare presto.
La mancanza del termine medio sarebbe richiesta dalla pratica a cui serve come massima a portata di mano.
Essa sarebbe fulminea come ciò che occorre a chi ha molto da fare.
Le vecchie «massime» si ispiravano a questo: dare al frettoloso quanto gli occorreva, con la sua stessa fretta.
Ma l’aforisma è tutt’altro: chi muore non ha certo premura. Ma inseguito da essa vuole conseguire tuttavia lo scopo col suo ultimo respiro: rompere lo spirito incallito a favore dell’Eden.
Ma è più giusto dire che non si sa da dove viene e dove va. Almeno a prima vista.
La convinzione «anacronistica» che vi è un unico tutto per quanto anodino, assicura all’aforista che tutto si tiene.
Per quanto meni colpi all’impazzata, egli si ritrova sempre allo stesso punto.
L’aforista mostra il sistema del mondo.

Primato dell’intelletto
La stima smodata della bontà a scapito dell’intelletto – una spudorata eredità cristiana – non ha consentito che questo si affermasse come doveva.
Il che avverrebbe in ogni caso a danno dell’intellettuale. Il quale lecca gli stivali al mondo, che trova buono. Certo, tra uno straccione intellettuale e un uomo buono, va preferito senz’altro il secondo. Ma tra un nobile chierico e un santo non ci sentiamo di avere dubbi.

Cognomi e individui
Che da soprannomi come «Muso di topo», «Pecorone», «Tignoso», potessero uscire quei cognomi con cui ci si ritrovò individui senza bisogno di fare nulla di eccezionale, non rivela solo l’origine, ma lo statuto immutabile di essi. Laddove un tempo erano stati atti gloriosi ad individuare, mai l’appellativo diventò cognome. Mai, cioè, poté passare ad altri solo per virtù di sangue. Esso restava solo di uno, più che il titolo imperiale o i beni posseduti. Non si possono passare agli altri, privatissime, i propri atti, i propri pensieri. Si trasformano in opera, si dice, e quindi sono di tutti. Ci credi?

Scissione della mente
Il pericolo nucleare? Non sono proprio sicuro che la scissione dell’atomo produrrà altrettante distruzioni di quante ne abbia prodotte la scissione della mente.

Manlio Sgalambro, Il male è civile, La Sicilia, 22 dicembre 1990

Carezze
Si vuole che Corneille, nell’Illusion comique, abbia sostituito a «baiser» il termine «flatter» per scongiurare il contatto dei corpi che quel termine evoca (v. Jean Starobinski, Sur la flatterie). La carezza verbale si sostituisce alla carezza del corpo, alla sua eccessiva presenza. Da quando però le mani brancicano su per il corpo, l’immaginazione verbale s’è estinta. Oppure essa è diventata lusinga, sotto l’urgenza di chi ti sollecita a sbatterla. L’iperbole con cui si accarezza il corpo dell’amata senza sfiorarla è giudicata solo lode smaccata. Un silenzio di tomba seguito da mugolii inumani è più normale. Il tramonto della carezza, che traduceva le audacie dei sensi in intenso piacere verbale segue in effetti il tramonto del piacere teologico di dire gli attributi di Dio – Sapienza, Bontà, Amore… – con la stessa passione. Si tratterebbe di adulazione, si dice, e invece si tratta del piacere di essere o, nel caso contrario, dell’infinito dispiacere.

Et ulularunt nymphæ
Con nuove società correggere il male della società, è proprio da Rousseau. Egli ci inchioda alla società con nobili argomenti. Quando al posto delle pecore che andava ad abbeverare, il giovanotto vide la fanciulla che veniva alla fonte, ulularunt nymphæ «Là si strinsero i primi legami tra le famiglie; là si ebbero i primi appuntamenti tra i due sessi». Con tale melenso ragionare Rousseau convince l’Occidente sul valore della società, non solo più dunque triste e oscura necessità. «Sotto le vecchie querce… ci si familiarizzava a poco a poco gli uni con gli altri». Con tali incredibili melopee ci convincemmo ad abbracciare le religioni sociali (tra le religioni, le più esecrande). In realtà egli sconfisse il male della civiltà facendo diventare il male civile. A d ogni buon conto contro ogni male la società fu la sua cura. Vincere il male col male. Da lì cominciò l’avventura sociale dell’Occidente, la stessa che è appena finita.

Vieni al parco sepolto nel letargo…
In questa poesia di Stefan George troviamo versi la cui purezza mozza il respiro: «Là cogli il greve giallo, qui ti dona / betulla e bosso un grigio: il vento è mite: / le rose tarde ancora un po’ fiorite / scegli e baciale e curvane corona». Per parole come queste ci lasceremmo impiccare. E si potrebbe ben sussurrarle nell’ora della morte. L’orgoglio di appartenere a una specie che arrivò a tanto, ti stordisce. Ma poi l’occhio ti cade su chi ti circonda, su te stesso, e resti interdetto. E ti sembra funesto parlare di «specie» umana come di un tutt’uno e un errore da bambini.

Goethe e il suo valletto
L’assillante domanda di una volta: cosa differenzia l’uomo dall’animale, ci interessa meno di quella che oggi ci preoccupa veramente su ciò che differenzia l’uomo dall’uomo. Cogliere le somiglianze, le uguaglianze, ci ha occupato a lungo. Adesso vogliamo renderci ragione di Goethe e del suo valletto.

Ciò che resta
In una lettera di William James a Bergson, a proposito de L’Évolution créatrice di quest’ultimo, si trova scritto: «Il confronto forse la divertirà, ma nel concluderlo mi è rimasto lo stesso sapore che lascia a lettura ultimata Madame Bovary: una durevole fragranza di eufonia». James l’avrebbe con ciò confutato? Ma un’opera di filosofia può essere vera per la dolcezza dei suoni. E si può entrare nel nucleo duro della sua verità attraverso l’abbandono che desta. Non i ferrei ragionamenti, le prove offerte, ma la melodia del suo argomentare, una sua sfumata bellezza possono ben essere tutto quanto resta di essa. Ma chi può dire che è poco?

Manlio Sgalambro, Il delitto un affaire metafisico, La Sicilia, 11 dicembre 1990

Il delitto un affaire metafisico

Si intravede in questo scrittore la segreta convinzione che al limite di ogni agire sta il delitto. Se ne colgono le aporie in una specie di critica dell’agire sulla quale, al di là del divertimento connaturato al genere di chi si compiace, si indovina un riserbo che dobbiamo forzare. In realtà le riflessioni sull’agire ci tormentano. Sulla natura delittuosa di esso non abbiamo più dubbi. Sulla sua punta, come sulla punta aguzza di una spada, balenano infamie. L’ingenuità delle epoche operose non ci inganna. A stento la «buona» coscienza trattiene ciò che avviene restringendone la responsabilità col distinguere colpevoli da innocenti. Ma da colui al quale l’ardimento nascose l’intima natura di esso, la riflessione sul fare pretende assolutamente altro. A una rapida intuizione esso si dà senza incantesimi. Non si sopporta nemmeno di «fare» il bene. Vi si vede, tra l’altro, il disprezzo per chi lo riceve prono. La tormentata coscienza si chiude sempre più nella sua stessa prigione. All’appello di chi ha bisogno d’amore risponde il possesso. Antica ferocia sublimata ma non redenta. Così la stracca vita si nutre di quell’agire che nello stesso tempo la distrugge.
E tuttavia la domanda non cessa e chiede risposta. Qualcosa da fare si implora. Così il vuoto dell’anima si presenta con gli occhi spalancati e le mani giunte. Ma proprio dal già fatto proviene l’appello a non fare.
Questo scrittore, dunque, tratta del delitto come se fosse l’altra faccia dell’agire. In realtà camminano assieme. Non si sa nemmeno, o forse si sa benissimo, se una critica dell’agire e una critica del delitto non siano la stessa cosa. In realtà ci appassiona poco lo scrittore civile, ma c’è uno Sciascia visionario e, in questi, qualcosa sopra ogni altra: il mistero del delitto. Perché c’è il delitto? Cosa significa un mondo in cui esiste il delitto? Scorgiamo celata, nei suoi scritti, una domanda del genere.
Ed allora non è questo o quel delitto il mistero. Ma, appunto, il delitto. Ma, in tal caso, non è il delitto un affaire metafisico? Non moriamo tutti assassinati?

Questa appare in Sciascia, comunque, la vera morte «naturale» (anche se egli dice e fa dire il contrario). Il segreto dello scrittore non è da trascurare. Attraverso il riserbo a cui abbiamo fatto cenno appare il dubbio di Sciascia se ci sia veramente una morte naturale, se comunque ogni morte non sia violenta.
Perché allora ne Il cavaliere e la morte si direbbe, con fermezza, che se da un lato il delitto ci appartiene dall’altro apparteniamo al delitto? Per quanto le convinzioni dello scrittore siano altre e la morte gli appaia giusta, come se l’uomo la portasse serenamente in sé, non è assente in ciò che scrive un dubbio almeno sulla sua estraneità.
Da qualche parte infatti Sciascia dice «la morte è Dio», come se gli si rivelasse, sorpreso, la sua assoluta estraneità. E lo sguardo stupefatto scoprisse un Ordine che beffa ogni gemito. Tuttavia egli non arriva a dire, mentre tutto sembra portarvelo, che la morte è sempre la pena di morte decretata da non si sa chi. Il giudice di Porte aperte, che ha in orrore la pena di morte sentenziata dagli uomini, non si accorge che c’è una pena di morte metafisica, quella per cui tutti moriamo. Non c’è morte naturale, dunque? Moriamo perché qualcosa ci uccide?
Le aporie del fare, dicevamo frugando nel riserbo dello scrittore. All’altro estremo del fare, sta il non fare. Lo schermo che ripara l’individuo dalla follia dell’agire, viene smantellato. L’individuo, salvaguardato dalla retta coscienza che lo rende responsabile solamente dell’intenzione, con la millenaria distinzione tra buoni e cattivi, tra bene e male, non trova più riparo in essa. Il mito del malvagio, sul cui volto sarebbe riflesso il dolore della vittima, dileguandosi lascia dietro di sé la domanda su ciò che si riflette sul volto del buono. Qui il non fare si libera da ogni remora e diventa, esso stesso, eminentemente pratico; si indovina che al non fare appartiene nientemeno, il bene stesso.
Così il fare oscilla tra il non fare e il delitto. Su essi questo scrittore ci ha impegnato a riflettere. La quiete di ciò che egli ha pensato, dev’essere rispettata. Ma nello stesso tempo devono essere ascoltati gli echi. Questo sommesso dialogo ha voluto, nel rispetto, ascoltare.

Manlio Sgalambro, L’ira da Dio, La Sicilia, 24 novembre 1990

L ira da Dio

Vendetta
La vendetta è l’ira raggelata. Un terso specchio dove si rimira l’offesa. La vista perseguitata da essa dà all’ira una meta, davanti a cui ora c’è un chiaro oggetto. Mentre prima sembrava risolversi in sé, nel movimento stesso, ora si coagula. Da essa si diparte, non più nel momentaneo impulso ma come da un centro focale, un raggio di purpurea luce.
L’ira evoca, cioè, l’oggetto dell’ira che diede a vedere all’inizio di non avere oggetto nella sua cecità. Sembrò che solo esistesse l’iroso, mentre ora invece la troviamo tra le potenzialità dell’oggetto medesimo. L’aggressione contro l’oggetto dell’ora è una negazione che resta in sospeso. Che esso debba scomparire è il decreto. Ma mentre la furia cieca non vedeva altro, ora l’ira raggelata vede che esso non scomparirà mai.
Dovrebbe scomparire lo stesso «essere». L’esorcizzazione dell’ira, nell’affettività occidentale, segue la caratteristica imputatale di breve follia. I moralisti, ad esempio, non vi videro altro. Ma essi furono complici del mondo. L’ira invece metteva in moto un processo che arrivava sino a Dio attorno al quale s’era eretta una insuperabile barriera protettiva. Fino a che Spinoza non disse, in una rarefatta atmosfera, che Dio era semplicemente «amato», e ciò dicendo egli la destò. Occorreva che qualcuno lo dicesse come lo aveva detto Spinoza perché la rabbia arrivasse sino a quello. Una rabbia fredda, come freddo era l’amore che Spinoza gli concedeva. In ogni vendetta ci si vendica dunque di Dio? In ogni caso ci si vendica di essere. Non perché si desidera il nulla, ma perché fummo messi nella condizione di doverlo desiderare.

Vittime
I colpiti dal bello non hanno più gusto per le «opere d’arte» – queste richiedono sempre un po’ di volgarità. Il guizzo di luce di un ametista, il suono voluttuoso di una nobile porcellana, il giuoco della polvere su un vecchio mobile, rimandano il bello in modo più puro, senza che si impigli nella trappola allestita dall’arte per catturare devoti. Come si notò una volta: l’arcobaleno basta.

Per la rinunzia alla volontà
Possediamo una preziosa indicazione di Schopenhauer che non vogliamo perdere: «La sottomissione e dedizione intera e senza riserva della propria volontà a quella di un estraneo è una eccellente transizione alla rinunzia della volontà». Lo spegnersi di un individuo in un altro: tremenda e ammaliante prospettiva. La capiranno questi barbari che si esaltano all’idea malintesa dell’individualità? Kant, che peraltro distrasse le ultime vestigia del concetto di anima, non si rese conto che è l’individualità l’anima del borghese. Il sale con cui il vecchio porco si conserva. Quanto a noi troveremo il nostro nulla in colui al quale rimetteremo la nostra volontà.

Susannah took it off
La mano provvidente della tua epoca si ritira dal tuo capo come nel Tristram Shandy di Sterne: «Cos’è il volto più bello che un uomo abbia mai visto! – Vorrei ascoltare Trim parlare così per ore, esclamò Susanna – cos’è? (Susanna posò la mano sulla spalla di Trim) – se non corruzione? – Susanna ritirò la mano». Come una donna, l’epoca ti volta le spalle se parli di lei pessimistically. Come Susanna, ritira la mano.

Sul concetto di salute
Il concetto occidentale di salute colpisce chiunque l’accosti. Da esso non si guarisce. Chi ne è affetto è sempre malato. Lo impone il concetto medico di salute. È questo concetto che dev’essere combattuto più che la malattia. Le grandi malattie non si curano. In esse si manifesta ben più di quello che appare: il fato dell’individuo. Si curino il mal di denti o le emorroidi: cose ben degne di un medico. Ma lasciate che le grandi malattie eseguano la condanna che fu loro affidata senza che offici questo molesto messere.

Manlio Sgalambro, Cogito il buio, La Sicilia, 10 novembre 1990

Cogito il buio

In relazione agli articoli del filosofo Manlio Sgalambro abbiamo ricevuto due lettere di contestazione: una dell’avvocatessa Lina Arena e l’altra del professore Antonio Grimaldi.
«Le contorsioni del filosofo ufficiale del giornale – scrive Lina Arena – hanno il potere di mandarmi in bestia. Possibile che questo illustre letterato non abbia la capacità di adoperare una forma piana e comprensibile di scrittura?
La costante difficoltà di lettura, mi ha indotto a chiedere a persone di elevato livello culturale il significato delle meditazioni provinciali sgalambrine. Ebbene, tutti mi hanno dato pareri negativi ed hanno confermato le mie critiche alla difficoltà di penetrare i profondi pensieri di distruzione e morte del Nostro».
Dal canto suo Antonio Grimaldi ci scrive: «Al lettore che fosse capitato di leggere le concise riflessioni di Sgalambro sulla figura e l’opera di Abbagnano, morto recentemente, non sarà sfuggito il vago presentimento di trovarsi difronte ad una sublime finzione. Sgalambro finge di occuparsi di Abbagnano, mentre in realtà è ben intento ad esporre i propri pensieri: l’evento della scomparsa di Abbagnano non è che un puro pretesto, un’occasione, un accidente per parlare d’altro. E siccome la cosa di cui Sgalambro parla è la filosofia stessa, non possiamo negare il carattere sublime di questa finzione. Sublime, per di più per altri motivi. Pur sapendo che Abbagnano non ha niente a che vedere con la filosofia, Sgalambro si sottopone all’incombenza di ricordarlo. Immaginiamo con quale spirito di sacrificio e di servizio. Perché occuparsi di ciò che non merita considerazione si può soltanto al prezzo di una enorme ripugnanza o per ubbidire agli stimoli di una incoercibile vocazione pedagogica: e tutto ciò è sublime. Cosa avrebbe fatto Abbagnano per meritare il velo pietoso del silenzio? Avrebbe scritto una Storia della filosofia, dove non c’è nessuna storia e nessuna filosofia. Avrebbe teorizzato un esistenzialismo positivo, senza avvertire lo stridente contrasto tra i due termini: sarebbe stato esponente di quella filosofia della cattedra il cui tratto peculiare è l’indifferenza totale verso il valore di verità di qualunque tesi filosofica, essendo impostata in modo da far sì che tutte le verità siano possibili».
La lettera del professore continua in un serrato confronto con le tesi di Manlio Sgalambro, ma purtroppo è infinita e perciò siamo costretti a fermarci a questo punto. Ed ecco cosa risponde Manlio Sgalambro.

Cara amica, poiché faccio professione di oscurità, la divisa «Buio, ancora più buio» è anche la mia. Devo dare torto a Chamfort, a cui va la nostra comune passione, ma la chiarezza è la disonestà del filosofo. Essa si pratica nel ricordo di Descartes ma senza la distinzione con cui andava assieme. Perciò tutto diventa facile. Conosco alcune ragioni per professare l’oscurità e poiché spesso me ne si fa un’accusa, vorrei almeno ricordarne una. «Affrettiamoci a rendere la filosofia popolare»: che orrendo disegno quello di Diderot! Bisogna invece intricarla in oscuri percorsi, bruciarle i ponti alle spalle, far deflagrare quella insulsa poltiglia che è il linguaggio quotidiano pur rimanendo sul suo stesso terreno. Renderla difficile in maniera che chi l’accosti ne senta l’urto, il disgusto, la collera. E del resto se essa dovesse parlare come si parla, se ne sentirebbe il bisogno? Ciò che fu giustamente chiamato il «comando vago e brutale che impone la chiarezza», suppone un’oggettività linguistica che è poi la soggettività più dissennata mentre vera oggettività è quella che pare arbitrio ed invece conduce alla giusta espressione.
Chi non sente sul suo corpo abbattersi la violenza fisica del discorso filosofico, o non regge ad esso, non ha fatto un passo verso la filosofia. Se ne dovrà fare un’eccezione perché non se ne scrive nella sua sede? E quale sarebbe questa? Là dove circola l’inquieto domandare, ovunque infine si pongono problemi e si chiedono risposte, su un giornale, in un bar, all’angolo di una piazza, in un lurido ospedale, ovunque essa non può essere che quello che è.
Ma infine, la domanda che dovrebbe colpire a morte: «Lo capisci tu?». Tale quale l’aneddoto su Hegel, di uno che si chiede: Lo capisci tu? Si muove in te il Concetto, da se stesso, senza il tuo apporto? Si volge nel suo contrario e ne balza fuori la superiore unità dei contrari?
Ma il cosiddetto capire resta di stucco ogni volta che si tratta di capire veramente. Segno del suo infelice mestiere. In realtà proprio là dove la comprensione si rompe la testa, dove «non capisce», li c’è qualcosa. Cara amica, sto profittando di lei. Le riverso le perplessità che desto, ma a che pro?
Qualche tempo fa osai dire di un filosofo che poiché non aveva preso sul serio la filosofia, la filosofia non avrebbe preso sul serio lui. Mi si accusò di essermi identificato con la filosofia e di parlare in suo nome. In verità chiunque la professi, deve farlo. Non vedo lo scandalo. Oppure, che esso avvenga. Vorrei richiamarla al mistero della filosofia. Essa esiste ogni volta che si incarna. Come quegli Angeli che esistono per un solo momento. E dopo? Domanda legittima. Ma vedo solo tombe vuote. Ad ogni modo bisogna tentare di filosofare. Chi filosofa, filosofa secondo la santa intenzione. Così, secondo l’intenzione, la «sua» verità è eterna.
Il tempo la ridurrà a uno straccio e la «storia» non ne raccoglierà nemmeno le briciole. Ma secondo l’intenzione essa brillerà di luce perpetua. In somma, nel complicato intreccio del discorso filosofico bisogna dare corpo anche alle ombre. La trama è sottile e occorre tessere giorno per giorno. Non si può levarne la mano perché cadrebbe a pezzi. Se tu ti lasci coinvolgere tutto dal filosofare non vedi «filosofi». Vi sono invece di quelli che sono più amici dei filosofi che della filosofia. Comprendiamo perfettamente. In loro la carne è debole ma pure lo spirito.

Manlio Sgalambro, Vivere è uccidere, La Sicilia, 24 ottobre 1990

Vivere e uccidere

Da che Althusser assassinò la sua compagna, il problema di Althusser divenne un altro. Esso si consuma tutto nel mutismo della sua azione. Non c’è atto di un filosofo che non porti con sé la maledizione di avere un significato. Nascosto da qualche parte, il significato del suo delitto, ha fatto scomparire «Lire le Capital», la sua grande opera. C’è una filosofia ad un altro livello, che consiste soltanto in un atto?
Poniamo che Althusser abbia voluto mostrarci la radicale criminalità di ogni azione e che ai confini di ogni agire sosti un delitto. L’innocuità del fare sarebbe ormai confutata. Da che Althusser uccise la sua compagna il suo problema divenne un altro, dunque.
Il significato del suo delitto ha fatto scomparire il significato di Lire le Capital. Ormai non è più la sua straordinaria vicenda teorica che abbiamo davanti; egli l’ha oltrepassata. Quello che ci mette in rapporto con Althusser non è più un libro: noi dobbiamo capire un delitto. Gettati in un atto del genere è impossibile limitarsi a parlarne. E allora che fare? Ha voluto dirci, con questo enigma, che vivere è uccidere? Che uccidere è ciò che tutti facciamo anche se solo alcuni lo fanno? Che la morale occidentale è finita?
Indubbiamente non ci sono mezzi termini: o ci troviamo davanti a un volgare assassino o davanti a chi ha posto ancora una volta un problema. Ma c’è ancora una possibilità, che egli volesse sacrificare alla teoria non soltanto delle volgari idee, ma anche un essere.
Quello di Althusser è allora il problema di Pascal, il problema di Abramo: una prova che sia un atto. Ma se egli ha ucciso per questo, dobbiamo ricordare a noi stessi le celebri parole: «Se la fede non può giustificare il fatto di volere uccidere il proprio figlio, Abramo cade sotto il giudizio comune». Se queste parole possono valere anche per Althusser non è forse che egli si impegnò ancora in una teoria a cui bisognava sacrificare tutto? Se un uomo si vuole strappare alla moralità ufficiale sacrificando ciò che ha di più caro, quest’uomo è un assassino? Finiva qui la filosofia o cominciava un’altra tappa della grande avventura di Althusser?
In ogni caso non si può togliere ad Althusser il suo delitto. Per parlare di Althusser bisogna prenderlo in carico. La sua audacia teorica fu estrema. Che dei problemi che non esistono, egli scrive, possono dare luogo a prodigiosi sforzi teorici, ciò è sintomatico. Fu dunque questa la sua ultima arditezza teorica?

Manlio Sgalambro, Poesia è finita, La Sicilia, 20 ottobre 1990

Poesia è finita

In un libro recente sulla situazione della letteratura contemporanea si dicono delle cose coraggiose sulla poesia. Non coraggiose a pensarsi (è quello peraltro che tutti pensiamo) ma coraggiose a dirsi: la poesia è oggi cosa da mezzecalzette. O nel linguaggio giustamente severo dell’esperto: «La poesia è ormai un genere letterario che si sta svuotando… Nessun poeta del passato, né Leopardi né Gozzano né Majakovskij, se dovesse scrivere oggi, si servirebbe del genere letterario chiamato poesia» (Alfonso Berardinelli, Tra il libro e la vita, Bollati Boringhieri, Torino 1990). Croce insegnò che vi è la non poesia nella poesia, ma stabilendo questo stabilì implicitamente che nella non poesia vi è poesia. È proprio questa la situazione odierna: in essa domina la poesia della non poesia. Ma torniamo al nostro esperto.
Ricordando Edmund Wilson – «il verso è una tecnica in via di estinzione» – egli ritiene che l’idea di poesia si ritrovi oggi nel saggio. «È probabile perciò che quei poeti che ci hanno lasciato in eredità le loro opere e la loro idea di poesia, oggi sarebbero dei saggisti, scriverebbero in una eccellente prosa, umoristica e malinconica, piena di idee e di immagini, e cercherebbero di sollevare la prosa libera a quell’altezza artistica che una volta, tanto tempo fa, e da allora mai più, fu raggiunta dal verso». A questo preciso giudizio possiamo aggiungere solo il nostro consenso.

In questo libro di Krakauer Sull’amicizia (Tradotto ed edito da Marietti, Torino 1989) ci lasciano soprappensiero queste parole: «Una parte considerevole nello stare insieme spetta perciò anche al silenzio. Solo persone unite da un rapporto di intima confidenza lo sopportano senza esserne oppresse, soffocate o annoiate». In realtà proprio nel silenzio si raggiunge la perfetta amicizia. Allorquando i due amici, pur stando vicini, non subiscono l’onta del corpo. Il mortificante chiacchiericcio non prevale sulle ragioni profonde in cui la delizia dell’altro è assaporata come aria pura di montagne. Eppure si deve anche parlare, tra amici, e sfidare con le perturbanti parole l’atroce sordità del mondo. Ma in ultimo v’è tra loro il silenzio. Solo loro due. Tra essi non si introduce ormai neppure la loro ombra.

«Talvolta la donna è un utile surrogato dell’onanismo. Naturalmente ci vuole un sovrappiù di fantasia». Chi poteva dirlo se non Karl Kraus? (Lo troviamo ricordato nel libro di Nike Wagner, Spirito e sesso. La donna e l’erotismo nella Vienna fin de siècle, Einaudi, Torino, 1990). Oltre il rapportino del sesso, attraverso una donna, sì certamente, attraverso un rapporto che affondi però nella propria identità, si può percepire un qualcosa di cosmico. In effetti le teorie filosofiche dell’eros, da Platone a Klages, hanno sempre sentito che si scavalca quel rapporto che l’istituzione amorosa dà in cambio di ciò che invece si perde nello stesso cosmo. Si tratta, in effetti, di qualcosa di indistinto, dove la stessa distinzione uomo-donna quindi si perde pur essa. Non un’unione ma una mescolanza, per dire così, primigenia. Un impasto di carni e di membra confuse assieme senza armonia né principio.

Manlio Sgalambro, Il bello e l’arte, La Sicilia, 6 ottobre 1990

Il bello e l'arte

Il concetto di morte dell’arte non è né il secco rifiuto del tempo né l’ameno concetto di ciò che risorge dalle sue ceneri, sempre ricominciante. Che l’arte viva al passato, questo sì. Essa è lì. ma solo per essere contemplata. Il dubbio privilegio del “creare”, solo questo è “morto”. Diventa preminente il tema della contemplazione estetica rispetto al “fare”. L’innocente “creatore” di bello è come un ragazzino che giuoca col cerchio, ignaro. Che ci importa più di lui? Dell’alter deus?

I diritti della contemplazione estetica annullano quelli della critica che resta di sasso, come chi avesse un appuntamento e l’atteso non fosse venuto. Il contemplante non “ricrea”, come nell’atteggiamento critico, ma in lui avviene la ripetizione. È come se l’opera rimanesse tale e quale. E nulla si smuovesse, nemmeno di un soffio. Per un momento essa resta come prima. In quel sacro istante avviene – possiamo osare? – il miracolo.

Ciò che vi è di “altro” nel bello è il suo effetto distruttore. La felice tensione di una poesia fa scoppiare, se essa entra in te, il tuo povero cuore. Tu ne sei la vittima che accoglie devota l’acuminato coltello con cui il bello ti sacrifica. Nessuno dev’esserci dov’è la bellezza, questo essa sembra dire e con gesto sdegnoso ti volta le spalle. Chi vede il volto del bello muore, ma non disperato.

Quelli i quali quando si parla di bello lo vogliono toccare, meritano poi di trovarsi in mano un “romanzo”, una “poesia”, un “quadro”… Come chi chiamasse ancora “bicchiere” gli sparsi cocci che rimangono dopo che s’è rotto. In realtà le opere d’arte sono l’occasione del bello che si presenta alla contemplazione. Esse non detengono il bello che allo stesso modo di una coppa di aereo cristallo o dei giuochi del fango incrostato su un paio di vecchie scarpe. Il bello attraversa il mondo e attraversandolo lo distrugge. La sintesi di ciò è data nella contemplazione estetica che però non fa vedere il teschio ma, per così dire, è come il fuoco purificatore che brucia ciò che tocca. Questa stessa fiamma è allora l’immagine che talora ci soccorre a intendere il bello dai mille attributi.

Se l’opera d’arte è un “fare riuscito” (v. Pareyson, Estetica), il bello appare come riuscito disfare. Il bello disfa ciò che è fatto. Così, per prima cosa, se pure si presenta auspicato dall’opera d’arte, è contro di essa che si avventa e la mina dall’interno rodendole l’anima.

La sedicente appartenenza del bello all’arte è il risultato del cattivo pensiero di essa. Caso mai, tra l’altro, sarebbe l’arte ad appartenere al bello. Ma l’identità è già un errore. Nell’arte l’identità dell’opera è il risultato di mediazioni. L’estetica deve dirci quali. Ma la bellezza non entra tra essi. Qualsiasi conto si faccia, non si può contare sul bello. Della bellezza non si dispone. È come se essa venisse simile agli spiriti allorquando s’è adempiuto al rito che li invoca. Ad un tratto essa è lì.

Manlio Sgalambro, Sulla cultura, La Sicilia, 29 settembre 1990

Sulla cultura

La coscienza che la cultura è spazzatura fa da premessa a ogni discorso odierno sulla cultura. I suoi rappresentanti «qualificati» divisi da un abisso dagli straccioni intellettuali sbagliano misura. Non capiscono che sono nello stesso bidone. La cultura è spazzatura da quando l’indicazione della norma è diventata a sua volta cultura e lo spirito urla nel deserto. Chi getta uno sguardo altezzoso sulla poesia da strapazzo e chiede, gonfiando il petto, il rispetto dei valori s’affligge poi se la loro immanenza non è rispettata. Ma in base ad essa «omnia valde bona sunt»: ogni cosa è buona e ogni poesia bella. In realtà il poeta da strapazzo e l’altro ricevono la loro giusta misura da un’altra misura: nella non poesia c’è la poesia come nella poesia c’è la non poesia. Croce, che elevò agli altari poeti insignificanti, volle dimostrare con ciò proprio questo. In realtà qui si tratta di vedere non se la piccola cultura è grande, o se anche la grande è piccola, ma se su entrambe trionfa la media. Il saggio di Dwight Macdonald, Masscult and Midcult è ancora ricco di insegnamenti.
La superstizione letteraria favorisce questo stato di cose. Il letterato, come rappresentante del nostro tempo, scrive: «Era un vecchio che pescava da solo su una barca a vela nella Corrente del Golfo ed erano ottantaquattro giorni che non prendeva un pesce»; segno che al letterato tutto è permesso. La sua funzione attuale corrisponde a quella dei castrati del Settecento. La loro voce inaccessibile maschera con la potenza virile dell’acuto che essi sono «sans couillons». Il cinguettio dei letterati è altrettanto impotente. La cultura è «democratica» e tutti siamo eguali, dice il letterato. La cultura-spazzatura è in queste premesse.

Eliot, in Appunti per una definizione della cultura, afferma: «Ecco le condizioni che io considero essenziali per la crescita e la sopravvivenza della cultura. Se esse sono in contrasto con una qualsiasi fede profonda del lettore – se, ad esempio, costui trova sgradevole che cultura ed egualitarismo siano in conflitto, se gli sembra mostruoso che qualcuno debba avere “privilegi di nascita” – non gli chiedo di mutare la sua fede, ma semplicemente di smettere di tributare insinceri omaggi alla cultura». Ma la parola cultura indica proprio questo pasticcio.
Hofmannsthal insinua che lo Spirito sia in tutto in due o tremila individui. Nella cultura invece tutti sono chiamati e tutti eletti. In realtà il pericolo non è rappresentato dalla cultura di massa, facilmente riconoscibile. Ma dal Midcult.
La cosa si potrebbe dire così: la media cultura non è «alta» cultura per un soffio. Ma questo non-nulla la divide in eterno. Midcult è la riproduzione al posto del quadro (chi ha visto una riproduzione di vari Gogh rimane «deluso» da un quadro di van Gogh), il romanzo di memoria (con il corteo di nonne, madri e zie) al posto della Recherche. Hermann Hesse al posto di Thomas Mann, On the Road di Kerouac al posto dell’Ulysses di Joyce. Il verso di George: «Tutto è diventato esprimibile: il grano trebbiato come la paglia vuota», indicano, meglio di una denuncia, lo stato della cultura. Essa è, oggi, cultura media e il suo rappresentante, il letterato, è attaccato come un cane al suo osso. Nel frattempo si affaccia un altro problema che ha avuto anche il tempo di diventare ridicolo e di tornare, come oggi, ad essere serio. Si tratta del bello. L’attenzione si sposta verso questa presenza che scrolla come un fuscello l’individualità dell’opera e mira al mucchio.
In altre parole, l’individualità di un’opera viene attraversata per lungo da una specie di lampo che non illumina più i rapporti consueti ma impone, come per decreto, che tutto si sposti dall’opera stessa, come occasione, al bello. Esso è la norma, esso è lo spirito che grida nel deserto.

Manlio Sgalambro, Odiato sapere, La Sicilia, 19 settembre 1990

Odiato sapere

Il filosofo non sta nella filosofia come la rosa nel bouquet. Solitamente si dice: filosofia è amore del sapere, il filosofo è dunque colui che ama il sapere. Ma le cose non sono così semplici. Perché egli potrebbe essere in una tensione negativa verso il sapere, potrebbe odiarlo e tuttavia sarebbe ugualmente filosofo proprio in virtù della suddetta tensione.
Potremmo in tal caso definirlo un «neicosofo» (da neikos – odio), anzi possiamo da qui in poi definirlo a questo modo, in virtù del fatto che colui del quale parliamo è atterrito dal sapere e conseguentemente ne ha paura e lo odia. Lo odia, ma non ne può fare a meno. È il neikos che lo lega, ma ciascuno sa che legami forti esso instaura. Il neicosofo, se così dunque possiamo chiamarlo, non sta nella filosofia come il filosofo parassita, che considera suum bonum pensare a spese d’altri, sta nello Stato. Costui svolge una funzione sociale, tant’è che persino lo pagano, mentre l’altro è asociale, pronto al disaccordo e aborrisce lo spirito di discussione. E che, egli dice, dovrei accettare un concetto, un’asserzione, un giudizio per «discessiunum more», mediante una votazione per maggioranza?

Dunque, costui prende in carico il sapere con tutto lo spavento che esso gli desta. L’odio ve lo inchioda da più di mille lacciuoli. L’odio per il sapere o per ciò che quel sapere gli fa sapere è dunque il legame più forte possibile, ma in modo che questo legame non gli imbrogli la mente, ma, pur atterrito e pieno di livore, egli vede esattamente ciò che vede. Così, colui che abbiamo convenuto di chiamare «neicosofo», è in grado di conoscere meglio, anche per un soffio, del filosofo parassita, ciò che conosce. Perché costui, diciamolo francamente, è svantaggiato proprio dal «philein», dall’amore.
Conviene adesso chiarirsi un altro punto e stabilire le differenze tra filosofia e «neicosofia». Quand’è che stiamo filosofando, si chiede il signor Müller? (Sarà bene confrontare Heidegger, Was ist das, die Philosophie?).
E risponde: quando dialoghiamo con i filosofi. Ma anche qui la «philia» stende le sue lunghe mani e abbraccia il vuoto. Se la «philia» si estende al «dialogare» allora come la filosofia è l’amore del sapere, così il filosofare è l’amore dei filosofi. Discutere con i filosofi è «amarli». La «neicosofia» invece sostiene: philosophus philosophi lupus. Non ci può essere tra due filosofi – in quanto filosofi, s’intende – che inimicizia e filosofare è portare a compimento questa inimicizia.

Il «neicosofo» prova paura e livore per l’essere, abbiamo detto. Il parassita, fin da quando gli è stato possibile, ha invece dichiarato stupefazione e rispetto. Saperlo è amarlo, dice il parassita. E in ciò riconosciamo il parassita. Per cui proporremmo direttamente di chiamare la sua non «filosofia» ma parassitologia. Scienza che dice come si diviene parassiti dell’essere e i tanti modi in cui ciò può avvenire. Si dà infatti una dottrina della modalità, nella parassitologia, ed essa al momento è la più importante perché ne deve stabilire la necessità.
Ma qualsiasi filosofia che si annida nello Stato e si fa spesare il suo «amore per il sapere» fa parte della parassitologia.

Io mi tengo stretto al mio Malebranche – dice il «neicosofo»: «Non si deve scrivere che per fare conoscere la verità». Immediatamente la parassitologia tacerebbe. Un filosofo lo cercheremmo con un bando in tutte le parti del regno e il re gli concederebbe in sposa la figlia. Se non ci fossi io, dice in extremis il filosofo statale (per intenderci, il parassita) chi saprebbe dell’esistenza della filosofia? Senza i miei manuali, le mie lezioni, senza di me insomma, non scomparirebbe?
Ma senza l’odio per il sapere che io insegno, risponde il «neicosofo», chi supererebbe le tre prove – il drago fiammeggiante, il cattivo gigante, il pettine avvelenato -? E se esse non saranno superate chi potrà mai amare il sapere, chi mai potrà diventare «filosofo»?

Manlio Sgalambro, La filosofia senza veleni, La Sicilia, 11 settembre 1990

La filosofia senza veleni

MILANO – Nella chiesa di Santa Maria del Suffragio si sono svolti ieri a Milano i funerali di Nicola Abbagnano morto nella notte di domenica a 89 anni. Nato a Salerno il 15 luglio del 1901. Abbagnano si era laureato a Napoli nel 1922. Aveva studiato in particolare e diffuso in Italia l’esistenzialismo e il pragmatismo. Il suo libro La struttura dell’esistenza, del 1939, è considerato uno dei classici dagli studiosi della filosofia moderna. Sue opere importanti sono inoltre L’esistenzialismo positivo, del 1948, e La storia della filosofia (1946-1950). Abbagnano, dopo aver tenuto per molti anni la cattedra di storia della filosofia a Torino, si era trasferito a Milano. In questa città era stato eletto al consiglio comunale per il PII e per un certo periodo, durante V ultima giunta di centro sinistra, a metà degli anni ’80, era stato assessore alla Cultura.

Come muore un filosofo? Che tempi meravigliosi si potrebbe dire, oggi nessun Bruno muore sul rogo, e Socrate si vede bere un gin tonic. Si crede così di lodare i tempi o di lodare la filosofia che avrebbe questa fortuna? O non si deve dire piuttosto: miseri i filosofi per cui non c’è nessun rogo ad attenderli, misero quel Socrate a cui nessun veleno darà l’ultima prova!? Abbagnano è morto ma la filosofia resta. Egli incarnò onestamente la filosofia della cattedra. La sua Storia della filosofia ne fu la tomba: nessuna storia, nessuna filosofia. Mentre la filosofia con ciò che si chiamò ignobilmente esistenzialismo prospettava dalla cattedra – ex pumice, aquam – i problemi della morte e urlava tutta la sua sofferenza da Friburgo e da Parigi, Abbagnano spegneva tutto ciò che restava in una brodaglia insipida: esistenzialismo sì, ma positivo. Si beffava da se stesso e neppure se ne accorgeva. Gettava acqua: ma dov’era il fuoco? Il suo filosofare era simulato. Tutto sembrava, niente era. la filosofia è fallibile, sosteneva Abbagnano. Ma, secondo l’intenzione, il filosofo non è infallibile? Pensiamo ad Hegel. Qualcuno potrebbe sostenere che egli si sia mai ritenuto, come filosofo, fallibile? E Schopenhauer? Forse che Agostino non godé pure di questa specie di infallibilità? E Spinoza? Ecco ciò di cui mancava la sua Storia della filosofia. Ma l’intenzione non è l’aria in cui la filosofia respira? Cos’è la verità per un filosofo? Anzitutto l’intenzione? Cos’è l’eternità per un filosofo? Ancora l’intenzione. Non è lui che deve arrossire di vergogna, ma lo storico. Lui ha preso il suo fagottino e se ne va per la sua strada tenendosi stretto all’eternità: secondo l’intenzione.
Abbiamo detto che Abbagnano rappresentava da par suo la filosofia della cattedra. Ed egli ne intese bene il compito: neutralizzarne i contenuti di verità. Quando, nel quadro della filosofia della cattedra, si presentano, come articolata espressione di temi fondamentali, l’angoscia, la noia, la morte…, assistiamo in verità alla comica “universitarizzazione” di matters of fact. Tutto viene travolto in un linguaggio burocratico, “ufficiale”, nel quale ciò di cui si parla è nello stesso tempo messo a tacere. Questo pensum Abbagnano adempì bene. Il trattato filosofico-universitario non turba minimamente allo stesso modo che un trattato di tossicologia non avvelena. I suoi libri infatti erano innocui.
Per quanto riguarda la filosofia sans phrase essa non pretende di vivere come la filosofia universitaria, in una comunità che si è accordata – implicite o explicite – per fare in modo che tutte le verità siano possibili, ma come in uno stato di natura – Kant nel Conflitto delle facoltà vi accenna – dove una filosofia pretende la verità tutta per sé e vuole, per dir così, la morte di tutte le altre; di fronte al civile patto intercorso per la pax philosophica qui non c’è che la guerra di una filosofia contro ogni altra.
Come esponente della pax philosophica Abbagnano non poteva prendere sul serio la filosofia. La filosofia non prende sul serio Abbagnano.

Manlio Sgalambro, Saggezza è essere «costanti», La Sicilia, 11 agosto 1990

Saggezza è essere «costanti»

Saggi
Ciò che corrisponde, nella dottrina classica, al cosiddetto «ideale del saggio» – il mantenersi esente dai bisogni – equivarrebbe, secondo la freudiana Interpretazione dei sogni, all’assetto dell’apparato psichico nei suoi primi stadi. È ciò che Freud chiama «principio di costanza». «L’apparato psichico tendeva in un primo tempo, egli scrive, a mantenersi il più possibile esente da stimoli: esso aveva perciò, nel suo primo assetto, lo schema di un apparato riflesso che gli consentiva di allontanare rapidamente… un eccitamento sensibile proveniente dall’esterno». L’ideale del saggio non sarebbe dunque che il principio di costanza. L’idealizzazione di uno stadio inferiore dell’evoluzione psichica. In ciò questo ragionamento resta giudicato. Esso condivide troppo le idee del tempo e i suoi stravizi. Siamo in effetti nelle mani degli stolti che ci impongono i loro bisogni, la loro salute, la loro libertà. Pazzi furiosi governano, idioti congeniti legiferano. L’atto unico del vivere viene frammentato in infiniti pezzi che poi vengono riuniti, come in uno stupido giuoco, e poi di nuovo, via, come prima. Tra l’inizio e la fine di ogni evento si tracciano solchi profondi e linee infinite affinché non si colmino mai gli uni e non si raggiungano gli altri e si sospiri così sulla vita perduta. Ma d’altra parte è proprio dei saggi trarsi fuori, come gli dei, dalle cure del mondo e nessuna traccia vi conduce e persino si dubita che ne esistano.

Il «principio dell’uomo»
In maniera sconcertante vengono misconosciute fin oggi le conseguenze del secondo principio della termodinamica che conclude, com’è noto, con la morte termica dell’universo. Invece di costruire attorno a questo immancabile evento una completa cultura, una civiltà degna – come si era fatto nelle culture dell’Inizio, nelle civiltà dell’Origine – ci si è fermati davanti ai «miliardi» di anni che separano da esso. In base a questo lo stesso Planck giudicò il «pericolo» irrilevante. (Come se l’Origine, a cui andò tutt’altra attenzione, non fosse eventualmente, pure essa posta in ilio tempore). L’etica, per prima, vi troverebbe una più equilibrata indicazione. Sarebbe un’etica cosmica, non una vox relativa. E la pietà per tutti i viventi, se mai la dovessimo ad essi, non sarebbe una velleità del sentimento ma una pietà della ragione. Nella morte dell’individuo si vedrebbe, giustamente, la messaggera della morte dell’universo. Il «principio dell’uomo» nella spiegazione dell’universo, al quale la scienza odierna torna a rendere omaggio, ritiene daccapo compatibili i due termini. Nella immagine della «Nuova Alleanza» che Ilya Prigogine, con largo seguito, sostiene, la controfinalità universale per cui l’uomo vive ad onta dell’universo – è risaputo, sebbene obliato, che l’universo non è «indifferente», ma avverso – non viene presa in considerazione mentre nella morte, per dir così, essa te la fa sotto gli occhi. Solo allora in effetti l’universo si rappacifica con l’uomo. Ma non è la «Nuova» bensì la «Vecchia Alleanza».

Ecologi
Chi vuole salvare la natura la perderà. Gli ecologi dimenticano la maledizione ma la maledizione non li dimentica. Essi vogliono fissare la natura alle specie presenti conservandole strenuamente. Come se un ipotetico essere che avesse conservato e protetto i dinosauri non avrebbe impedito così che ci fosse l’homo sapiens. Resta insomma valido che l’equilibrio della natura si sorregge sulla distruzione di specie ed ambienti. Può darsi che un giorno gli scarafaggi succedano all’uomo o altre bestie immonde. Non è accaduto niente: la natura è successa a se stessa.

Riflessione e vita
Ogni volta che riflettiamo, quale che sia l’oggetto, la nostra lucidità guadagna e si estende. Ma l’abisso in cui ci mette e la distanza dall’altro ci costringono a tornare al buio abituale, almeno nelle cose della vita. È così che questa resta sempre indietro e non segue l’intelligenza che vorrebbe trasportarla chi sa dove. Ecco perché il primato della vita, occulto o manifesto, si afferma sempre. E nello stesso tempo si ripetono le accuse all’intelligenza astratta. Ma talora ci sembra che l’intelligenza conquisti terreno e quello della vita diminuisca. Ecco che allora si grida alla morta conoscenza davanti alla vita palpitante, all’arida astrazione contro cui si mobilitano tutte le potenze dell’inferno. Tuttavia ogni volta che l’intelligenza vince un colpo si avvicina il momento in cui incateneremo sempre le sirene.

Manlio Sgalambro, Una voce che chiama e distrugge, La Sicilia, 23 luglio 1990

«A woman called… “José, José”. He crouched like a galley-slave at the sound: his eyes left the sky, and the constellations fled upwards…: José, José…». (Una donna chiamava…: José, José. Egli si acquattò al suono come uno schiavo al remo. I suoi occhi lasciarono il cielo e le costellazioni che fuggirono via… José, José…»).
— Graham Greene, The Power and the Glory

Donne e costellazioni
La voce di una donna chiama, lamentosa e padrona. Davanti a questa voce molti slanci sono crollati e, nella vita di un uomo, spesso è valsa a troncare sul nascere qualsiasi anelito a cose eccelse. Il suo suono richiama al trantran quotidiano, all’ordine, al pranzo all’ora giusta e ai doveri coniugali sotto il lenzuolo.

Futura condanna
Di un uomo di cui si dice che merita di morire, non occorre che poi effettivamente segua la condanna e la morte. Di lui s’è dato infatti il giudizio peggiore. È come se fosse stato messo al bando dal genere umano e nulla di peggiore potesse capitargli.
Che merita di morire significa che lo si ritiene meritevole della cosa più atroce e vile e che questo giudizio lo coprirà a sufficienza di infamia. Così tra i veri uomini, un giorno, si risolveranno i casi estremi della giustizia e la vera condanna a morte sarà che l’individuo che merita la morte viva anzi il più possibile sopportando questo infamante giudizio.

Grandi opere
Caro amico, la differenza verso le grandi opere nel nostro lacero scorcio di secolo mi priva dell’abbandono necessario a leggere la sua.
Le posso assicurare solo una buona lettura da nemico. Di uno, cioè, che ha buttato tutto il suo pensiero nel proprio sforzo e non può ritirare la puntata in nessun momento. Mi capisca. Io non sono più in grado di vedere altro che ciò che io penso. Dei pensieri altrui percepisco solo il fumo e la boria. Convengo con lei sulla gravità del mio stato. Non sono più in grado di apprendere.
Non vedo altra chiarezza che nel mio pensiero e non mi vergogno di dirle che so di sapere. Tutte le virtù filosofiche: dubbio, prudenza, spirito critico, mi hanno abbandonato ed altre follie si sono impadronite di me. Ecco perché non posso leggerla che da nemico. Mi tema.

Dall’Ecclesiaste
«Lætari in opere suo»: godere del proprio lavoro. Di esso godiamo, sì, anche se mostruoso. Che si possa costruire, con spirito di letizia, una preposizione in cui si faccia piazza pulita di sentimenti onorati o si sfiori la criminalità. O confessare la propria viltà in deliziose sequenze che mostrano quanto si stia godendo a scriverne. La gioia della forma compensa di tutto e vince spudoratamente.

Veleni
Heidegger: che grande babbeo!

Confessioni
Si ha voglia di confessioni. Trascinarsi carponi e gridare a tutti i propri segreti oppure incolparsi di ciò che solo si desiderò. Nel caso in questione, quali possono essere le confessioni segrete di un filosofo se non quelle in cui egli rivela ciò che avrebbe desiderato pensare? I mondi impossibili? «Mutuam vero copulationem scriptura cognitionem vocat». Confessa, filosofo.

Corpus presocratico
È come se esso fosse cozzato con violenza contro il tempo e si fosse spezzato in mille pezzi, a volte bizzarri, a volte sciocchi, stupidi, dove si vede che non ha agito un Logos ma non si sa che. L’effetto di questo scontro è paragonabile a quello di un incidente automobilistico, dove il cadavere assume pose grottesche, con braccia che non si sarebbe mai potuto immaginare che potessero ciondolare a quel modo, con gambe in fogge impensabili. L’“idiozia” del frammento presocratico ci dà a volte il senso di una tale rovina.

Manlio Sgalambro, Sulle ombre, La Sicilia, 15 luglio 1990

Sulle ombre
I fantasmi furono visti per l’ultima volta in carne e ossa alla fine del secolo scorso, ma come se venissero da un’altra parte.
Sbuffi d’aria o gravati di catene, come se fossimo in pieno gotico, essi bazzicavano il mondo superassenato. L’illuminismo residuo si esprime nella risatina di sufficienza per queste mattane.
Dickens e Oscar Wilde ci ridono su assieme ai loro lettori. Anzi in The Canterville ghost di quest’ultimo ci si smascella.
Ma nei contributi di due filosofi – nel Saggio sulle apparizioni di Schopenhauer e nella conferenza sui fantasmi di Bergson – la cosa invece è presa sul serio.
Ciò semina di indizi il percorso di chi voglia rendersene conto. Infatti mentre si liquidano gli «spiriti» come roba dell’altro mondo, ognuno di noi «appare» all’altro.
Mentre Schopenhauer, nel saggio citato, spezza una lancia a favore degli spettri, nel Mondo come volontà e rappresentazione, senza nemmeno rendersene conto, fa scendere i fantasmi dal cielo sulla terra: «Mentre… ciascun individuo ha coscienza di sé come intera volontà e intera rappresentazione, gli altri individui, invece, gli sono dati solo come sue rappresentazioni» e ciò reciprocamente. La teoria dei fantasmi colloca in un altro mondo ciò che non finisce di sbalordirci di trovare in questo.
Quel signore vicino si dissolve in immagini come la lattina di Coca Cola negli spot. Ognuno è un fantasma per gli altri. Così la teoria dei fantasmi che sembrava perdersi nell’ignoto, ha in mano le chiavi per schiudere il prosaico regno della realtà.

Una società di fantasmi
Sotto un certo aspetto, dunque, ogni società è una società di fantasmi proprio in quanto nelle relazioni in cui essa si risolve si dissolvono gli individui l’uno nell’altro.
Il regresso agli «spiriti» con cui l’occultismo dell’Ottocento ripagò l’illuminismo del secolo precedente contiene dunque un seme di verità che poi doveva crescere.
L’insistenza della filosofia contemporanea sul problema dell’altro, minacciato da un solipsismo sfrenato, non è infatti una questione universitaria.

Tu esisti perché ti penso
Il forsennato convinto di essere il solo, di buona memoria, non ha nulla in comune col feroce solipsista odierno. «Tu esisti perché io ti penso», dice questi.
Con ciò si rende pieno conto dello stato delle cose. Esposto allo sguardo dell’altro, l’individuo si perde in mille immagini di cui acquista anche la vacua consistenza.
L’empatia con la quale, d’altra parte, due o più individui dovrebbero stabilire uno stato emozionale comune, li fa scomparire nelle emozioni che destano l’uno nell’altro. Anzi l’individuo stesso si dissolve ai suoi stessi occhi.
Sapendo che è un’immagine dell’altro, l’individuo si difende. lo sono più delle vostre rappresentazioni – egli dice – non sono questo o quello, sono un uomo.

Un grido disperato
Ma a questo grido disperato, segue la rassegnazione. Il vecchio Schopenhauer, in un’epoca insospettabile, notava: «Mentre cerchiamo di afferrarci, non riusciamo a ghermire – con un brivido – che un fantasma senza consistenza». Cerchiamo di renderci conto di noi stessi e solleviamo, uno dopo l’altro, i veli che ricoprono la nostra inespugnabile anima. Ma mai troviamo l’ultimo. Anche noi siamo la nostra rappresentazione.
L’individuo è il rapporto tra loro delle immagini altrui. Egli non sembra sfuggire a questo destino e chiede un’anima. Una dura sostanza, un qualcosa che lo sottragga allo sguardo rapace dei suo simile. Ma in questo gioco mortale nessuno sembra salvarsi. Una teoria dei fantasmi si installa al posto della antropologia.

Manlio Sgalambro, L’orrore di dire «sei mia», La Sicilia, 7 luglio 1990

Sentimento di appartenenza
Nessuno più appartiene a nessuno.
Il possesso è temuto tanto quanto fu amato allorché si diceva a un altro «sono tua», «ti appartengo».
Oggi non si vuole essere di nessuno e perciò tanto più si cade nel dominio del primo venuto o di qualche passione da quattro soldi.
Quando si sperimentava il possesso reciproco ed entrambi si sentivano l’una dell’altro, trionfava il sentimento di appartenenza.
In esso si gioiva di essere di qualcuno.
Di avergli affidato le chiavi della propria volontà ormai più non averne.
Oggi questo costituisce «l’orrore» di un passato rispetto al quale viene osannato l’orrore presente.
Il vecchio gergo amoroso, «ti ho», «sei mia», riscattava di fatto «l’avere» e ne faceva un prolungamento dell’essere.
L’annullamento della propria volontà in un altro era il coronamento di questo piccolo capolavoro con cui si faceva fronte alle trappole della vita.

Scambio epistolare
Relazioni quasi interamente basate sullo scambio epistolare prelevano il meglio dell’individuo e così fanno intendere perché quella relazione durò.
L’etica della scrittura, severa e inappellabile, disciplina il rapporto e subordina alle sue leggi la materia fluttuante di un’amicizia o di un amore.
Essi che per loro natura sparirebbero in poco tempo o si avvolgerebbero in contraddizioni mortali, si trasfigurano modellati dalla scrittura.
Ma, si dice, a una lettera mancano i fenomeni concomitanti del timbro della voce, del gesto, del volto che invece nel rapporto diretto sono dati immediatamente assieme alla parola.
Anch’essi sono presenti nella lettera ma post mortem.
Come se ormai il rapporto fosse tra sole anime.
Oggi la lettera continua la sua stracca esistenza per lo più come nervosa comunicazione – richieste di denaro o di qualcosa del genere.
Lo stesso ceto epistolare tradizionale – letterati, studiosi, eccetera – non ha per lo più nulla da dire per lettera e uno studioso, anche di mezza tacca, non si sognerebbe di scrivere, come l’austero Yorck von Wartenburg all’austero Dilthey: «Buona notte e mi invii presto una letterina».

Primato del ricordo
Si può ascoltare attentamente un concerto eppure non sentire niente.
I suoni, bene orchestrati, ti passano accanto ma non te ne accorgi.
Più tardi, quando sei solo, torni improvvisamente a quella musica e mentre tutto intorno diventa silenzioso la senti nitidissima e neppure un particolare ti sfugge.

Assieme a chi?
Assieme a chi passerai i tuoi ultimi anni, alla compagna della tua vita che ti ricorda alto e fiero, che condivise con te le tue battaglie e gli anni di dolore, o a una compagna della morte, intesa solo a propiziarti una bella uscita?
Andrai in un convento, e nella pace della cella, nelle fughe dei colonnati che sembrano portarti non si sa dove, sprofonderai in non si sa quale rapporto con non si sa chi?

Il dono
Un filosofo, abitualmente cupo, si ritrovò una sera in una compagnia di amici in cui provò, per la prima volta in vita sua, la douceur de vivre.
Si ricordò di Epicuro – «Si sappia ridere e filosofare al tempo stesso».
Era un dono dell’amabile Maestro.
«Risparmia loro – si disse di conseguenza – ogni dolore come essi lo risparmiano a te. Che essi giuochino e si rotolino a terra abbracciati e felici. Io veglierò».

Manlio Sgalambro, Sulla città, La Sicilia, 19 maggio 1990

Bisogna essere un flâneur per capire una città. Ci fu insegnato dagli instancabili camminatori parigini dell’Ottocento. Ultimi eredi dei grandi viaggiatori. Come un pellegrino si intraprende allora un viaggio per cui può occorrere una intera vita.
Il rimpianto per le età di compiuta umanità non affligge il flâneur. In questa età, si suppone, tutto si corrisponde e, per dir così, l’idea e la realtà sarebbero identiche. Karl Kraus, che ricopre di ingiurie la Vienna in cui vive, indica il rapporto con la città come se fosse col cosmo. Tutta la sua opera è una maledizione che ha Vienna per immediato oggetto. Eppure la cronaca di una città può essere letta come la cronaca spicciola del mondo intelligente. Da essa si dipartono notizie nientemeno sull’essere. Una visione di Idee può essere fornita dai suoi sobborghi e la rumorosa conversazione dei suoi abitanti riprodotta anche dagli Dei. Ciò che si dice ad Atene, si addice all’Olimpo. Nella città si può cogliere il tramonto di una civiltà camminando per le sue vie e dal volto dei suoi abitanti si può scoprire quanto sono vicini i barbari.
C’è una scorciatoia che dalla città porta al mondo. Bisogna solo decifrarne le corrispondenze. Trovare analogie e affinità. In ogni caso è in essa che la riflessione fa le sue prove. Allo sguardo del flâneur tutto si tiene. Una città che si disintegra lascia intravedere com’è fatto il mondo. Laddove infatti si scosta la brulicante apparenza del sociale, se ne scorge l’elemento metafisico. Anche il Delitto diventa la prova dei nostri limiti ontologici. Tutti moriamo assassinati, non vi è morte naturale.
L’angoscia dello stare-in-una-città come modo di vivere, rivela l’angoscia del radicamento, dello stare in un luogo come stare primario. Presagio di un nuovo nomadismo di cui il viaggiare attuale è solo la caricatura?

Al di là della mutevolezza febbrile che interessa solo l’apparenza, la città è immobile. La sua assenza è l’immobilità. In essa non c’è niente da «migliorare». I nervi tesi del flâneur, questo cacciatore di conoscenze, indovinano il sottofondo di ogni innovazione come cose. Niente si muove, tutto si sposta -così si potrebbe indicare, sommariamente, l’essenza della città post-storica.
«Io sono» e «Io abito» appartengono alla stessa morfologia. In essa si dice che si è, assieme a dove si è. L’essere non è disgiungibile dal luogo. La città è dunque luogo ontologico. Ma nella sua essenza veglia il vuoto. Il vuoto che essa apre nella massa compatta dell’essere e che finalmente la definisce. La città è un non essere. Una blessure béante nell’essere.
Nella città post-storica nessuno può smarrirsi. Se il simbolo dell’antica città è il labirinto, si può vedere tutta la differenza. Entrambi i simboli però stanno in rapporto. Se nella città antica ci si smarriva, era per ritrovarsi vicino a un Dio. Il fatto che nella città post-storica non ci si smarrisca, sta a compensare ciò che accade all’individuo non appena la città finisce e comincia il deserto. L’anonimità della città post-storica rivela, ove ce ne fosse ancora bisogno, la vera condizione dell’uomo: egli non è nessuno. La folla, la massa amorfa, tante volte deprecata da reazionari e progressisti d’ogni genere che contrappongono alla città post-storica, una nuova città «organica», una comunità di esseri stretti l’uno con l’altro, è la spia gnoseologica dell’autentica condizione dell’uomo: l’indistinzione animale è il suo destino. Tutti le stesse facce, dice Hegel. Ma la tentazione di affondare in questo indistinto, perdere ogni individualità e ritrovare l’anonimità originaria, è una tentazione permanente dell’ambiente della città mondiale. Senza più nome, essere un muco. A questo livello si avrebbe una sorta di comunità ma non proprio quella voluta.
La risposta alla fuga da solo a solo che conclude le plotiniane Enneadi è la risposta a un’altra domanda di Plotino che concerne la «cara patria». Essa, si risponde, è la «mia casa». Ma il vivere quaggiù tra le cose della terra non è che crollo ed esilio e perdita di ali, ci dice Plotino nella sesta Enneade. Solo quando ci si lasciò alle spalle ogni contemptus mundi, l’abitare acquistò tutto il suo significato demoniaco e il mondo divenne, nello stesso tempo, città, casa e inferno.

Manlio Sgalambro, Del comico, La Sicilia, 5 maggio 1990

Del comico
Il riso che sghignazza e digrigna i denti è altro da quello che suscita il comico. Questo è un riso conciliato.
Attraverso i leggeri scarti che consentono il riso, l’idea e la realtà combaciano.
Il mondo, infine, è come dev’essere. Il comico fa intravedere l’abisso ma solo per colmarlo subito dopo.
L’essenza del comico si lascia cogliere laddove gli individui sono dati per uguali. Ridere ci rende uguali, dunque.
Ecco perché il comico impazza in un’epoca nella quale l’uguaglianza è un droit de l’homme.
Ma l’ingiustizia del riso si svela nello stesso momento in cui l’altro ne diventa l’oggetto. Subito sfugge di mano l’uguaglianza data per pacifica e dietro le vesti del buffone rispunta il re: colui che ride degli altri.

L’essenza e l’apparenza
Appena il comico insinua il dubbio che la cosa non è come sembra, e fa scorgere l’essenza dietro l’apparenza – un mondo vero dove tutto è miele e sogno di belle Sunamite – subito il riso tramuta la speranza che il comico destò nell’ignominia dei giusti.
Nel riso si scarica il contrasto e il comico che nella vita segue passo passo la tragedia saluta il trionfo di ciò su cui un momento prima ha riso.
Contro la «conciliazione» comica col mondo, contro la soffice risata che suggella il patto scellerato tra l’individuo e il mondo, e in cui ci si scrolla del male con un’alzata di spalle, il riso irrefrenabile dei dannati ci dice che in esso non c’è niente da ridere.
Ma come chi avendo visto l’originale e poi vedendo la caricatura scoppia a ridere, sorge un nuovo tipo di comico che riguarda i sogni dei poveri.

Il riso storico
L’antica douceur de vivre, diventa la «società migliore» sognata da un bovaro. E le gioie domestiche diventano il fine del mondo. Nasce il riso storico.
La natura comica della contraddizione prende Hegel, che collocò il comico nell’Estetica, sottogamba.
Le feste popolari della fraternità e della gentilezza unite al Terrore assegnano al riso un posto di rilievo nella stessa dialettica che Hegel invece spaccia per cosa seria.
Il riso filosofico comincia con Nietzsche. Ugualmente si può dire che con Nietzsche ha inizio la filosofia comica.
«Chi di voi può conoscere insieme il riso e l’esaltazione? Colui che sale i monti più alti ride di tutte le tragedie rappresentate e vissute», dice Zarathustra.
«Non con l’ira, ma col riso si uccide». Nietzsche ha raggiunto la più compiuta visione del comico se può ridere insieme degli umani e dei divini.
Mentre una volta ci si appoggiava all’uomo per ridere di Dio e a Dio per ridere dell’uomo.
Chi parla dell’età presente come di una età della tragedia non ha capito nulla.

L’ilarità di Nietzsche
Nietzsche avrebbe scoperto l’ilarità come attributo dell’esistenza ci pare che dica Klossowski (in Nietzsche, le polythéisme et la parodie).
Karl Kraus digrigna i denti, Nietzsche ride.
Come filosofo comico, Nietzsche capisce che il mondo non è serio. Il riso che quest’ultimo desta è per noi un’altra conferma che esso è mera rappresentazione. Ma il riso che segue non è d i quello che Kant chiamò «un gioco di forze vitali».
A tutto ciò che è condannato, ridi in faccia – è come se Nietzsche dicesse. Il riso dovrebbe affrettarne la caduta.
Il dono supremo di un filosofo comico è la comicità della sua stessa filosofia.
Come ha notato sempre Klossowski, da che Nietzsche s’è consegnato nello stesso momento alla derisione.
Ma non c’è più dove andare per chi è arrivato a ridere della propria filosofia. È qui che ritroviamo Nietzsche e la sua dura filosofia comica.

Manlio Sgalambro, Pietà per voi, La Sicilia, 21 aprile 1990

Confessione
Il delitto mi appassiona. Ma in altro senso e modo di come appassiona i miei contemporanei. Essi vi vedono la completa laicità. Io vi vedo il Metafisico che incombe. Ciò che ci trascende. Insomma il Delitto.
Mi pare che esso sia l’atto originario. Ho tante volte riflettuto sulla conclusione che ne ho tratto: tutti moriamo assassinati. Miseri e illusi vediamo una morte naturale e la distinguiamo dalla violenta con cura dando retta a giudici e avvocati. Ma qualcuno ci uccide. Comprenderemo questo, credo, nel momento di morire e, nello stesso momento, sapremo l’arma.

Misericordia
Il pietismo schopenhaueriano adopera candidamente una nozione pericolosa che basta chiamare col suo nome più realistico perché il pericolo si veda. «Misericordia», infatti. si deve chiamare questa «pietà» in cui, con gesto magnanimo, accordiamo all’altro la nostra attenzione.
La misericordia è dei re, che graziano. Scende dall’alto ma mai sino a rendersi uguale al condonato. Nell’atto di misericordia, tu ridai all’altro la vita, oppure la speranza, o un sentimento che lo inonda, una rinata gioia, ma si sente che viene da un altro e resta di un altro. La misericordia è di Dio, che tutto ti ha dato e tutto ti toglie, ma proprio per questo te lo dà.
La misericordia, infine, è dell’individuo stesso che non si vuole mescolare a te e ti porge il dono con la mano guantata.

Bene e male
Quando i bacchettoni parlano di morale non sanno quel che dicono. Quel che di duro si coagulò, ad esempio, attorno a «bene» e «male» come tremendi giudizi. Con essi non si spartiva il proprio mantello con chi sentiva freddo, ne si dava da mangiare all’affamato. Ma prima di tutto si stabilivano leggi che modellavano un cosmo. Le leggi morali assieme alle leggi naturali squadravano questa massa pietrosa come una scultura e vi davano la forma di esseri esigenti e duri. Le mani che plasmavano erano talora intrise del sangue di nemici, ma si trattava di questioni che andavano al di là della lamentosa carne. Si trattava di modellare una materia riottosa. «Bene», e «male» erano colpi di scalpello. Non si facevano lagne. Si scolpiva.

Confessione
Proviamo un certo sdegno verso alberi, verdi fogliami, foreste onnipossenti e festose. Sogniamo una terra spoglia, senza animali, senza tracce di vita. Ci tentano i paesaggi lunari, spugnosi, dove la massa pietrosa gioca inerte, senza alcuna idea di movimento; dove l’immoto echeggia antichi riscontri, nomi onorati, d’altri tempi. Gli stessi uragani non troverebbero avversari, ma, senza contrasto, passerebbero come un innocuo soffio di vento. Questa visione di moti, invece, questo da fare tumultuoso, le acque che sciabordano miti o le ondate superbe del mare, tutto ciò, insomma, trascura e offende la nostra prossima morte.

Teoria del perdono
Non si prova misericordia che verso derelitti o scabbiosi. Non verso i superbi. La misericordia si elargisce a coloro che non ce la possono restituire. Da costoro preferiremmo ricevere un colpo di daga, ma non misericordia. Così la teoria del perdono muta totalmente indirizzo. Si perdonano coloro che ci hanno offeso perché così il conto torna: un’offesa ciascuno. Ma quest’ultima è mortale.

Addio sole
Cleombroto d’Ambracia si gettò da un alto muro dicendo: «Addio sole». Non gli era occorso alcun male, commenta Callimaco, solo aveva letto il Fedone.

Manlio Sgalambro, Penso per voi, La Sicilia, 14 aprile 1990

Che uno pensi per gli altri viene considerato arroganza e indizio di tirannia. Eppure è tutto qui, mutato quel che c’è da mutare, il senso della redenzione. Prevalso il ragionamento avvocatesco, l’avocasserie si mobilita.
Nessuno può pensare per gli altri, dicono i pelagiani. Solo il pensiero acquistato per forza propria è vero pensiero. Con ciò la filosofia che pensa al posto degli altri, perde la sua aura. Diventa ciò che si dice che sia. Eppure, chi pensa per gli altri, li vuole liberare dal pensiero, renderli semplici e felici, innocenti come fanciulli. Li vuole vedere giocare e divertirsi come gatti. Li vuole liberare non dalla carne, come i vecchi redentori, ma dallo spirito.

Si grida all’irresponsabilità ogni volta che chi pensa si sottrae ai tabù. Un pensiero può portare all’omicidio? Ma a te tocca pensare. Ad altri trarre le conseguenze. Ma così non te la fai facile? Sì. Ma difficile è pensare.

Qual è lo scopo dell’agire? Che gli uomini non debbano più soffrire, che ognuno si sviluppi e si emancipi. Ma perché non cominci da te? Rimuovi la sofferenza indurendoti, o trasformandola in più lievi forme, in nuances deliziose a cogliersi. Emancipati persino dal pregiudizio dell’uomo e sii soltanto. Vedrai allora che gli «altri» scompariranno e immobile, solo, cadrà ai tuoi piedi la catena della società.

Non ci si accorge del riprodursi della società, come invece ci si rese conto del riprodursi della natura come cosa maligna per cui Schopenhauer trovò il nome, per lui orribile, di «Volontà».
La società si riproduce ciecamente, trae da uomini e cose, altri uomini e cose, e qualsiasi piano si abbozzi tosto essa lo rompe, e dilaga come se avesse una propria esistenza indipendente. È la sua esistenza che le interessa. Essa pensa solo a esistere e basta. Che debba essere, per di più, giusta, ecco una pretesa in cui si mostra di non avere capito nulla della sua natura. Essa maciulla gli individui a lei affidati e si riproduce da questo mattatoio più giovane e fresca di prima.

Cosa tenga unita una società, ciò si è lasciato dietro molte risposte di cui restano i detriti. Ora come ora, la società sembra solo una lunga abitudine. La sua durata infinita, come prospettata anche dai migliori, fa semplicemente spavento. Essa ha ridotto in schiavitù l’uomo libero che viene duramente richiamato a dare il suo quotidiano tributo.
Chi si sottrae è l’asociale al quale la società mostra il suo vero volto o, peggio, la sua assistenza comprensiva. Le sue carceri pullulano di ladri ed assassini ai quali insegna il suo concetto di libertà che essi conoscono bene. Ma sarebbe non averne capito niente attribuire tutto ciò alla sua «ingiustizia», essa è quel che è. Maligna è la sua stessa esistenza. La società non è sociale.

I problemi della società hanno sempre più la natura delle soap operas. Sono infatti i produttori di detersivi e simili che finanziano le ricerche sulla società migliore come sul sapone che fa più bianco. In realtà al miglioramento della società tengono altrettanto che i poveracci. Gli uni per le ragioni anzidette, gli altri perché la intendono come una festa paesana, facce piene di sorrisi e pacche sulle spalle.

La società è una infinità di mediazioni. Prendiamo la fabbricazione del pane – esempio caro a Simmel -. «Al di fuori» della società essa rasenta quasi la immediatezza, è a portata di mano, ancora all’interno di uno spazio facilmente dominabile. Nella società essa è un atto praticamente infinito, il termine ultimo di una serie di atti che sono messi in moto da una quantità illimitata di individui. La saggezza, l’integrale autonomia, una effettiva distinzione nella pratica che l’individuo operava scrupolosamente corrispondeva a qualcosa di vivente, sono rese da ciò impossibili.
La pratica stessa, di cui ci si riempie bocca, non corrisponde più a una netta distinzione nella vita. Essa non è, cioè, un lucido perseguimento della felicità, ma un vano stordirsi. Per esserci assicurati la vita, contro il pericolo della morte violenta, come osò pensare il misterioso Hobbes, abbiamo perso la vita che nei pericoli, sfidando l’estremo, avrebbe conservato intatto il suo significato conquistato ogni volta nel felice combattere.

Manlio Sgalambro, Godi di te, La Sicilia, 7 aprile 1990

Le antiche ragioni per cui si distinse tra apparenza e realtà, tra mondo vero e mondo falso, affondarono poi nel fango.
Questa sublime alterezza della ragione per cui si seppe guardare in modo da tenere fermo un ordine fu travolta da filosofie di massa. Non vi fu soltanto una foi du charbonnier ma anche una ragione. L’ordine del «vitale» a cui la disciplina della ragione risultò avara infranse, mandando avanti la canaglia, il rigore e confuse istinti e sillogismi. L’esattezza della distinzione, erosa da pensatori confusi, come fu il Nietzsche, non fu più praticata. Proprio costui in ultimo vinse. Laddove un sentimento della dissoluzione assieme a una ferma ragione sembravano l’ultima parola, doveva convincere i molti una dottrina della calda vita che sale, e la febbrilità dell’agitazione di chi non ha una via.
La distinzione tra bene e male fu insieme un giudizio e una condanna. Chi volle stabilire l’innocenza doveva cancellarla. Un disperato tentativo di ristabilire la distinzione tra mondo vero e mondo apparente va fatto. Certo dalla ragione non emana più una luce imperiosa, ma fioca e a tratti. Lampi che illuminano per momenti e poi si spengono. In quegli intervalli mentre si dissolve l’apparenza, lo sguardo penetra più addentro, pago di avere visto quel che ha visto.

La raccomandazione di conoscersi fu sempre usata in senso riduttivo. Come dire, conosciti e ne vedrai delle belle. Insomma se uno si conosce non può pretendere molto, diventa umile e modesto. In effetti è quello a cui si vuole ridurci, a un buon pidocchio rispettoso e misurato. Cerca invece di non conoscerti e adopera la forza che te ne viene nel migliore dei modi. Non ti perdoneranno. Ma poiché tu non ti conosci, non hai niente di cui farti perdonare.

«Es wird ein Wein geben und wir wer’n nimmer leben»: ci sarà ancora del vino e noi non ci saremo più. Mai il rimpianto è più acuto come quando si lega a piccole cose. Un nastrino di seta, il fiore secco tra i libri di scuola, non li rivedremo più. Questo rimpianto si nutre di cose senza importanza, ma allora più forte è il sapore aspro della fine. Guardiamo volti cari, come gli eroi il giorno della battaglia, ma le inezie ci fanno stringere il cuore e la sciagura ci attanaglia.

Ci accorgiamo a volte di avallare una filosofia come lamento; un accorato mormorio che accompagna lo svolgersi delle cose. A volte un filosofare come imprecazione; una sorda ira che non vorrebbe risparmiare niente. In entrambi i casi sappiamo di peccare e invidiamo la sana calma del filosofo di mestiere che incassa i colpi col sorriso tra le labbra. Ci aiuta Pirrone che in una situazione di pericolo, ai suoi atterriti discepoli, addita dei porci che poco distante, tranquilli, continuano a mangiare.

Ne l’Ordination di Julien Benda, piccola opera «romanzata» di questo filosofo eccellente, sentiamo dire al protagonista che l’amore non è forte che nell’austerità. Possiamo anche pensare a un rapporto d’amore che viene solo attraverso le idee. I pensieri che due si scambiano possono essere brucianti come carezze e serpeggiare per il loro spirito come le ardite mani che sconvolgono il corpo. La carne? Dal macellaio.

C’è una tale tendenza all’inumano che certamente dev’esserci in incubazione qualcosa. Sono tentativi verso un’altra formazione «antropologica»? Nasce forse l’uomo solo che però vivrà poco perché tutto è fatto in modo che non si possa vivere se non in relazione.
Fate però che si superi questa fase e ognuno sarà una specie. Non dovremo preordinarci a degli altri ma ciascuno sarà tutto e vivrà per il godimento di se stesso.

Manlio Sgalambro, La vita felice, La Sicilia, 31 marzo 1990

Felicità possibile
Suggerimenti sulla vita felice se ne possono sempre dare. Sottile crudeltà del pessimista. Egli tesse una trama i cui richiami ammaliano come un’eterna aurora. Moralista pentito egli non guarda più le agghindate vesti delle virtù ma scatena la folle danza dei sette veli. Passa dall’altra parte con armi e bagagli. Percorre le sconosciute strade del piacere con la baldanza del novizio. Ogni volta che il pessimista tornò sui suoi passi fu per immaginare una vita felice e poi mandarla in mille pezzi come un bicchiere da operetta. Eppure la felicità è possibile: questo ci getta nel più nero sconforto.
Senza dolore ci sentiamo vuoti e senza interesse scorre la nostra vita. Chiamiamo felicità il rapido abbraccio, l’estasi del coito, il sorgere del mattino gaio e splendente. Il duro dolore ci trova invece pronti all’attacco, pronto il cervello, i pensieri che scorrono come guizzi di animali che devono nutrirsi e sbranano la preda. Mentre questi li inebria il sangue caldo, gli altri danno forma alle cose noncuranti delle vittime. Eppure, quando si insinua, come un rapido lampo, la volontà del bene, il pensiero tace per incanto e la sua unica arma è una delicata carezza.

Scopi di un giorno
Vogliamo cercare uno scopo che ci serva per un giorno. Perché di più? Se sei riuscito a terminare il giorno col sorriso e tenero il cuore, quale altra cosa puoi volere? Pensa a quegli esseri che hanno solo un giorno di vita. In così breve spazio – sei tu che lo chiami «breve» – volteggiano gai, si riproducono e come se avessero visto tutto scompaiono come piccoli sbuffi d’acqua che il pigro mare raccoglie sbadato. Vivi il tuo giorno, dunque, ama per oggi intanto. Dormi? Sei morto. Ti svegli? Sei rinato, alleluia. Rinascerai per ventimila, forse trentamila volte. La pace sia con te.

Alla fine fu la parola
Gli altri? Con misura. Come Socrate, gli alberi ci annoiano e il parlottio umano è una batosta per le orecchie delicate. Parlare è un’attività inferiore. Guarda le labbra, le loro mossettine leziose, oppure il grugno, o ancora lo spalancarsi della bocca annoiata. Peraltro la compostezza degli animali è cosa nota. L’avere eletto il parlare come ciò che lo distingue è degno dell’uomo. In principio era la parola. Possibile? A noi pare che essa sia all’ultimo: rumore di case che crollano, di calcinacci che si sbriciolano, tutto va alla malora. Sì, la parola è alla fine.

Esperimenti mentali
Al filosofo non si consentono esperimenti. Le sue proposizioni generali devono essere confrontate con i nobili concetti, non in corpore vili. L’esperienza può solo confermare o negare. Esperimenti, comunque, che prendano l’uomo di petto vengono ancora annoverati tra le nefandezze di cui sarebbe responsabile – si distingue recisamente – l’individuo non il filosofo. Heidegger ha pagato con l’ignominia esperimenti mentali che invece si consentono ai fisici su ben altra scala. La bomba atomica, che invano si vorrebbe sistemare nell’ambito della pratica, fa parte integrante della teoria. Mentre riguarderebbero l’homunculus gli esperimenti mentali fatti da Heidegger sull’uomo in nome dell’Essere. Si prospettano tempi in cui grandi esperimenti attendono il filosofo. Gli uomini gliene vorranno. Ma è dal suo laboratorio che uscirà un giorno, se mai sarà possibile, la felicità che invocano.

A una amica
Cara amica bisogna che le parli urgentemente di ciò che siamo. A un tratto mi pare chiaro. Siamo solo un incrocio dei pensieri dell’altro. Sì, l’essere si risolve nel pensiero. Così ha ragione la vecchia cricca idealistica. Ma la nobiltà della tesi è decaduta e ormai si raccolgono i cocci. Lei è dunque ciò che io penso di lei, e ciò che lei pensa di me sono io. Ciò non significa molto, mi creda; non si turbi. In questo incrociarsi di pensieri scompariamo, l’uno nell’altro e ciò che resta non vale nemmeno la iena. Filosofi intemerati hanno creduto di risolvere nel rapporto tra gli uomini tutti i problemi. Hanno ragione? Non so. Ma se è così non si sorprenda di ciò che sostengo io e della mia Teoria dei fantasmi che mi propongo di sostituire ad ogni antropologia che si vorrà presentare come scienza.

Manlio Sgalambro, Nulla da dire, La Sicilia, 24 marzo 1990

Avanziamo una tesi ridicola: il filosofo è infallibile. Naturalmente l’affermazione non può essere dimostrata ma bisogna prendere lo stesso delle precauzioni. Diremo anzitutto: il filosofo è infallibile quando parla da filosofo. Se egli dice: domani farà bel tempo, Marte è abitato, sicuramente in questi casi egli non è infallibile, ci mancherebbe; gli tocca ingannarsi come gli altri. Ognuno ricorda come la filosofia moderna cominciò astutamente col dire che tutti ci inganniamo per poi arrivare ad affermare che non si inganna nessuno. Non si può assolutamente biasimare per questo.
Un filosofo che non abbia questa spudoratezza ha sbagliato mestiere. Lui deve fare proprio qualcosa del genere, dire quali sono le evidenze che ha potuto mettere da parte e cosa intende farne. Sono poi gli altri che magari a colpi di piccone devono fare piazza pulita e lasciarlo con un palmo di naso.
Ma se lui stesso viene a dirci, ecco, dopo avere tanto tribolato, dubitato tanto, essermi ingannato sino al punto che non mi restano occhi per piangere, sono al punto di prima, vuoto nelle tasche e nella testa, ebbene no, questo egli non deve venircelo a dire. Non siamo di quelli che si lasciano prendere in giro impunemente. Almeno in filosofia. Eppure vi sono dei tali che pretendono questo. Essi dicono che non hanno nulla, ma proprio nulla da dire, e con ciò stesso sono dei filosofi. Sì, essi ci dicono che non hanno nulla da dire usufruendo di tutti i mezzi più arditi della logica, strizzano il loro cervello che se ne sente lo stridore, insomma tutto è fatto con metodo e nessuno gliela fa.
Ma il risultato resta sempre quello di prima. Noi non abbiamo nulla da dire, essi insistono, però dovete convenire che questo ve lo abbiamo detto con metodo, con tutte le procedure del caso, tutto è controllato, le analisi precise, eccetera. Vi diciamo, sì, che non abbiamo nulla da dire, però guardate in che modo, in che maniera perfetta, con che professionalità!
Prendiamo una zucca vuota come il tipo di cui stiamo parlando. Egli non ha nulla da dire. Se c’è uno che non ha nulla da dire è proprio lui. Però è formidabile. Meglio di uno che ha tante cose da dire. Questi magari avrà scritto in tanti anni qualche esile libro, ma lui, non parliamone neppure. Insomma a non avere nulla da dire, in filosofia, ci si guadagna sempre. Se uno ha qualcosa da dire è nei guai. Cominciano i problemi. Probabilmente è rimasto invischiato nella faccenda e ha un diavolo per capello. Il suo umore non è da credersi, tutto gli gira storto; egli ha qualcosa da dire e non pensa ad altro, trascura la moglie, i figli, la professione, tutto va a catafascio. Invece vedi chi non ha nulla da dire. Le cose gli vanno bene sin da quando si sveglia. Va a gabinetto e fischietta che è un piacere. Che buona digestione, che cera perfetta, che meraviglia di ravanello! Egli non ha nulla da dire, la sua testa è perfettamente vuota, non gli alberga un solo pensiero. Anzi, vuoi sapere come la penso? Egli è proprio un nulla: «nulla determina il nostro pensare e il nostro intero esistere» dice infatti senza dir nulla (P. A. Rovatti, Elogio del pudore, nel volume dal medesimo titolo, Feltrinelli, Milano, 1989). È proprio così.
Il nostro filosofo così vuole essere chiamato – ha una filosofia in ogni porto. Abbozza solo ipotesi, a questo modo gli sembra di non fare male a nessuno. In filosofia avere un’ipotesi è infatti come non avere nulla. Cosa fare allora? Siamo sempre lì. Si tratta di filosofare senza avere niente da dire. Ma l’audacia del nostro non ha limiti: per lui, addirittura, si tratta di filosofare senza avere nulla da pensare. Qui il nostro raggiunge il massimo della spericolatezza. Fare filosofia senza avere nulla da dire è una cosa, ma vuoi mettere fare il filosofo senza avere nulla da pensare? Qui l’esercizio diventa estremamente difficile, roba da virtuosi, roba rara.
Torniamo a quella tesi ridicola che abbiamo proposto all’inizio: il filosofo è infallibile. Pensiamo a Hegel. Qualcuno potrebbe sostenere che egli si sia mai ritenuto, come filosofo, fallibile? E Schopenhauer? Forse che Agostino non godé pure di questa specie di infallibilità? E Spinoza? Anzi, se ci badiamo, essa è tutt’uno con l’avere qualcosa da dire e da pensare. Se io non mi ritengo infallibile non ho in filosofia nulla da dire. Anzi, non posso nemmeno pensare. Cosa dobbiamo credere cocciutamente allora? Che il filosofo in quanto tale è infallibile. Non importa che la gente, a sentirlo dire, scoppi a ridere. Una cosa è sicura: egli non sarà confutato in eterno. Come non fu confutato mai nessun vero filosofo. Essi restano lì, splendenti come diamanti appena estratti che la luce tocca eternamente per la prima volta. Quanto al “filosofo” che forza, ebbene come c’è l’impotentia cœundi c’è pure l’impotentia philosophandi. Ma in tal caso, divorçons!

Manlio Sgalambro, Bieca virtù, La Sicilia, 10 marzo 1990

Svogliatezza
Con essa si presenta la negazione nella sfera della volontà, ma timidamente.
Lo svogliato non è che non vuole, ma piccoli conati di volontà partono da lui svanendo quasi subito.
La volontà si disperde in mille rivoli ma non riesce ad annullarsi.
Poiché la volontà è poca, lo è anche la nolontà.

Vita felice
Che si possa vivere felici, solo la bieca virtù lo nega.
Dal saio da cappuccino escono tremende invettive. Ma come si accorda una visione critica della vita con tutto questo?
Niente di più di come è il mondo è sufficiente per un rifiuto. Tuttavia niente e nessuno ci potrà convincere che una combinazione di casi non prescelga Tizio o Caio e li innalzi sulle vette del piacere.
Sì, essi saranno felici, perché no? Ma ciò non smentisce il carattere tristo di tutto questo.
E infine il curioso scherzo che chi vive subisce – morendo.

Medea superest
Il moderno cinismo è restio a riconoscere se stesso come se qui finisse il suo spirito libero.
Ciò che segue, invece, lo presuppone.
Riconoscere nel cinismo l’unico sguardo a misura di questa realtà è il mandato dell’intelletto che vigila.
Ma come può darsi in questo duro presupposto una fonte di pace individuale? Acquisita, cioè, attraverso la sola contemplazione mentre ogni fare viene giustamente rinnegato?
L’unica idea che ci resta del bene e del bello è che essi non mutano niente.
Lo stesso individuo viene confermato nella sua quiddità. Egli conquista la sua pace con tutto se stesso.
Il bene e il bello sono affar suo assieme al godimento della sua individualità. Perché, in tutto il precipitare delle cose nel vano rincorrersi dei giorni quando non resta più nulla, resta se stesso.

Del bello
Qui si tenta di trovare il bello al di là dell’arte, suo veicolo tradizionale, ma nello stesso tempo la sua tomba.
Se non si parla più del bello come di ciò che è essenziale, lo si deve all’arte che ne ha sperperato il concetto.
Ma dove si cercherà il bello se l’arte non è più all’altezza della richiesta? Diventa decisiva la contemplazione estetica.
Ma come contemplazione di linee, di segni, di stupidi ghirigori, di parole che ammaliano.

Intellettuale
Intellettuale è colui che traffica con l’intelletto e con esso zappa il mondo.
Ma l’intelletto a servizio va contro la sua destinazione che andava lontano.
Aria di montagna e cieli cristallini. Si disse che esso costruiva empirei e trasformava il fluire della vita in orride cose. Quante se ne dissero!
Ora invece l’intellettuale fa da bastone e sorregge gli zoppi. «Tutto ciò che zoppica venga a me, e sarà come se avesse due gambe dritte e belle».

Morale per morale
L’intera morale è supererogatoria proprio perché non si deve niente a nessuno
La stessa affermazione della necessità della morale per la vita è, come si sa, semplicemente diffamatoria. Essa diffama entrambe.
In ogni caso ciò che rende di fatto possibili i rapporti tra gli individui non è certamente la morale.
Ma allora, perché la morale, da dove spunta, quale follia richiede che un’azione non sia soltanto ma sia buona? Quale mistero!

Manlio Sgalambro, Analisi dell’ira, La Sicilia, 17 febbraio 1990

Bisogna respingere il sapere interrogativo. L’uso errato del «problema» nella riflessione filosofica. Il privilegio sornione della domanda sulla risposta. Si deve invece dare il primo posto a una filosofia fatta di risposte, a un energico dogmatismo che sappia, nel pericolo, disporre difese e trappole. Perché il nemico è là, da qualche parte, e si deve vegliare. Per ucciderlo occorre una verità. Degno e indegno, nobile e ignobile: qui è il vero travaglio dell’intelletto valutativo. La dualità bene-male è figlia della povertà, della pochezza spirituale di secoli pieni di fame in cui si andava a tastoni. Cosa si può misurare con «bene» e «male» oltre la soglia dell’uscio? Degno e indegno misurano invece l’universo e lo trovano scarso per esseri a cui l’intelletto diede una giusta tracotanza.
L’intelletto senza l’ira, infatti, è vuoto. C’è un’ira pertinace. Un rancore inobliabile. C’è la furia repentina, l’amaro del fiele, la collera, la rabbia. Tutti o li cantarono i poeti o vi si buttarono sopra 1 filosofi per placarli. Non ha niente di umano, dice dell’ira Seneca. Strano. E chi altri se non l’uomo la pratica? Ricevemmo un torto e lo ricevemmo ingiustamente: vi sono già tutte le condizioni dell’ira. Ma quale torto, e di quale ingiustizia si parla? In ogni torto c’è annidato il più grande di essi, in ogni ingiustizia quella che tutte le compendia. Nell’ira noi restituiamo a piccoli colpi quello che ci fu assestato in una sola volta quando nascemmo. Atteniamoci a questa equa definizione condivisa da Lattanzio nel De ira dei: «l’ira è il desiderio di punire chi ci recò danno». Ma, da chi fummo lesi? Chi investe questo desiderio di punire? Andiamo, si è capito.
L’ira è uno scuotimento del nostro essere conseguente a un’offesa che ci fu arrecata in un tempo immemorabile. Essa affonda, cioè, le radici nel momento in cui qualcosa ci precipitò nell’essere. Da qui si ripercuote nei minuti comportamenti quotidiani. Essa compare istantanea, dura quanto le tocca e poi scompare come inghiottita dal nulla. Ci si domanda: cosa fu? Che ci accadde in quel momento, come fu possibile? Siamo sorpresi, increduli, eppure tutto si spiega. È come se sentissimo in bocca d’esistere. La lingua ne rimanda il sapore, impastata e amara. Niente o solo questo: siamo, per Dio. L’ira allora ci sorprende sorniona e per quello che ormai non può non essere – chi è stato una volta, è per sempre – qualcuno ci va di mezzo. Essa si svuota su di lui della pervicace forza distruttiva. Ma non lui vorremmo cancellare, né noi stessi infine, ma ciò che fece sì che entrambi fossimo.
Si contrappone l’ira alla ragione, silenziosa e tranquilla. Questa, commenta Seneca, distrugge dalle fondamenta città intere, stermina i nemici, annienta chi è ostile allo Stato, impassibile. L’altra fracassa ciò che c’è intorno, digrigna i denti, si strappa i capelli, percuote. L’una fa la stessa cosa con passi felpati, si muove a mo’ di danza, come un gentiluomo di razza. L’altra si dimena e scolora in volto, azzanna e strilla. Però entrambe vogliono lo stesso. Infrangere il disegno delle cose, farle andare in rovina, colpire al cuore chi o cosa diede avvio a tutta questa faccenda, si chiami essere o mondo o Dio.
Diremo allora che la ragione è un’ira contenuta e l’ira la ragione che si disfrena? Può darsi. Si nega nobiltà all’ira. Anche quando essa disprezza gli dei o si volge contro il Cielo? Anzitutto c’è un elemento non trascurabile, qui, la disparità delle forze. Chi si scontra con la forza, e ancora più con una forza immane, respiro e moto del tutto, dà nobiltà al suo agire solo per questo. L’ira contro il Cielo dà a vedere, pur nella disparità, nello scalmanarsi delle proprie fattezze e nella finale sconfitta – si perde sempre contro il Cielo – la grandezza.
L’esorcizzazione dell’ira, nell’affettività occidentale, segue la caratteristica imputatele di breve follia. I moralisti non vi videro altro. Ma essi furono complici del mondo di cui baciavano le terga. L’ira metteva in moto un processo che arrivava sino a Dio attorno al quale s’era eretta una insuperabile barriera protettiva. Fino a che Spinoza non disse, in una rarefatta atmosfera, che Dio era semplicemente «amato», non s’era capito niente. Occorreva che qualcuno lo dicesse come lo aveva detto lui perché la «rabies» teologica arrivasse sino a quello. Parliamo di una rabbia fredda, come freddo era l’amore che Spinoza gli concedeva. Da allora si fa sempre più attendibile una maggiore attenzione alla rabbia che è sempre rabbia di essere. Non perché si desidera il nulla. Ma perché ci si mise nella condizione di doverlo desiderare.

Manlio Sgalambro, L’odio dell’io, La Sicilia, 4 febbraio 1990

L’odio dell’io
(In una angusta stanza, dalle cui pareti strapiombano libri, A e B parlano del comunismo).
A: Io sono un comunista disperato. Traggo, cioè, l’idea di un comunismo – che non confondo con la balorda solidarietà -non dalla storia, da cui non mi sognerei mai di aspettarmelo, ma contro la storia e, per così dire, da un’altra parte. Vuoi il comunismo? Ma questo significa che non vuoi né un «io» né un «noi», ben di più: una indistinzione, un muco, una poltiglia in cui ogni differenza sia solo approssimativa e vaga. Non vedi, dunque, come esso sia un regresso, un divino regresso verso una totalità infusa, anodina, in cui fare tacere la propria individualità è godere di un nulla relativo?
B: Insomma, se non ti ho capito male, tu cerchi una ragione comune e la poni, anzitutto, nel rifiuto della ragione individuale. Ma ciò non come se ci fosse un ordine che l’impone, come nel vecchio ciarpame dottrinario, bensì come un atto o come il rifiuto stesso di essere. Essere infatti è essere individui.

Il comunismo, rifiuto di essere individui
A: Sì, hai precisato bene cosa intendo. Il comunismo è il rifiuto di essere individui. La volontà, se così posso dire, di essere nessuno.
B: Colgo piuttosto in ciò che dici un comunismo metafisico, una condizione non dissimile da un’estasi mentale.
(Devo confessarti, comunque, che a volte il comunismo mi parve un monachesimo, sia pure per le masse). Ma non è certo ciò che si vuole…
A (interrompendo): Non mi ripetere questo indegno argomento quando, come sappiamo entrambi, la moneta falsa è prevalsa sino al punto da intendere il comunismo come l’esaltazione dell’individuo. Barbarie, solo barbarie!
B: Ritorniamo allora al punto di partenza, anche se non richiederò certo un ordine in questa tua esposizione.
Tu parlavi all’inizio di un comunismo disperato…
A: Certo. Esso infatti va all’inverso delle nostre attese (non è un «bisogno», come si osò definirlo sfacciatamente) e non si confonde nemmeno con i richiami alla libertà, deplorevole abuso di un nome i cui infiniti echi – ma, ne converrai, assai oscuri – sono usati come, una volta, gli appelli al non meno oscuro nome di Dio.

Il punto d’arrivo di un pessimismo totale
A: Io ritengo il comunismo il punto di arrivo di un pessimismo totale che parte dal rifiuto di essere, tenendo conto, come tu giustamente hai detto, che essere è essere individui. Il comunismo si realizza nel momento in cui l’essere e il suo rifiuto si installano nella nostra coscienza per non andarsene mai più.
B: Mi sembra di ricordare, infatti, che tu una volta hai definito il comunismo, ed eri pienamente convinto, come un certo odio dell’io; un certo rifiuto che, dicevi, ti costava, di ogni ragione particolare.
A: Per il comunismo non ci può essere cura alcuna dell’individuo. Questi è un mezzo, non un fine. Il fine è la ragione comune.
B: Nota però che qui è il punto più amaro e nello stesso tempo più umiliante. Che questa ragione comune non può non incarnarsi a sua volta in un individuo. E tutto ciò è spaventoso.
A: Vedo qui l’eterna necessità della dottrina del Verbo incarnato e vorrei ricordarti queste parole del De servo arbitrio di Lutero. «Dio mandò il suo figlio unigenito nel mondo e lo caricò di tutti i peccati degli uomini, dicendo: tu devi essere Pietro il rinnegatore, Paolo il persecutore, bestemmiatore e violento, David l’adultero, il peccatore che mangiò il pomo del Paradiso, il ladro sulla croce; insomma devi essere colui che ha commesso i peccati di tutti gli uomini».
Spaventoso, tu dici? Ma sei qui, vivi, ed allora non fingere più. Non fummo destinati a una festa ma – comprendi veramente? – a vivere! E dobbiamo cancellare questo errore. Questa ragione comune a cui la storia non conduce, ma un salto che non ti so meglio precisare o qualcosa che chissà da dove spezzerebbe il cerchio infernale – la vedo come uno spegnersi di questo di più, di questa eccedenza che è l’individuo. E in un’estasi, oserei dire, non verso l’Uno ma verso i Molti e un disperdersi in essi.

Manlio Sgalambro, Un gioco di inganni, La Sicilia, 20 gennaio 1990

Libri
Le sensazioni che si partono dai libri non hanno l’uguale. Esse scivolano come su un piano levigato ed invitano per cenni ad entrare. Si apre l’altare di Dio. Si faccia avanti il puro. Ma questa verginità immacolata, che si legò a suo tempo al libro, è oggi percorsa da mille impudicizie che si consumano con residua vergogna in angoli oscuri. Note di lavandaia, furono detti da un devoto dello spirito; ma anche lui non scherzava, il buon Walter Rathenau. La delicata composizione, che auspicava Novalis, un intrigo di note e concetti fatto per una specie superiore, cade nel più triviale. Vi si trovano invece i bassi istinti della canaglia, che del resto vi si dovrà rispecchiare. Non possiamo farci nulla. Chi scrive ancora ne ha per poco. I diritti della comunicazione si affermano imperiosi. La chiarezza invocata distrugge il mistero della scrittura.

In memoria di Ipazia
«Affrettiamoci a rendere la nostra filosofia popolare»: che orrendo disegno, questo di Diderot! Ad esso dobbiamo l’imbarbarimento di una disciplina che, assieme alla matematica, resisteva agli assalti del volgo, di quello stesso che trucidò Ipazia nel marzo del 415. Bisogna invece renderla difficile, e se lo è, ancora più difficile.

Inganno
Non possiamo evitare di guardare quei colori smaglianti, che afferrano i nostri nervi e li fanno vibrare e che certamente sono lì per adescarci.
A volte sembra che siamo ingannati e che ci sia perciò un Ingannatore. Un’ipotesi con cui si gingillò Descartes.
I tenui colori di un tramonto, o la beata sensazione di essere eterni, tutto cospira e noi traiamo da lì la stanca energia con cui continuare. Ebbene, sia pure un inganno, un crudele giuoco, lo spasso di un gran Qualcuno, tuttavia ancora, ancora, ancora…

Imparare a conoscere
Dal Dell’esercizio di Musonio Rufo trai, o Colotuccio, quanto occorre per abituarti al freddo e alla fame. Poi avvezzati da te, coi tuoi mezzi, a conoscere. Comincia da un filo d’erba per arrivare a un granello di sabbia.
Descrivi quest’ultimo per anni. Dopo, ti giuro, sarai in grado di conoscere anche te.

Passeggiata di sera
Ci avviamo, come al solito. Il buio ci nasconde. Non fa vedere i pensieri stampati sul volto.
Il mostro può andare tranquillo. Il capo basso, gli occhi che guardano attraverso le dure ombre delle pupille.
È come se camminasse su un filo o attraverso dirupi e aspri sentieri, ma spedito è il suo passo e sicuro.
Che pensa? Cosa, stasera, appagherà il suo vizio? A chi tocca? Abbandonato a questo piacere – quasi languido, a dire di Seneca, come ogni piacere del saggio – egli è felice.

Aporie dell’agire
Là dove un’azione si incontra con altre che provengono da agenti diversi e si incrocia con queste, essa si muta in tutt’altro.
Soltanto i concetti sussidiari di responsabilità, di colpa, eccetera, escogitati per tentare di isolare il risultato di un’azione dall’agente, nei casi più gravi, fermano appena i controeffetti del fare sull’individuo allibito.
Il fatto che quasi sempre non ci si riconosca nelle proprie azioni aiuta non poco a chiarirsi le idee.

Il salto
Ciò che fa superare lo hiatus che divide un individuo dall’altro e induce alla contemplazione morale anche del più malvagio, è il fatto che egli morrà.
Non c’è niente più di questo che possa fare attuare il salto che porta direttamente all’altro.
Il bene che possiamo fargli è solo volere che egli non muoia.
La volontà «pura» che un altro non muoia è ciò che si chiama, molto impropriamente, la volontà buona.

Manlio Sgalambro, Umor nero, La Sicilia, 6 gennaio 1990

Umor nero
Col metodo ipocondriaco si conviene che uno soffra tutti i mali del mondo – incluso, s’intende, il male della ragione -: da questo momento egli può studiarseli con la dovuta calma. Costui, cioè, è capace, in virtù del metodo, di soffermarsi su ciascuno di essi come se fossero di un altro. Naturalmente anche sulle passioni di un altro come se fossero proprie. Sempre in virtù del metodo. Ben s’intende: va riconosciuto che il metodo ipocondriaco è il metodo dell’ira e della furia. Ma, per l’incantevole imperturbabilità del metodo, esse investono, sì, ciò che le circonda come un uragano che tutto abbatte e divelle, ma sempre con la levità di un metodo.
Si deve dire inoltre che si tratta di un metodo minore non uso a trattare le grandi questioni o uso a trattarle attraverso la cruna di un ago: un intelletto reso torbido dalle passioni. Si potrebbe anche dire che si tratta di un moralista sperimentale che conduce i suoi «esperimenti» ipocondriaci con tutta la calma possibile.
Potremmo citare come un illustre esempio del metodo ipocondriaco applicato e dimenticato, Kant. Ci coinvolge in questa convinzione un libro recente, Ragione e ipocondria, dove il severo kantista Paolo Manganaro, raccogliendo e traducendo scritti del Kant “ipocondriaco”, premettendovi una ricca introduzione, riprende l’intero problema.
Le parole di Kant circa l’influenza dell’ipocondria sui suoi pensieri, in cui egli afferma di averla padroneggiata come se non lo riguardasse, sono terribilmente chiare. Trattare l’ipocondria di cui si è in preda come se non ci riguardasse affatto è trattarla appunto come metodo.
Per la verità, sulla tarda Antropologia dal punto di vista pragmatico Goethe aveva dato un giudizio che voleva essere malevolo ma che era esatto. Scrivendone a Schiller affermava: «Dal suo punto di vista l’uomo compare sempre in una situazione patologica, e dal momento che, come ci assicura questo vecchio signore, l’uomo prima dei sessant’anni non può diventare ragionevole, diventa un passatempo di cattivo gusto stare a spiegare il precedente periodo della sua vita come quella di un pazzo». Insomma, come possiamo vedere, ma soprattutto come dobbiamo vedere, il patologico sottende l’opera kantiana come un basamento invisibile ma profondo.
Sulla unione di virtù e malinconia in Kant abbiamo più di una testimonianza. Su questo punto vi è anche una domanda che ci interessa nella anzidetta introduzione: «è la conoscenza morale della vanità del mondo… che genera in uno spirito nobile, la malinconia, oppure è quest’ultima che, vera condizione privilegiata dell’uomo onesto, ci apre la via alla vera conoscenza e al vero valore delle cose del mondo?

Ragione e ipocondria
Insomma, è la malinconia, o meglio l’avere un carattere melanconico, se non proprio un methodus, comunque un modus – privilegiato – di conoscenza?» (Ragione e ipocondria, pag. 23). Il kantista non può spingersi oltre. Noi, che lo possiamo, riteniamo che di metodo si debba invece parlare e in ciò che Kant dice ne troviamo alcune possibilità di prova. «La debolezza di lasciarsi andare senz’animo ai propri malsani pensieri in generale, senza un oggetto determinato… possiamo anche definirla simulante: colui che ne è affetto crede di osservare in sé tutte le malattie» (Ragione e ipocondria, pag. 141).
Sempre dalla stessa opera – Il conflitto delle facoltà – si desume quanto già abbiamo detto sopra: che Kant ha trattato l’ipocondria, verso cui, egli dice, ha «una disposizione naturale», come se non lo riguardasse ovvero, come abbiamo detto noi, come un metodo. Troviamo proprio qui, dunque, gli elementi di un abbozzo, sia pure un tenue velo che tesse appena – ma tuttavia ne lascia cospicue tracce – un metodo “ipocondriaco”.
Ci si spiega così, e si intende meglio, l’umor nero in cui affonda la Critica della ragione pura. Non dobbiamo dimenticare il ruolo sotterraneo delle “rappresentazioni oscure” nell’Antropologia e nella stessa austera Critica. Il nostro kantista, infatti, non lo dimentica, anzi il suo scavo dell’antropologia kantista è andato parecchio in questa direzione. Verso questo Regnum Tenebrarum.
Questo alcunché di plumbeo che circonda il lavoro kantiano, come la caligine che si eleva da una palude, si incontra con la disperata domanda sulla ragione: cosa significa il male della ragione? Quel male che viene a lungo contemplato da Kant in tutto il suo lavoro critico? Qui si possono intrecciare le fila del cammino percorso e riannodarli al punto da cui partimmo. Il metodo ipocondriaco, che studia tutti i mali come propri, si affida sul male della ragione.

L’uomo che pensa è depravato
Ogni uomo che pensa è un uomo depravato, aveva lasciato detto Rousseau. L’«Io penso», che accompagna secondo Kant tutte le nostre rappresentazioni equivale, per la Nemesi che gli grava addosso, al senso di depravazione che segue come un’ombra l’effettuarsi della ragione.
Nel Saggio sulle malattie della testa Kant scrive: «L’uomo allo stato di natura può andare soggetto solo a un numero limitato di stoltezze… I suoi bisogni lo tengono sempre vicino all’esperienza e procurano al suo sano intelletto un’occupazione così leggera che egli si accorge appena di avere bisogno di esso per le sue azioni». Ma chi vive nello stato di ragione, al contrario di chi è supposto vivere nello stato di natura, vive già nello stato di malattia.
Se si dovesse spremere ben bene il succo di questi testi kantiani e dell’introduzione che ci ha guidato, noi dovremmo stare notte e giorno sul chi vive. Perché il male della ragione non ci darà mai tregua.

Manlio Sgalambro, Dotati di idee, La Sicilia, 30 dicembre 1989

Dotati di idee
Il primo che volle «insegnare» la filosofia fu Socrate.
Quanto a Parmenide, egli aveva detto semplicemente: «Io ti comando». Io ti comando che l’essere è e che il non essere non è.
Qui la filosofia rivelò la sua vera natura e, se il nome di Parmenide è oggi pronunciato invano, almeno qui, si spera di tutto cuore, che sia stato fatto onorandolo.

Insegnare la filosofia
Socrate, dicevo, volle insegnare la filosofia. Prevedo l’obiezione. Socrate, mi si dirà, volle insegnare a filosofare, come poi Kant. E ciò è onesto e decoroso; essi vollero, insomma, che questo immenso potere, come nella sua storia fu talora ritenuta la filosofia, non restasse appannaggio di alcuni ma potesse essere un bene di tutti.
Ma fu proprio così, insegnandola, che essa, ad essere schietti, divenne proprietà di alcuni soltanto. Sì, perché ogni individuo la possiede come dote di natura, e i suoi occhi vedono e le sue orecchie sentono attraverso la sua miracolosa presenza. Ma non appena qualcuno gliela insegna, automaticamente la perde.

L’uomo pratico
Gli si insegnò che la filosofia era in lui ma che ci voleva qualcuno che la traesse fuori: da quel momento l’individuo perse quella facoltà miracolosa, divenne cieco e sordo, divenne insomma quell’essere sordido che è l’uomo senza filosofia, l’uomo pratico.
Mentre, come una serpe, dal seno di Socrate, sfaccendato e perdigiorno, spuntò l’affaccendato erede: il filosofo accademico.
Il primo che volle insegnare la filosofia la strappò dunque dalla mente dell’altro e il suo cuore rimase arido.
L’altro non si preoccupò più di cospargersi il capo di cenere per il suo infausto destino o di danzare di gioia per la sorte del mondo.
No, nulla egli più chiese e dai suoi occhi ciechi non scorse più che ciò che gli bisognava. E la filosofia non era tra di queste. Ecco dunque generato il filosofo di professione: non da una costola ma dal più intimo dell’anima dell’individuo ormai spossessato.

Il vero retaggio
Naturalmente la stessa pericolosità della filosofia, ciò per cui era morto Socrate, non fu più che un vago ricordo. Eppure essa è il suo vero retaggio, ciò che la tradizione ci consegna con mani incerte e tremanti.
Sono relativamente rari i filosofi finiti male, infinitamente meno di quanti dovrebbero essere. Il diritto a loro riconosciuto dagli Stati contiene un limite assai più serio di quello che poi essi scoprono nella conoscenza. Assai più che i limiti della ragione, valgono i limiti che pongono le leggi della città.

Il caso Heidegger
Non si consentono al filosofo in cui è ancora presente il senso della filosofia gli esperimenti che si consentono ai fisici. Il caso Heidegger insegna.
La filosofia accademica funge da polizia filosofica. Ma è giusto che sia così. I veti da essa posti riguardano la stessa verità. Mentre il grande scetticismo ne conservò la passione, il cinismo della cattedra se ne lava semplicemente le mani.
Se la filosofia extraaccademica respinge la filosofia accademica come filosofia amministrativa, non sprofonda nella faccenda come Schopenhauer, ma sa perfettamente che l’esistenza stessa della filosofia è oggi legata a questo nesso.
Semplicemente essa vuole mettere in gioco questa stessa esistenza e sollecita il rischio. La filosofia extraaccademica non reclama supplichevole un cantuccio accanto alla filosofia accademica, ma intende lavorare per la sua soppressione.

Manlio Sgalambro, Idee statali, La Sicilia, 17 dicembre 1989

«È impossibile che la folla sia filosofica»
— Platone

«Sono andato gradualmente convincendomi che l’utilità della filosofia accademica è superata dal danno che reca…»
— Schopenhauer

Idee statali
Elogiamo di tutto cuore lo Stato che crea mille, duemila posti di filosofo. Senza di esso sicuramente non ve ne sarebbe nessuno. Chi glielo farebbe fare? Prendermi addosso queste rogne – egli direbbe – e per giunta sine mercede? Vivi da filosofo e non ti preoccupare d’altro, rispondono i saggi: gli uccelli del cielo e i gigli dei campi non filano e non tessono e tuttavia… si sa però che la filosofia ormai da tempo non riguarda il vivere, ma l’insegnare. E tuttavia dobbiamo, sì lo dobbiamo assolutamente, tenerci stretti a questo punto: la filosofia non si può insegnare. Se ne può solo testimoniare. Ma chi sarà colui che testimonierà della filosofia? In ogni caso, da lui pretenderemo tutto. Pretenderemo che non ci dica quello che pensò Descartes o che ci spieghi mirabilmente questo o quel punto delicato di Kant, no, egli dovrà pagare di persona. Deve dirci anzitutto cosa pensa lui, cosa “vede”, quali Idee hanno lasciato il beato mondo per scendere nel suo tempio. Perché, se è vero che lui è un testimone, allora in lui l’Idea si è fatta carne. Tuttavia la cosa può diventare comica, e volgersi di botto nella più esilarante farsa se si pretende che l’incarnazione sia avvenuta in un Herr Professor. Un’idea può penetrare nel suo cranio, oddio, ma incarnarvisi poi!

Non è più tempo di principi superiori
Un tipo che scrive: «Oggi non è più tempo di principi superiori, di fini ultimi, di verità definitive» e sottintende “ma ieri si”, e che per giunta è un professore, non può testimoniare di nulla. Egli tratta la filosofia come se ieri fosse stata un archibugio e vi contrappone il suo kalashnikov. «Oggi non è più tempo», chi scrive cosi in filosofia dovrebbe essere impiccato. La serietà di un filosofo consiste proprio in questo, per Dio: cosa egli se ne farà dell’oggi. Cosa significa “oggi” in filosofia? Se prima egli non lo ha risolto non può fare neanche un passo. “Oggi” può essere benissimo “duemila anni”. Ma tutto sta a vedere con che “tempo” l’illustrissimo misure il “tempo” della filosofia. Egli è occupatissimo, e un giorno è un giorno: ecco il suo metro.

Equivoci sulla verità e rapporti «erotici»
Le parole “amante della verità” sono divenute, come si sa, un modo di dire, una innocua dichiarazione platonica, mentre in Platone esse sono un vero rapporto erotico. Friedlaender così espone un passo della Repubblica: «Come il generante dev’essere della stessa specie con l’oggetto del suo amore, così l’amante della verità deve avvicinarsi al vero essere e toccarlo con quello nel suo animo (quasi si potrebbe dire, con l’organo) che è omogeneo a questo essere». Quando Goethe dice: «In generale si impara soltanto da chi ama», il rapporto erotico viene solennemente confermato. L’equivoco però aumenta. Le “Geistesgaben”, i doni dello spirito, di un impiegato di filosofia non sono in genere notevoli e le sue doti “amorose” assolutamente scarse. Per quanto riguarda la verità, essa non ha per lui particolari attrattive e gli “odierni” orientamenti al riguardo gli danno piena ragione. La filosofia, nel dominio del sapere, è la cosa più tradizionale che esista, ma il nostro furbo messere si picca di averla “migliorata”. Immaginiamoci, egli “migliorerebbe” persino Schopenhauer e chissà se non lo stia già facendo.

Filosofia privata ma non scientifica
La filosofia statale è una filosofia pubblica. Vi è poi la filosofia privata, ma essa esclude del tutto che una tale filosofia possa essere “scientifica”, questa resta una misera, privata “visione”, mentre quella, in quanto pubblica, è certamente scientifica. Almeno, la filosofia pubblica ne è convinta. Alla filosofia tocca dunque la peggiore delle sorti quando cade in mano agli impiegati, ma solo essi possono avere l’improntitudine di volerla insegnare. Perché bisogna ripeterlo ancora, la filosofia non si può insegnare. Se ne può solo testimoniare.

L’ultimo quesito: passatempo o serietà
Ma eravamo partiti da un’altra domanda o da qualcosa infine che era altro. Questa è difatti la vera domanda che volevamo porre: se la filosofia non si può insegnare (e si può solo testimoniare) come fa ad esserci una filosofia accademica? Cioè, per dirla col nostro Bruto, col nostro Schopenhauer, una filosofia per passatempo? In realtà, del filosofo accademico si può veramente dire: «Lumen per illum transitum fecit», «la luce se ne è andata da lui».
O, se ci è concesso dirlo in altra maniera, poiché coloro che lo Spirito vuole perdere, prima li fa impazzire, ecco che è lo stesso filosofo accademico a sostenere che vale più di gran lunga la filosofia per passatempo piuttosto che la filosofia della serietà. Ora certamente questa è spesso lugubre e non sa vantare i progressi morali, e simili cantafere, che invece vanta la filosofia per scherzo. Ma purché essa ammetta di essere solo una filosofia per passatempo, per fare quattro risate, il filosofo extra accademico manimetterà anche lui che la sua è solo una filosofia della serietà.

Manlio Sgalambro, Senza le idee, La Sicilia, 29 novembre 1989

Un filosofo non è una canna da zucchero, non si può succhiarselo e nello stesso tempo zufolare. In ogni caso, un amabile conversatore può essere scambiato per un filosofo ma mai un filosofo per un amabile conversatore. Egli si guarda attorno e non gli sfugge nulla, ma chi lo guarda non vede niente. Nessuno prenderà un imbroglione per un filosofo, ma ci puoi giurare che spesso un filosofo può passare per un imbroglione. Insomma, questa è la vita. Bisognerebbe che il filosofo indossasse, come dire, una divisa, o una casacca – a me piacerebbe a scacchettoni, ad esempio – ma ovviamente ognuno è libero. Perché, a dire la verità, come fai a riconoscerlo? Lo guardi e non vedi niente. Parla, e non senti niente. Ti aspetti chi sa cosa, ma hai voglia. Insomma uno rischia brutte figure. Se portasse un segno, ad esempio, come ho detto, una bella casacca a scacchettoni, allora tutti saprebbero che è un filosofo e non sorgerebbero problemi.
Se uno legge La società trasparente oppure Le avventure della differenza, come fa a sapere che sono libri di un filosofo? Potrebbero essere le memorie di un invalido di guerra oppure un documento di vita vissuta redatto dal pronipote del cameriere di Francesco Giuseppe… Invece una bella copertina a scacchettoni risolverebbe la cosa. Se un libro non porta una copertina a scacchettoni non è un libro di filosofia. Si andrebbe a colpo sicuro. Mi capitò una volta di avere tra le mani uno di questi libri, con un titolo assolutamente filosofico (come mi accorsi, ahimè troppo tardi). Io, a dire la verità, sono un pochino lento. Mi ci vuole un po’ a capire. Se mi dicono che una cosa si svolse duemila anni fa, non ci metto certo tanto, ma sto lì davanti come un sasso. Ci posso mettere anche un paio d’anni a capire. So però di chi in due minuti ha capito tutto. Dunque sto con questo libro tra le mani a rigirarlo, lo sfoglio, lo leggo qua e là, niente, non avevo capito proprio niente. Poi, il titolo assolutamente filosofico mi illuminò. Si trattava senz’altro di un libro di filosofia. Ma vuoi mettere con una copertina a scacchettoni? L’avrebbe capito subito anche uno come me. Ci sono di quelli che fanno della filosofia senza saperlo e di quelli che la fanno senza che nessuno ne sappia. O meglio lo sanno solo tra loro. Anche se qualcuno, come me, non ne ha il minimo sentore. Insomma prendi Le avventure della differenza, se tu sei del mazzo ti accorgi subito che si tratta di filosofia; se tu per caso non sei il professor x che insegni la disciplina nell’università y, ma un qualsiasi filosofo extraaccademico, lo sfogli mille volte, ti metti di buzzo buono, ti rovini gli occhi per le notti insonni passate a leggerlo, ma niente, dio che ne esca qualcosa che se pur lontanamente somigli a quella faccenda.
Si tratta forse della natura e tu sei un prodotto originario della natura e quello un professor publicus ordinarius? Insomma un furbacchione che s’è messo al coperto da ogni sorpresa? Egli quel giorno ha il mal di testa oppure ha litigato con la moglie, e tutto lo diresti fuorché un filosofo. Ma no, è un professor publicus ordinarius, e allora egli è filosofo in ogni momento anche quando pensa solo ai suoi debiti o alle rogne che gli dà la famiglia. Metti l’altro invece. Egli non ha nessun titolo, nessuna autorità, e ogni volta è come se fosse la prima. Egli è un «pensatore privato» che ha subito qualche offesa dalla vita e da allora è stato buttato in pasto al pensare e non si dà pace. Egli anzi avrebbe voluto essere tutt’altro – un funzionario alle dogane, un dentista, un uomo politico: una testa vuota insomma – ma, maledizione, gli è finita come Giobbe, è stato costretto a pensare e lui voleva solo essere felice; o dio, come tutti voleva essere. Invece o per debolezza di mente o che sia egli è diventato un filosofo extraaccademico. Come tale egli ha timore di pensare. Trova anzi che senza timore non si pensa. Egli fa di tutto affinché quella brutta bestia non lo azzanni, ma ecco, mentre egli trema dal terrore, ecco sopravvenire il pensiero. Ed allora non ha scampo. Metti l’altro, invece. Egli ha tutte le fortune. In generale non pensa, manco ammazzato. Ma se gli avviene, altro che timore. È baldanzoso come un fantaccino alla conquista di una fantesca. È diritto, impettito, si vede che gli è capitata una fortuna che nemmeno se lo sognava. Invece il filosofo extraaccademico è preso dal tremito, il cuore gli balla in petto che è un affare e quando per quel giorno ha finito è mezzo morto. Insomma, quello che professa pubblicamente la filosofia sta seduto sopra una menzogna: che la filosofia si possa insegnare. Mentre invece se ne può solo testimoniare. Il filosofo extraaccademico è un testimone, ecco cos’è. Un testimone della filosofia. Egli è là proprio in quel momento in cui una verità gli capita vicino, a tre passi, e lo testimonia. Per questo egli è, e non sarà mai altro, che un povero filosofo extraaccademico.

Manlio Sgalambro, Segni divini, La Sicilia, 18 novembre 1989

Troveremo nella matematica requie per la nostra quotidiana miseria? Sfogliamo con acuto desiderio Apologia di un matematico di Godfrey H. Hardy (edito da Garzanti, 1989). Seguiamo lo sguardo candido di quest’uomo, l’infantile sicurezza di chi sa trovare l’uscita anche in un fitto bosco. «Le forme create dal matematico… devono essere belle». Che la matematica pura appartenga al dominio controllato dall’estetica – la bellezza – ciò ci conduce fuori dalle estetiche attardate che seguono come mute di cani il poetico, solo il poetico. Ciò che Whitehead chiamò al riguardo «superstizione letteraria» non trova perdono agli occhi di Hardy per cui la rilevanza estetica della matematica si coglie assieme alla sua beata purezza. Ma quel che noi chiediamo anche ad essa è un quietivo per la volontà. Ci purifica dalle passioni che il giorno ci mette in corpo assieme all’inquietudine di vivere a qualsiasi costo? Contempliamo un teorema: chi ci raggiungerà in quel punto? È come se fossimo fatti di matematica anche noi. Per un momento guardiamo le cose del mondo dal punto da cui si suppone le guarderebbe un Dio.
Hardy ritenne sempre che la matematica pura fosse immune da colpe. Ciò che la scienza, aiutata dalla matematica applicata, aveva potuto fare di bieco, non sfiorava la matematica pura. Ciò non è ben chiaro al profano ma anche la sua purezza è piuttosto oscura. «La massa delle verità matematiche si impone in tutta la sua evidenza, e le sue applicazioni pratiche, dai ponti alle macchine a vapore, alle dinamo, colpiscono anche l’immaginazione più ottusa. La gente non ha bisogno di essere convinta della validità della matematica. In un certo senso tutto questo è di grande conforto per i matematici, ma un vero matematico difficilmente ne sarà soddisfatto. Egli infatti sente che la ragione d’essere della matematica non si trova in queste rozze realizzazioni».
Ma possiamo condividere questo passo della lezione inaugurale che Hardy tenne a Oxford nel 1920? «Lo studio della matematica è un’occupazione forse inutile, ma assolutamente innocua e innocente». Già in questa sua funzione di quietivo, a cui l’abbiamo chiamata, essa perde la sua innocenza per strada. A che ci abbracceremmo in questo desiderio di pace se non a ciò che in qualche modo partecipa dei nostri turbamenti? Quale compagnia chiederemmo ad essa se non fossimo dello stesso stampo? Le delicate costruzioni della matematica pura non sono inerti oggetti come i ponti che costruisce la matematica applicata, ma vibrano delle passioni di cui noi ci liberiamo. E se essa mostrasse veramente l’essere delle cose come non ne condividerebbe l’inganno? Ma d’altra parte la vera scienza si è mai mossa per il bene dell’umanità? In ogni caso, come Hardy ci conferma, non è questa l’aspirazione della matematica pura. «Se un matematico, un chimico, o anche un fisiologo, mi dicessero che la forza trainante del loro lavoro è stato il desiderio di contribuire al bene dell’umanità, io non vi crederei».

Ma non dobbiamo indulgere oltre sulla bonomia della matematica che Hardy sembra avallare. La matematica è figlia della disperazione. Il gelo dei numeri mentre svela che il mondo ci è ostinatamente estraneo, mette a nudo le radici della nostra disperazione. Ma nello stesso tempo ci consegna alla contemplazione della loro bellezza. L’ordine maligno si lascia ugualmente ammirare. Hardy invece ne parla con la fiducia di un antico credente e ne conserva l’infantile piacere. In lui la matematica rasenta il giuoco. Ciò fu poi preso delittuosamente sul serio.
Ma infine, chiediamoci, c’è una realtà matematica? Una realtà che sia tale, come il cielo, il giorno e la notte, i terremoti e le eclissi? O essa è solo mentale? Hardy segue il principio dogmatico di una realtà matematica “fuori” di noi: «Credo che la realtà matematica sia fuori di noi, che il nostro compito sia di scoprirla o di osservarla, e che i teoremi che noi dimostriamo, qualificandoli pomposamente come nostre “creazioni” siano semplicemente annotazioni delle nostre osservazioni». Ma il numero è tutto ciò che resta dopo che la realtà è messa tra parentesi. Essa infatti ci è restituita ora solo alla contemplazione. Come purificata. Dopo che la furia della matematica è passata sulle cose, per un istante anche il peso del vivere è scomparso.

Manlio Sgalambro, I fiati eterni, La Sicilia, 12 novembre 1989

Infelice quel filosofo che almeno una volta nella vita non avrà creduto che la sua filosofia sarà eterna! Egli avrà gustato dell’albero della conoscenza, avrà spiccato i frutti più saporiti, ma fin quando non avrà assaporato il frutto dell’eternità, sentito il cuore palpitargli in tumulto, strozzarglisi le parole in gola, e poi una quiete come se non dovesse avere mai fine, ebbene egli non ha ancora saputo nulla della filosofia, non è entrato nei suoi più riposti segreti.
Quando Aristotele dimostrò l’esistenza della sostanza immobile, sentì un tripudio nel suo cuore, batté le mani saltando di gioia o egli credette a ciò solo per i principi? Io non voglio risolvere questo problema, non voglio entrare nel cuore di Aristotele né di nessun altro. La psicologia mi ripugna tanto quanto guardare dal buco di una serratura. Ma almeno voglio essere sicuro che ogni filosofo creda, mille volte al giorno, che la sua filosofia sia eterna.
Mettiamo un giovane innamorato. Nessuno penserà che lo sia per l’eternità. Ma lui sì. Lui non può che pensare una sola cosa, che è innamorato per l’eternità. Si dirà che è un povero illuso, pazienza, ma egli non può sentire che in questo modo e qualsiasi cosa accadrà poi egli sarà sempre colui che è stato innamorato per l’eternità.
Torniamo ora al nostro filosofo. Ci sono più filosofie in terra che stelle in cielo; esse vivono l’epopea di un giorno, questo lo sa anche il mio barbiere. Ma no, lui, il filosofo, lui non lo sa. O per dire le cose come stanno, se egli deve dare retta alla sua coscienza – e se no a che cosa? – egli non può sapere che solo questo: che la sua filosofia è eterna. Essa nacque un giorno, magari in una stalla, ma nacque per essere eterna.
Anch’io posso dire «la mia filosofia» come si dice «la mia ragazza». Come un giovane innamorato grida intorno a sé del suo eterno amore, così anch’io posso gridarlo della mia filosofia. L’eternità è quindi uno stato d’animo? Una scintillante gemma incastonata nella coscienza? No, è l’intenzione che conta. Ciò a cui si dirige volente o nolente la coscienza del filosofo. Così mentre dopo un minuto, a giudicare dall’esterno, la sua filosofia è fatta fuori, e basta anzi che non se ne parli perché essa non esista, secondo l’intenzione è eterna.
C’è bisogno che pure gli altri la ritengano eterna? C’è bisogno che l’innamorato faccia vedere a tutti il suo amore? C’è proprio bisogno, soprattutto, che egli lo faccia vedere a chi ama? Il nostro innamorato no, come pure il nostro filosofo. All’interno del loro animo c’è questa piccola luce – una macchiolina, si direbbe – e tutto intorno non c’è altro che possa indicare in che cosa si distinguano dal loro tabaccaio. Se egli dicesse alla ragazza che l’ama, a quella sembrerebbe sicuramente un pessimo scherzo, difatti non c’è stato mai niente, nemmeno un indizio nel suo comportamento. Così il filosofo. Che in lui possa esserci una filosofia eterna, che ciò che egli dice possa essere eterno, ebbene questo è incredibile e per di più provenendo da lui. (Magari sarà un ometto corto e panciuto, e non suscita, figuriamoci, nessuna aspettativa d’eternità, anzi che scompaia subito dalla vista, per favore).
Il filosofo scribacchia sulla carta eppure quello che dice è destinato all’eternità, questo dobbiamo credere. Con tutte le nostre forze lo seguiremo, secondo la sua intenzione, fin oltre la tomba; cavalcheremo i destrieri alati e lo raggiungeremo tenendoci a debita distanza, con rispetto. Mediante lo stratagemma dell’universale, quello che lui dice diventa valido per tutti e per tutti i tempi. Se noi gli crediamo, crediamo pure, ripeto, che egli ha parlato per l’eternità. Le sue parole non scivoleranno sulla morbida seta del presente – prima di essere dette, non ci sono già più – ma si fermeranno come se il tempo si fosse incantato o se il più bianco marmo le avesse accolte nel suo seno.
Ma che ne è del contenuto, in quello che dice? Cosa, secondo l’intenzione, deve dirsi eterno? Il problema a cui qui ci arrestiamo è né più né meno che quello della verità. Infelice quel filosofo il quale, almeno una volta nella vita, non abbia ritenuto con forza che la sua filosofia è la vera. Spinoza lo credette – per evocare questo santo nome – lo credette fermamente, egli lo credette non perché ne avesse diritto ma perché, lasciatemi dire, perché era un filosofo. Spinoza è ingenuo, fu risposto; solo chi sa che la propria filosofia non è né l’unica né la vera, solo lui è filosofo. L’onta della risposta dovrebbe bruciare ancora la faccia del vile.
Sono tempi infelici, questi, ma il filosofo va per la sua strada. Non appena lui parla, parla per l’eternità; non appena lui dice, dice secondo la verità. Non è lui che deve arrossire di vergogna: egli ha preso il suo fagottino e se ne va per la sua strada.

Manlio Sgalambro, Siamo esuli, La Sicilia, 4 novembre 1989

«A voi parole, orsù, / seguitemi!».
— Ingeborg Bachmann

Eredi
Il giovane non succede al vecchio ma al giovane che questi fu. «Il bambino non continua la vecchiaia o la maturità dei genitori, bensì la loro infanzia» (Durkheim, La divisione sociale del lavoro). Il vecchio dunque non ha eredi. La sua esperienza, non passa a nessuno. Nessuno eredita da lui, fuorché il denaro. E quando si ricorre a lui è perché non lo si considera più tra i vivi. «Se recurre al anciano – scrive Ortega – precisamente porque ya no vive en esta vida: está fuera de hecho, ajeno a sus luchas y pasiones».

Etica dell’abitare
Supposto che si debba parlare di un’etica dell’abitare la domanda iniziale dovrebbe essere questa: si deve ancora “abitare”? O proprio ciò che oggi si chiama casa l’individuo le elegge perché vuole farvi i suoi bisogni e poi errare nel deserto? Abitare significa che egli si unisce al mondo come in un sacro vincolo; che egli e il mondo fanno tutt’uno. Che il mondo si fa culla dell’uomo ed egli il suo custode. A questo non c’è che una risposta: abitare inchioda al mondo, ma la dimora è una sosta troppo lunga per un viandante.

Non più labirinti
Nella città moderna nessuno può smarrirsi. Se il simbolo dell’antica città è il labirinto può vedersi tutta la differenza. Entrambi i simboli però stanno in un opposto rapporto. Se nella città antica ci si smarriva, era per ritrovarsi vicino a un dio. Il fatto che nella città moderna non ci si smarrisca più, sta a compensare ciò che accade all’individuo non appena la città finisce e comincia il cosmo.

L’anonimità originaria
L’anonimità della città mondiale rivela la vera condizione dell’individuo: egli non è nessuno. La folla, la massa amorfa, tante volte deprecata da reazionari e progressisti d’ogni genere che contrappongono alla città mondiale, una città organica, una comunità, è la spia gnoseologica dell’autentica condizione dell’uomo: l’indistinzione animale è il suo destino. Ma la tentazione di perdere ogni individualità e ritrovare l’anonimità originaria, è una tentazione permanente. Senza più nome; essere un muco. A questo livello si avrebbe una sorta di comunità ma non proprio quella desiderata.

Che fare?
La natura delittuosa del fare non sembra più celarsi nemmeno all’anima candida. Sulla punta di essa, come sulla punta aguzza di una spada, balenano infamie. L’ingenuità delle epoche operose non inganna. A stento la buona coscienza trattiene ciò che in essa avvenne restringendone la responsabilità col distinguere colpevoli da innocenti. Ma dalla coscienza disincantata a cui l’ardimento non nasconde l’intima natura di esso, la riflessione sul fare pretende assolutamente altro. Alla rapida intuizione tutto si dà senza incantesimi. Non si sopporta più nemmeno di fare il bene. Vi si vede annidato il disprezzo per l’altro che lo riceve inchinato davanti al re. La tormentata coscienza si chiude sempre più nella sua stessa prigione. All’appello di chi ha bisogno d’amore risponde il possesso. Antica ferocia sublimata ma non redenta. Così la stracca vita si nutre di quell’agire che nello stesso tempo la distrugge. E tuttavia la domanda non cessa e chiede risposta. Qualcosa da fare si implora. Così il vuoto dell’anima si presenta con gli occhi spalancati e le mani giunte. Ma proprio dal già fatto proviene l’appello a non fare.

Inferno
La risposta alla fuga da solo a solo che chiude le Enneadi è la risposta all’altra domanda di Plotino che concerne la «cara patria». Essa, si risponde, è la «mia casa». Ma «il vivere quaggiù e tra le cose della terra non è che “crollo” ed “esilio” e “perdita di ali” (Enneade, VI). Solo quando ci si lasciò alle spalle il de contemptu mundi, l’abitare acquistò tutto il suo significato demoniaco e il mondo divenne, nello stesso tempo, casa e inferno.

Manlio Sgalambro, Pessimismo e socialismo, La Sicilia, 29 ottobre 1989

Quanto poco sia possibile una morale che oltrepassi la sfera privata, lo si constata già ove questa sembra raggiungere la spinta massima e perciò debordare nel sociale. Così parve infatti a rappresentanti, tra i più severi, della tradizione kantiana. «Agisci in modo tale che tu usi della tua persona, come della persona di ogni altro, sempre nello stesso tempo come un fine, e mai semplicemente come un mezzo. Mediante queste parole è formulato il senso più profondo e più pregnante dell’imperativo categorico. Esse contengono il programma morale dei tempi moderni e di tutto l’avvenire della storia del mondo… Tale è il nuovo senso della libertà… L’idea della preminenza dell’Umanità come fine diviene con ciò solamente l’idea del socialismo, in modo che ciascun uomo sia definito come scopo finale, come fine in sé» (Hermann Cohen, Ethik des reinen Willens, Berlino, 1904).
Senonché proprio questo – trattare sé e l’altro come fini – renderebbe una società, quale insieme strutturato di necessità e funzioni, impossibile. Si vede ben presto come tale imperativo debba restare, al più, morale; guai se non fosse così. Si immagini una società in cui il principio di trattare l’altro come fine superi la sfera dell’intenzione e si tramuti in un rapporto sociale. In che modo un padrone di casa può trattare come fine l’inquilino moroso? In che modo il negoziante, il suo cliente? La società conosce un solo modo: mediante la trasmutazione chimica dell’inquilino, del cliente, eccetera, in «uomo». Che poi sarebbe l’idea che ciascuno ha di sé e dell’altro ma giammai la realtà in cui si è inquilini, padroni di casa, ecc. e non «uomini». Ove non fosse così, ove il principio anzidetto si tramutasse, per un improbabile miracolo, in realtà la società perirebbe istantaneamente.
«Lavorare è morire; lavorare per un altro, è morire per un altro», scrive Proudhon. Dove, anche se in maniera enfatica, è reso conto dello “sfruttamento” insito in ogni rapporto di tal genere e in cui già non si tratta se stessi come fini. Ma che durerà finché durerà la società. La società infatti ancora prima di essere giusta deve esistere. Ed è probabile che essa possa solo esistere ma non essere, per giunta, giusta. Forse il deperimento della società verso uno stato per ora inimmaginabile potrà un giorno dirsi tale.
Che la società che sortirà dall’emancipazione degli individui, dalla fine dello sfruttamento, ecc., debba dirsi società «migliore», questa è una concessione che la filosofia dovrebbe fare alla propaganda. Ma essa non può farlo per fondati motivi. Radicalmente sbagliato è pensare che in una siffatta società si vivrà «meglio». Proprio perché sarà totalmente eliminata, ad esempio, la miseria, la miseria della vita non sarà più attutita. Ma nitida, non più ombrata da nulla, ossessionerà i giorni. La grande fiera è finita.
Il focus del pessimismo, il suo luogo decisivo, diventa la società. Non il soggetto isolato, cioè, può dirsene portatore – come da Schopenhauer a Bahnsen – ma la società nel suo insieme. Questo significa che è la società nel suo tutto che deve prima diventare soggetto. Ciò che Schopenhauer, nel terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione, assegna come compito all’individuo: diventare puro soggetto conoscente, può attuarsi solo come «società», società emancipata e libera dalle ossessioni economiche. Il pessimismo diverrà allora condizione generale.
Quando il pessimismo si scontra con l’ottimismo socialista di maniera, il risultato «antiprogressista» è scontato. Ma lo è nei limiti in cui Bahnsen, questo grande esponente del pessimismo ottocentesco, parla di ciò di cui il pensiero socialista tace. Che è impossibile, come Bahnsen si esprime, sia «l’annullamento come la salvezza del mondo» (ci riferiamo all’opera Der Widerspruch im Wissen und Wesen der Welt, II, Leipzig, 1882). Tutto ciò sembra «antiprogressista» ma lo è solo nei confronti della visione volgar-filistea del socialismo, quella dei battaglioni di canaglie che marciano sulla meta al rullo dei tamburi.
Il completo misconoscimento della corrente pessimistica nella filosofia della seconda metà del XIX secolo – mai del resto presa sul serio dalla storiografia – condusse ad opporre socialismo e pessimismo. Basterebbe tuttavia ricordare Mainländer, per smentire questa leggenda «progressista». Mainländer, nel suo capolavoro Die Philosophie der Erlösung, riconosce nei tre ordini – economico, politico, intellettuale – un progresso ordinato. Esso avviene, dice Mainländer, attraverso la sofferenza, ma proprio attraverso questa la società cammina verso un siffatto stadio in cui non vi saranno più diseredati e tutti gli uomini, avendo a portata di mano i beni agognati, ne scopriranno concordemente l’infimo valore e si eleveranno così verso il totale riposo del niente.
«La filosofia pessimista – afferma Mainländer – sarà, per il periodo storico in cui entriamo, ciò che la religione cristiana è stata per il periodo che finisce». Mainländer rappresenta dunque il versante socialista del pessimismo. Il suo socialismo «pessimista » è conseguente. La società giusta e pacifica sarà quella in cui tutti gli uomini avendo soddisfatti i loro desideri e avendo trovati vani e futili i «beni» saranno ormai aperti e disponibili al Nirvana.
In definitiva Mainländer obbietta a Schopenhauer che come la colomba ha bisogno dell’aria per volare, così ne ha bisogno la volontà. L’aria però non è che la società stessa. È qui dunque che la volontà alligna. Si intuiscono le ragioni per cui non c’è, in Schopenhauer, una «volontà nella società», ma non appena si sopperisce alla mancanza, si ha la famosa «aria». Essa spazza via la volontà fuori del mondo e la conficca in esso con solidi colpi di maglio. Ma in tal caso tutta la società ne è investita e il pessimismo trova nel socialismo la sua ragione pratica come questo in quello la sua ragione pura. L’intesa profonda tra i due è che ormai si dovrà parlare di annullamento della volontà se si vorrà il giusto. Laddove si additò in altro il luogo dell’ingiustizia, ora si ritorna alla sua vecchissima sede. E qui stesso vi sono la sua sfrenatezza e il suo quietivo.

Manlio Sgalambro, Il terrore della storia, La Sicilia, 19 ottobre 1989

Le impressioni colgono nuances ma approssimano ad essenze durature. La Toposforschung conosce il terrore della storia come topos. Là dove domina l’elemento insulare non ce la si può cavare con meno. Ogni isola aspetta impaziente di inabissarsi. Una teoria dell’isola è dominata da questa constatazione: un’isola può sempre sparire. Come entità talattica essa si sorregge sui flutti, sull’instabile.
Per ogni isola vale la metafora della nave; incombe perciò il naufragio. Il sentimento insulare è un oscuro, potente, irreversibile impulso verso l’estinzione a cui si consegna. La volontà di sparire è l’essenza della Sicilia. Così essa paga la colpa della sua individuazione: il ricordo della catastrofe minoica che perseguita l’erede del migrato. Poiché ogni isolano non avrebbe voluto nascere, esso vive come chi non vorrebbe vivere. La storia gli passa accanto con ì suoi odiosi rumori. Ma dietro il tumulto dell’apparenza si cela una quiete profonda. Solo nel momento felice dell’arte quest’isola è vera. Solo qui il terrore della storia è vinto e l’apparenza oltrepassata.

Manlio Sgalambro, Dal taccuino, La Sicilia, 14 ottobre 1989

Vergogna
La vergogna è un sentimento futile. Ci si vergogna di mostrare nude certe parti del corpo o di scoprire improvvisamente di essere usciti con le scarpe rotte. Di solito la vergogna accompagna le nostre magagne più inette. Man mano che commettiamo falli più gravi – mostriamo nudo ad esempio l’intimo spinto (cosa più vergognosa che vederci i genitali) – la vergogna si attenua e scompare.

Diventare anziani
Si diventa anziani perché è prefissata nei piani degli Stati moderni una vita lunga e da pecore. Una vita vuota e interminabile sottolinea il progresso degli Stati e ne è un fiore all’occhiello. Si producono anziani per compensare la decisione di quelli per cui vivere non più di trent’anni gli sta bene. Mentre sempre più non si capisce in generale perché vivere, si prolunga la vita proprio per questo. Come se si volesse dimostrare con i fatti che ne vale la pena. Al posto di una solida ragione un gruppo di tremolanti spaventapasseri dovrebbe servire da risposta.

Bisogna sapere aspettare
Un tempo era raccomandato come sinonimo di accorta prudenza nelle cose della vita e di fiducia nell’andamento del mondo. In effetti non si viveva tanto da vedere ciò che si aspettava e ciò faceva morire con i sogni intatti. Oggi in alcuni decenni ci siamo spesi i sogni accumulati in più di un secolo e nessuno di essi valeva una cicca. Saggezza è non sapere aspettare e sognare alla giornata.

Amicizia
L’amicizia riguarda piuttosto l’essenza che l’esistenza. Comprendiamo Schelling quando afferma «Noi diciamo che una cosa dura nel tempo, perché la sua esistenza e inadeguata alla sua essenza».
Può essere ormai sopravvenuta l’indifferenza, l’insidiosa monotonia, l’incertezza che rode le cose che si svolgono, ma da quando avvenne l’incontro, quel qualcosa che stabilì un’amicizia non si interruppe. Avvenne come se si schernisse il tempo e il ricordo vi rimarrà legato per sempre. Lo statuto dell’amicizia è dato dal ricordo. Ciò che si svolge tra due amici ha bisogno di essere trascorso per entrare a fare parte di questo rapporto. Fin dal primo momento in cui un’amicizia inizia, ì due amici vivono di ricordi. Non è nemmeno trascorso un istante che già tra loro si interrompe il ricordo, tenero e soffuso. Un’amicizia riguarda l’essenza, si è detto. Vivono mutuamente, due amici, ognuno dell’idea dell’altro. Chiameremo amicizia questo avere a che fare con l’idea dell’altro anche se è qui, a due passi. Perché allora il tempo trascorrerebbe come un’inezia? Perché esso non corroderebbe il rapporto? Perché il suo veleno sarebbe impotente?

Suicidio come salute
L’incremento costante del tasso dei suicidi dal secolo scorso ad oggi, indicherebbe secondo i sociologi, e già per il padre di essi Durkheim, che la società è malata. Che il suicidio non si leghi a situazioni di difficoltà economiche, ma anzi si incrementa dove tali difficolta sono minori o inesistenti, cosa messa in luce da Durkheim stesso, non significa nemmeno, però, che sia da collegarsi al fatto che non scorgeremmo più il significato dei nostri sforzi. In realtà lo conosciamo in pieno. L’erosione del margine di sicurezza offerto dagli istinti, ossia il progresso della coscienza, ci mette proprio di fronte al fatto che comprendiamo in pieno il perché di tutto. Lo scopo di una società giusta, che potrebbe rappresentare quel fine che secondo Durkheim potrebbe fare cessare lo stato di anomia, ha a sua volta uno scopo, l’allargamento di questa chiarezza, raggiunta privatamente dalla coscienza, fino a una illuminazione collettiva che porti luce su tutto e a tutti e quindi l’aumento per quantità e qualità della comune consapevolezza. Sapere come stanno le cose come stato complessivo e permanente della società. È difficile allora che di fronte a questa coscienza e a questa maggiore luce e consapevolezza, le correnti suicidarie che percorreranno il tessuto delle società anzidette siano malattia. Tutto sommato esse ne rappresenteranno la salute, anche se mortale.

Etica finanziaria
Mentre l’etica sessuale ha talmente allargato le sue maglie che nessun bene e male sessuali, nel senso tradizionale, hanno più giuoco, l’etica finanziaria resta inguaribilmente vittoriana. Pagare i propri debiti, onorare le cambiali come si onora il padre e la madre ne costituiscono la base naturale (come direbbe Pareto). Naturale, appunto, come fu naturale per millenni la castità prima e dopo il matrimonio. Anzi è come se tutto il baccano che ancora proviene dalla «rivoluzione» sessuale servisse a mascherarne l’assenza nei costumi finanziari, rimasti ancora primitivi, e a mostrare una stolida saldezza dei suoi tabù.

Verità oggettiva
Forse le lotte per togliere al mondo ogni parvenza di senso, forse la mortale stanchezza seguita alla scomparsa di ciò che sembrava vitalmente indispensabile, sta di fatto che il concetto di verità con cui tutto ciò fu condotto a buon fine, un concetto di verità indipendente dall’uomo, dalla sua volontà, un concetto di verità «oggettiva» scompariva in uno con tutto quello. Come se si fosse voluto punirlo di avere causato l’immane disastro la scomparsa di un concetto positivo di Dio, di un senso qualunque. Immanente a questo concetto di verità era quello di materialità dell’universo, concetto che non si legava infine né ai risultati delle ricerche scientifiche né a qualche disperata metafisica, ma alla idea eterna di esteriorità, di partes extra partes, come anche all’idea «pessimistica» che questo universo nessuna cura avesse dell’uomo, come di nessuna delle altre specie, che in esso non vi fosse un fondo razionale e morale, nessuna teleologia. Questo contenuto immanente all’idea di verità oggettiva fu pure esso messo da parte. L’idea di verità oggettiva crollò totalmente o come se essa avesse adempiuto al compito suo e ormai non occorresse. O come se l’orrore che si lasciava dietro di se avesse indotto gli uomini a proteggersene eliminandola.

Manlio Sgalambro, Chi pensa astrattamente?, La Sicilia, 30 settembre 1989

Un conoscitore d’uomini si trova in società. (Egli apprezza l’antica espressione “bel mondo” e volentieri la userebbe e merita un rimprovero per la sua prudenza). Una bella dama – il conoscitore d’uomini non può resistere a quest’altra espressione – interviene in un discorso assolutamente concreto che stava facendo un filosofo e l’accusa di pensare astrattamente. Il conoscitore d’uomini è veramente deliziato. Chi non ha presente lo scrittarello di Hegel, Wer denkt Abstract? (Chi pensa astrattamente?). In un lampo gli passa per la mente e dentro di sé ancora ride. Il conoscitore d’uomini vorrebbe almeno raccontare come si svolsero le cose ma prima si permette, con l’aiuto di Dio, di trascrivere un po’ dello scritto anzidetto.
Dunque: una signora entra in un negozio dove ha comprato giorni prima delle uova e rimprovera la venditrice che le sue uova sono guaste. «Le mie uova guaste? È lei per me guasta! Lei si permette di dire questo delle mie uova? Non l’hanno ancora divorata i pidocchi? Suo padre non è finito sulla strada maestra? Sua madre non è scappata coi francesi? Sua nonna non è morta all’ospedale? Si sa bene da dove le provengono queste sciarpe e i suoi cappelli; se non ci fossero gli ufficiali più di una non sarebbe così agghindata, più di una siederebbe in prigione – ma si rammendi i buchi delle calze, si rammendi!».
Alle corte, la bella dama non disse questo al povero filosofo, non proprio così comunque – non per nulla ella era una dama -, non lo rimandò a rammendare calze ma lo accusò di pensare astrattamente. Non era certo la prima volta che il nostro filosofo si sentiva addossare questa colpa. Tu ricordi agli uomini il loro destino – per parlare alla buona – e ti dicono che pensi astrattamente. Ma se, ad esempio, avviene, sempre in una cerchia di begli spiriti, che in mezzo alla costernazione generale il filosofo lasci cadere la parola “morte”, come correttivo all’allegria generale e per dir così in testa a quella brava gente, chi parla astrattamente?
Supponiamo che si discorra di “problemi sociali”, di abitazioni da costruire, ad esempio, e il nostro filosofo domandi “perché abitare”, chi parla astrattamente? Certo dalla bocca di quei signori escono palazzi, quartieri interi, cose ben visibili e corpose, eppure sono vani fantasmi se per caso scompaiono, come inghiottiti da un fiume in piena, i motivi per abitare. Chi parla allora astrattamente?
Seguiamo un uomo, “concreto”, un caro ometto d’altronde, lungo la sua journée. Egli lavora tutto il giorno con la concretezza dovuta. Ritorna a casa e, sempre concretamente, è padre (o madre), moglie (o marito). Tratta affari, sempre da uomo concreto; al suo tocco sorgono palazzi, si abbassano e si alzano i titoli in Borsa, ecc. Eppure egli non fa che fa scappare da un ruolo all’altro come un attore consumato. Lui, che non saprebbe recitare una particina di due minuti, le rappresenta tutte. Sino a che, arrivato a sera, non smette tutte le parti per quella di uomo di spirito che intrattiene altri uomini di spirito in eccellenti discorsi che riguardano palazzi che sorgono, titoli in Borsa che salgono, ecc. Chi vive e pensa astrattamente? Chi gli schiaffa in faccia l’altra metà delle cose, le Idee, il mondo intellegibile, non è costui per caso che pensa concretamente? Egli non s’è allontanato un passo dalla vita (anche se sembra il contrario), neanche un soffio, anche se per il suo mestiere siamo quanto da qui alla luna, ma egli vive concretamente. Perché, per dir tutto in una parola, egli ha unito i due lembi delle cose, il di qua e il di là, il cielo e la terra.
Sappiamo che dove il filosofo compare dovrà succedere qualcosa. Egli rappresenta una sospensione della vita ma una sospensione teleologica. Può ridere, scherzare, giuocare al golf, portare i pacchi alla gentile consorte, ma egli è filosofo in eterno. Ad un tratto, come se fosse un gran cerimoniere, risuonano i rituali colpi di mazza ed entra qualcosa, magari di invisibile, di soppiatto. In ogni caso è come se le cose non fossero più le stesse. Per un momento la vita è sospesa, sì. Ma teleologicamente. Essa è sospesa, cioè, ma per continuare, non però come prima. Tutto è apparentemente lo stesso, ma l’altro lato delle cose, invisibile a molti, si è insinuato e non se ne andrà mai più.
Chi vive dunque astrattamente? Il filosofo non fa che tentare di mostrare l’altra metà delle cose, da cui in generale si astrae. In maniera inopportuna e non certo da buon ospite, egli porta con sé cose malfamate, si trascina domande indecenti, risposte non meno rivoltanti. Ma già l’abbiamo detto: si tratta dell’altra metà delle cose e non si può stare a sottilizzare. Chi tollera accanto a sé un filosofo tollera la morte e il diavolo. Sempre perché egli ha a che fare con l’altra metà delle cose, egli può benissimo schernire chi soffre, e a chi sta danzando di gioia mettergli sotto i piedi una buccia per farlo scivolare. Egli è colui che invita alla morte, come Egesia; colui che discetta del piacere che si prova a grattarsi una gamba incatenata fino a un momento prima, come Socrate; che suona con diletto il flauto, traendone ottimi spunti, mentre il dolore del mondo impazza, come Schopenhauer. Maleditelo, se volete, ma non ditegli che pensa astrattamente.

Manlio Sgalambro, Guarire dal mondo, La Sicilia, 23 settembre 1989

L’infermità nervosa è legata all’esistenza opaca e massiccia del mondo. Mentre per lo più oggi la malattia viene desostanzializzata e vi si constata solo un ruolo all’interno di un sistema di ruoli – essere ammalati è un ruolo come un altro dice ad esempio Parsons – sappiamo dopo Freud che la malattia è il trauma stesso dell’esistenza del mondo. La scena traumatica, infatti, è l’accorgersi violento di essere nati, di essere in un mondo. «Nevrosi e psicosi – secondo l’insegnamento di Freud – sono tutte e due l’espressione della ribellione dell’Es contro il mondo esterno, della sua sofferenza, della sua poca disponibilità ad adattarsi alla necessità, all’Ananke». L’infermità nervosa è dunque un modo di negare il mondo. Nevrosi e psicosi sono una modalità del nulla desiderato.
Questa è la grandiosa eredità teorica di Freud. La terapia è invece la sua pia fraus. La malattia che Freud si propone di guarire è, nientemeno, la stessa esistenza dell’universo. La terapia in effetti si autodenuncia come aggiunta pretestuosa, come l’insanità stessa della «pratica».
L’appello terapeutico non può salvare dalla malattia dell’universo. La psicoterapia fallisce perché essa non può guarire dall’esistenza del mondo. L’adattamento alla società è il misero resto di una impresa disperata che mantiene intatto il sostanziale inadattamento. Si tratterebbe invece di lasciare che nel malato esplodano tutte le potenzialità ed egli raggiunga pienamente quella negazione del mondo che infine lo appaga.
Ma nella terapia v’è insito il principio del valore affermativo del vivere in fede di cui il terapeuta contemporaneo ha mano libera. Egli non ha sentito parlare di una salvezza attraverso la negazione. Forse una terapia quietistica potrebbe ancora legittimarsi ma non ce n’è altro che un presentimento. Riconsegnare al mondo la sua vittima è il fine occulto della psicoterapia che sta dalla parte del carnefice. Non c’è “io” che narcisistico ma Narciso non può vivere che di se stesso. Dal suo punto di vista la guarigione è il malanno. L’ethos che sta sulla soglia gli indica l’altra strada. Naufragare nella propria malattia.

Manlio Sgalambro, Appunti di un tale, La Sicilia, 17 settembre 1989

Successo
Il successo fa trapelare il profondo accordo col modo come vanno le cose, anche del forsennato. Che esso sia una conferma e una elezione – come per l’etica calvinista secondo i noti studi – ci rafforza in questa convinzione. Chi esaspera il proprio disaccordo col mondo, la rabbia di essere in esso, se li modula troppo bene entra nelle grazie di ciò che egli vorrebbe sbranare. Contro la sua pervicace intenzione si mostra allora la sua vera intenzione. Egli maledice per essere accarezzato. Si arrabbia per essere calmato. Ma se egli ha successo con le sue urla non è però smentito, piuttosto rivela ai suoi stessi occhi, e a quelli degli altri, la propria frode e in uno la fraudolenza del mondo che lo inganna fino all’ultimo.

Com’è possibile la società?
La domanda che fu di Simmel, ed è anche nostra, eleva la sociologia ad una temperatura incandescente. Qui essa si inerpica alle Madri. Nella domanda, la risposta di tipo kantiano data da Simmel, che la società sia rappresentazione, viene lasciata a metà. Si fanno vedere gli individui, con dovizia di particolari, coincidere con la loro rappresentazione ma al modo dell’individuale col tipico, mentre al di là starebbe, fermo come una roccia, l’uomo in sé. La cosa in sé sociale è, anche per Simmel, “l’uomo” la cui conoscenza, sempre nel rispetto di Kant, è preclusa, ma resta intesa toujours come quel quid: “l’uomo” oltre il funzionario, sempre lui oltre il politico o la prostituta.
Ciò che ci insegnò Schopenhauer, essere il mondo rappresentazione è ormai inaccettabile (oppure accettabile a certe condizioni). Mentre che noi siamo rappresentazione è pacifico. Rappresentazione è la società, e gli individui sono il pensiero l’uno dell’altro. Pensandoci a vicenda esistiamo, ma come fantasmi. Un capo di Stato, un generale o un ruffiano sono ciò che si pensa di essi e, au fond, nient’altro.

Litigio
Due si azzuffano. I corpi si mescolano come se ognuno tentasse di penetrare con tutto se stesso nell’altro. Si osservi attentamente: i volti sono intenti, come di chi stia eseguendo una delicata missione. Ogni mossa è un atto geometrico. Non si scorge istinto. Che sia dunque la famigerata ferocia animale che risorge in quel momento, è una fola. La passione che travolge, eccetera: una fanciullaggine. E la ragione invece che si mostra così com’è. Ogni litigio è un sillogismo. Hegel, credo, annuirebbe.

Nolontà
Vivere in un cantuccio, appoggiati a un muro o seduti su uno scalino, è la grande tentazione contemporanea. Anacoretismo e cenobitismo si fanno avanti, oggi, così come possono. In un’epoca che tramuta il cibo in spazzatura, la spazzatura offre tante risorse a chi si contenta. Pezzi di pane e cosce di pollo appena morsicate, tutto ciò si trova facilmente. E per il sesso, ci si arrangia. In Essenza e significato dell’ambizione economica, saggio memorabile, l’insigne Mannheim dedica una riflessione al «vivere alla giornata» del vagabondo e del bohémien. Contrapposta a quella dell’individuo ambizioso, questa esistenza, egli dice, «vive un giorno di luce chiara e serena solo in qualche punto, ma altrimenti tende a circondare la vita di una oscurità impenetrabile». Ma per questi attimi di luce si può pur dare un regno. Comunque i benpensanti stiano attenti. La nolontà incalza.

Ambizione e divenire
«Soltanto la persona ambiziosa – dice Mannheim di cui vogliamo ascoltare ancora le sagge idee – solo la tensione al successo scopre la realtà sotto forma di processo». Osservazione sintomatica come l’altra, scontata, che la vita contemplativa deriva dall’estasi apatica di strati elitari esonerati dal lavoro. In ogni caso l’incidenza dell’ambizione sulle svariate concezioni del divenire può essere confermata. Il divenire c’è per chi mira al successo. Tutto si muove davanti ai suoi occhi bene aperti e gli eoni sono le tappe della sua folgorante carriera.

Etica cosmica
L’esperienza di guardare il cielo anche da un modesto telescopio avvicina di colpo quello che Comte chiamò l’universo siderale e lo distinse dal sistema solare dicendo che non ci interessava. L’esperienza è allucinante. L’esperto ha già lo sguardo predisposto a un ordine che ha trovato nei suoi calcoli. L’altro invece è come un selvaggio. È l’esperienza di quest’ultimo che ci preme. Solo costui, infatti, vede in qualche modo ciò che gli occhi acuti del competente forse non percepiscono più: il cosmico. Ragioniamo su alcune conseguenze per l’etica. Se si considera ogni azione al di fuori di qualsiasi riferimento a chi la compie, come un tuono o il rotolare di un ciottolo, allora essa mostra il suo significato cosmico e accudire a un cane ha lo stesso significato che vincere ad Austerlitz. Quell’azione non è più umana; non più comunque del fruscio dei rami di un albero o del sollevarsi del vento o del luccichio di una stella. Si dissolve ogni problema di libertà, di autonomia, ogni coscienza morale in puri moti del cosmo. Mentre si tenta di impedire che l’azione oltrepassi i limiti dell’umano e la si riporta ostinatamente a qualcuno, come se solo ad esso toccasse – le morali servono a questo – subentra la causalità cosmica e gliela invola.

Non si deve tacere
Come deve fare umilmente chi segue il teoretikòs bios, il contemplante si mette sotto il silenzio protettore delle beatissime Enneadi. Ma è tutto vano. La derisorietà odierna della contemplazione, consegue alla perdita di rango della vita mentale. Ciò che fu il punto più alto della vita, coglie oggi il contemplante come uno strano incidente, come una paralisi. Chi contempla è come un malato che si rigira nel suo letto e a cui anche questo spazio si assottiglia man mano. Lo sguardo del contemplante non dà a vedere amore per le Idee. Oggi, mentre contempla la sciagura finale del cosmo che vede scorrere sotto i suoi occhi febbricitanti, egli ricorda, che creperà tra qualche giorno e si mette a vuotare il sacco.

Manlio Sgalambro, Del fuoco, La Sicilia, 19 agosto 1989

«Un feu distinct m’habite…».
— Vakry, Album de vers anciens

Sfoglio, caro amico, il libro da lei donatomi, Bachelard, La fiamma di una candela. Lei esige che gliene parli. La capisco. Pensiamo tutti che se non diamo la parola almeno ai libri che amiamo, attraverso i nostri complici atti, essi restano silenti. Non so se è proprio così. Ma ci sono libri che amo di cui non vorrei mai parlare. Forse c’è una lettura negativa – come c’è una teologia negativa – in cui ciò che leggiamo si esprime attraverso una serie di negazioni che lo sublimino e in ultimo attraverso un silenzio che lo accolga riverente. Ma in ogni caso così non è di questo libro di Bachelard. Mi dà ai nervi, questo autore. Trovo che in lui c’è ancora il postino – lei rammenta che si occupò di poste, il nostro, nella sua gioventù – ecco, mi pare che recapiti le idee, le porti a domicilio e le lasci come un plico. Sì, ci fa capire tutto ciò che dice. Ma, cosa dice? Tutto ciò che «il nuovo spirito scientifico» ha compiuto finisce in gloria. Il nostro mago è un entusiasta. Ci promette emozioni e mantiene. Il duro e losco cammino della scienza diventa un trionfo per costui. Ma seguiamolo. La materia composta traballa attraverso i suoi tocchi; diventa aerea e leggera. Cosa gli preme della fiamma se non la materia che perde il suo peso e risale la china all’in su? Insomma, lo slancio? Anche le fiamme più fredde diventano immagini care all’anima, asserisce il nostro.
Mi lasci dire, caro amico. Io credo che egli si trattenga a stento, si morda la lingua. Percepisco lo stesso, però, quello che egli sussurra: anche le fiamme più fredde diventano calde. Indubbiamente. Egli conosce solo il fuoco che infiamma e riscalda. «Le immagini della fiamma portano in un regno di poesia», egli dice. Egli tratta indiscutibilmente dei simboli che legano la fiamma al progresso: la torcia, il faro. Senta ciò che dice: «la fiamma e le immagini della fiamma designano al contempo i valori dell’uomo e i valori del mondo. Esse uniscono la moralità del “piccolo mondo” ad una maestosa moralità dell’universo». L’elemento losco del fuoco, ciò per cui l’immaginazione lo legò all’inferno, sfugge, a quel che pare, al nostro autore. Egli adora la fiamma che purifica: cedro del Libano ed essenze, i buoni odori che vengono dalle pire degli eroi. Ma c’è una fiamma che non pulisce ma insozza; che non odora ma puzza. E il suo stesso colore è verdastro come il livore inconfondibile di chi è perduto per sempre.
Ma il nostro discetta della fiamma bianca e pura, fiera come un’amazzone al galoppo. Attraverso la quale, egli dice, un ordine morale trionfa. Si dedica alla fiamma verticale, la fiamma che addita una trascendenza. Dalla mite fiamma di una candela trae arpeggi e armonie cosmiche. E altri orgoli. O se vogliamo, egli corteggia il mondo e gli rende onori divini. Ma, a che scopo?
Ricordo un luogo di Nietzsche: «insaziato come la fiamma ardo e mi consumo». Ecco una immagine che vale l’inferno che evoca. Quella sulla quale mi intrattiene Bachelard invece è dipinta.
Cos’è dunque la fiamma, fuoco o luce? Perché non rassicurarsi con questo passo dei Topici dove Aristotele dice «il carbone, la fiamma e la luce costituiscono specie differenti, benché ciascuna di esse sia fuoco»?
Rozza è in effetti la luce che sprigiona la fiamma di candela. La diremmo impura se non fosse così dolce la sua immagine. Il suo tremare al minimo vento la rende ancora più cara, come se fosse un’anima smarrita che vi si celasse. Tuttavia, mentre guizza, lascia intravedere un buio impenetrabile e pauroso. Escluderei che essa abbia luce in sé. Essa permette di vedere. Ma se guardiamo la sua essenza, è buia. Se vogliamo una luce pura, snidiamo la luminosità del porfido di una scultura greca, o quella delle pietre preziose montate a giorno. La seta, aggiunge Sedlmayr, la lucentezza bianco-latte della porcellana, la madreperla, la lacca. Queste fonti di luminosità riservano all’immaginazione splendide sorprese. Qui la luce non è asservita alla funzione. Essa non è lì per farci vedere. Come se la meraviglia della luce non fosse che questa. Essa è lì e basta. Per il resto, è cieca.
Ma torniamo alla fiamma e al nostro autore. In un’altra sequenza essa è lampada, il centro della dimora. Qui Bachelard tesse le fila di una ragnatela in cui si impigliano i sentimenti. Cosa non fa egli per commuoverci. Egli lavora di metafore, esseri immaginali. Pungola le rêveries ma le adopera come un maniscalco. Si senta: «Quando il sole di agosto ha lavorato le prime linfe, lentamente il fuoco arriva al grappolo. L’uva si schiarisce. Il grappolo diventa un lampadario che brilla sono l’abat-jour delle sue larghe foglie. Era proprio a nascondere il grappolo che doveva servire in origine la pudica foglia della vite». Ma risolviamoci ad ascoltare il nostro autore quando si confessa. Di che vuole trattare egli? Della fiamma umanizzata. Ora si può capire l’insidia. Egli vede la luce non il rogo. Vede solo la fiamma diritta. Non quella che si attorciglia attorno a un corpo, che lambisce e incendia e che in ultimo, forse, consumerà l’orbe.
La fiamma purificatrice è una metafora di dignità umana, dice a un tratto Bachelard. E l’inferno? Qui l’immaginario occidentale ha compiuto il massimo sforzo di dare al fuoco un ruolo primario e immutabile. Noi che pensiamo di bruciare per l’eternità comprendiamo il fuoco eterno. Lasciamo alle intelligenze illuminate la loro saviezza. Ciò che è contro la ragione non può essere. Oppure ciò che è contro la ragione, solo questo può essere. Chi sa? Il grande Gregorio ha fermato il sole: «L’anima sente il fuoco per il fatto stesso che lo vede; ed è bruciata perché essa si guarda bruciare». A partire da questa definizione chi può negare l’inferno?
Caro amico, queste poche idee, e di poco conto, attorno al tema del fuoco, gliele consegno con ritrosia. Non credo ai temi inesauribili, ma questo forse lo è.

Manlio Sgalambro, Le visioni teologiche, La Sicilia, 9 agosto 1989

Di Kafka non si dovrebbe parlare. La sua opera attende ancora che sia rispettato il divieto che ne emana ma che non venne eseguito. Essa invece è preda degli interpreti, in proporzione al suo presunto enigma. Là dove richiederebbe una critica che dicesse solo ciò che non è. Leggere fissando con gli occhi sbarrati le righe e ammutolire: così si dovrebbe accostare. «Io non lo leggo per leggere, bensì per riposare al suo petto», dice Kafka a proposito di Strindberg. Ma questa intimità qui non è permessa. Qualcosa ammonisce a non tentarlo e punisce il temerario. Distillarne pensieri, strappargli filosofemi, cozza contro la stessa morbidezza del testo che non lo concede perché lo concede troppo. In Kafka non si trovano «pensieri» e la stessa realtà è scomparsa da tempo – si legge in Descrizione di una lotta – da credere che esse siano un tempo esistite e che ora precipitino». Ma lo stadio di disfacimento da come un impulso ulteriore alla conoscenza. Lo stato di sfascio delle cose lascia intravedere l’in sé che la loro buona salute occultava.
Per i cercatori di pensieri, la scialba raccolta di aforismi nei Quaderni in ottavo ne dice la misura. Qui stesso si parla del male in contrasto col grandioso concetto che invece v’è nella sua opera vera e propria. «Il male – vi si dice – è una emanazione della conoscenza umana… Non tanto il mondo sensibile è parvenza, bensì, ciò che vi è in esso di male». Il male sarebbe dunque la causa, soltanto umana, della parvenza del mondo. Ciò urta contro il senso della sua opera secondo cui il male e piuttosto al di là bell’umano. Tenersi stretti alla sua lettera protegge dallo stesso Kafka.
Se l’opera di Kafka accenna a un ordine teologico, questo e però privo del requisito essenziale che lo vuole legato al bene. Solo per un soffio esso non è la forza malvagia stessa.
E tuttavia l’interpretazione teologica sembra la più fedele. O meglio, la sua arbitrarietà rimanda a quello scherzo ontologico per cui non possiamo conoscere le cose come sono ma come non sono ma proprio così le conosciamo come sono.
Lo sguardo stupefatto di chi se l’era bevuta scopre un ordine superiore che sputtana i gemiti delle creature. Il sentimento di dipendenza, gloria della dommatica ottocentesca, è il sentimento di essere maciullati. Dall’alto tuona la morte, dal basso i versi di Karl Kraus come se rispondessero: «Arresta il tempo! sole, termina tu! Fai grande la fine! Annuncia l’eternità! Levati minaccioso, tonante rimbombi la tua luce, che la nostra sonante morte ammutolisce. Aurea campana, fonditi nella tua vampa, divenuta cannone contro il nemico cosmico! Sparagli in faccia il fuoco!». Kraus adopera immagini misticamente giuste. Il divieto di nominare il Noumeno – né divino, né umano – si pone alla soglia della differenza e usa l’immagine, l’unica che dev’essere: kosmische Feind, nemico cosmico.
Un ordine superiore trapela dunque attraverso i teologemi di Kafka. I caratteri repellenti e orribili che, secondo Benjamin, segnano il mondo superiore nel Castello possono tanto rimandare a Jahveh, come Benjamin è convinto, quanto al Dio dei fenici. «Morire come un cane», che viene di frequente citato con lo spasso di chi tutto ha visto e tutto capito può rinviare altrettanto bene a Baal. In ogni caso le grandi correnti religiose che vinsero in Occidente non possono mai essere sicure, proprio per ragioni religiose.
Questi grandi testi trastullano i lettori come volgari romanzi. Ma è altrettanto evidente il motivo della metamorfosi: non si sa, alla fine, se è Dio stesso che si tramuta in uno scarafaggio. Gregor Samsa è un nomen theologicum come Jahveh? Tutto può essere.
L’errore dell’ordine teologico in nessuno si percepisce con la stessa franchezza come in Kafka. Le aporie teologiche aprono veri varchi. La razionalizzazione occidentale si frantuma; attraverso le crepe si precipitano testimonianze inoppugnabili: tutto è possibile a un Dio che si vendica, dice un quaresimalista settecentesco. Ciò è pacifico. Solo la razionalizzazione del teologo lo ha reso incredibile. Non c’è infatti una incredulità del credente? Non è oggi questa l’incredulità maggiore?
I Signori del Castello sono una caricatura del mondo superiore. Ma tutta la teologia di Kafka è una teologia grottesca. In ciò si cela, però, il destino della teologia in una età non teologica. Così può avvenire che essa si trasformi in un romanzo. Così può accadere che solo una caricatura ci restituisca l’originale. Nel Castello le varie figure che si incontrano: Klamm, Sortirli, Sordini, ecc. rappresentano una gerarchia imperfetta percorsa la quale non si arriva lo stesso a Dio. Ma ciò non significa che anche per Kafka «Dio è morto». Per Kafka questa impossibilità di arrivarvi è Dio stesso. C’è una barriera che impedisce all’uomo di essere felice per sempre: questa è Dio.
Leggiamo nella Institutio Christianæ Religionis: «Affinché non mirino con eccessiva cupidigia alle ricchezze caduche o se ne stiano sazi per quelle che già possiedono, Dio li riduce all’indigenza sia con l’infecondità del suolo, sia con gli incendi, sia con gli altri mezzi… E affinché non prendano gusto al matrimonio o da loro mogli bisbetiche o di indole cattiva che li tormentano oppure da loro figli cattivi per umiliarli… Oppure li tratta con dolcezza in tutte queste cose, ma poi li ammonisce con le malattie e i pericoli e, per così dire, fa loro constatare sensibilmente quanto siano fragili e di nessuna durata quei beni soggetti a perire». Che si dice qui di diverso da ciò che ha detto Kafka nelle sue grandi opere? Due milioni di angeli coperti di corazze impenetrabili e montanti su mostruosi cavalli ammazzeranno gran parte delle creature umane: così si descrive il dies iræ in un altro quaresimale settecentesco. Non si vede soluzione di continuità con la visione di Kafka. Due milioni di angeli o due soltanto si passano il coltello l’un l’altro sopra il capo del condannato. Ma è lo stesso.

Manlio Sgalambro, Il filosofo e gli altri, La Sicilia, 30 luglio 1989

Sono costretto a cantare, dice il filosofo. Io penso, e gli altri sentono musica e sottofondi. Accendo lampi, e vedono tenui luci. Concetti, profumi e sensualità! Devo inebriarmi ovvero occorre tis allos tropos tes deloseos, qualche altro tipo di chiarificazione?
Il filosofo pensa al nichilismo straccione dei suoi pii commilitoni, al nulla per tutti (che odore di cavoli!). Portare invece il terrore ovunque, egli dice, la minaccia del vero. Fare saltare i capisaldi del «pregiudizio» della civiltà: che si debba abitare, che ci si debba istruire, che si debba «rendere»… Gli sembrava che la sua filosofia possedesse un tale potere di crimine. Spargere il terrore: ma ciò non era altro, egli si diceva, che lo stesso terrorismo della verità. (Gli sembra chiaro, insomma, che il nichilismo è solo una «filosofia» edificante).
Chi avvicina il filosofo? Egli ricorda Platone: gli uomini sono reali solo per una piccola parte. Il filosofo pensa a una Teoria dei fantasmi. In breve, l’umanità è ormai scomparsa da tempo, la sopravvivenza prende il posto di ciò che fu la vita e una teoria dei fantasmi sostituisce l’orgogliosa e vana antropologia.
Quando sentiva dire «creazione» – bisogna invece parlare di «distruzione», rispondeva. Tutti siamo frutto di una immane distruzione: gli astri, gli alberi, gli animali e noi: tutti corpi cosmici che turbiniamo nello spazio secondo leggi del momento. (La nostra origine sociale, o la società come il nostro luogo, – te la lascio considerare attentamente, se può essere e che serietà abbia). Questa distruzione originaria la confermano un neoplatonismo che ho nel cuore e la teoria di un giovane (esposta nella Philosophie der Erlösung) che io voglio così riassumere: l’idea di totalità ridiventa legittima se essa viene pensata come il distruggersi di un certo ideale, di una X, ed è colta perciò nell’atto di disgregarsi come un tutto che si disfa. Siamo stati distrutti da un Dio assieme a lui stesso? (Il giovane di cui parlammo lo pensa). Non oso spingermi più in là, dice il filosofo. (La sua educazione ai limiti, nonostante tutto, si faceva sentire).
Forse che Madame Bovary non e una «dialettica trascendentale» se essa svela le illusioni di Emma? Per lo stesso motivo allora non e la Critica della ragione pura l’autentica Madame Bovary? Gli sembra di trovarsi in una riflessione senza fine (le odiava). Ma talvolta i generi, riteneva, devono essere mescolati. Così i confini tra le due opere cadevano infranti ed esse trasmigravano l’una nell’altra formandone solo una ma immaginaria.
Si figurava talora un nomadismo in cui sterminate orde attraversassero le città senza fermarsi se non per fare i loro bisogni. E che cercassero la felicità nello spazio. Gli piaceva pensare che le città scomparissero ridotte in polvere da una energia scatenata, da armenti di individui che vi passavano sopra ininterrottamente. Case e città erano state infine una cattiva soluzione per l’individuo. Collocarsi semplicemente in un punto del cosmo, occorreva, e poi basta.
Che la filosofia soggiorni nelle bassure della ricerca, ciò, dice Schelling nei Weltalter, è il suo infelice compito fin quando il frutto non sarà maturo. Quando invece ciò avverrà la filosofia diverrà narrazione. Lo spirito della narrazione si rivelerà allora solo in essa. (Ricordava, il nostro filosofo, l’agitazione che gli avevano dato le parole che aveva trovato in una illustre opera – L’Odyssée de la conscience dans la dernière philosophie de Schelling: ora, delle cose irrazionali vi è narrazione e non sistema). Come narrazione la filosofia si riferirà al già avvenuto di cui racconterà le peripezie che, nella Scienza della logica, si diedero già come concetti. Ma l’accaduto è nello stesso tempo il non accaduto senza la parola giusta che lo rammenti e lo tragga dal futuro.
Rifletteva sul problema della freddezza. La freddezza lascia che si mostri il male che il cuore compassionevole vela soltanto. Al limite essa è la vera compassione, quando il gelo dello sguardo che si dirige al sofferente gli dice che morrà tra cinque minuti. La freddezza anticipa il gelo cosmico. Essa porge la mano senza aiutare. (Essa non da nessun sostegno, come il cosmo). Il suo problema nasce quando della compassione resta solo il calore umano di cui si blatera nei circoli progressisti. L’età del freddo impone una morale della freddezza. Solo gesti, il cuore è altrove. Così la cortesia supplisce quel bastardo calore, la foia che pompa l’anima dell’altro come se volesse succhiarsela. Nell’età del gelo si possono ancora dare rapporti. Mentre la vie intérieure si esaurisce, resta l’Oraculo Marmai che amministra i gesti con prudenza. La «crassissima philosophia pars», la parte più grossolana della filosofia, come fu appellata nel De civilitate morum puerilium, ci accudisce «teneramente».
L’interpretazione dei sogni si può collocare nella grande tradizione idealistica. L’affermazione che il mondo è sogno, fatta ingenuamente da Novalis e con cinismo da Schopenhauer, è la nervatura dell’idealismo, anche di quello desto. L’annessione della vita desta al sogno è perseguita dalla Traumdeutung col rigore sistematico della Wissenschaftslehre fichtiana. Se il sogno è il tema dominante – anche se occulto – dell’idealismo, quest’opera si colloca nell’ambito sacro dell’idealismo tedesco. Una storia dell’idealismo non può avere che in essa l’ultima parola. Tenuto conto però che ciò che si presentò lì come tragedia, come si usa dire, si presenta qui come farsa. Se il sogno svela il segreto della vita desta, sempre più la proporzione tra il sogno e la vita tende a diminuire. È come se si vivesse solo per farsi spiegare i sogni. L’interprete ha sempre più bisogno di sogni e sempre meno bisogno di vita desta. In ogni caso al paziente potrebbe non restargliene più a sufficienza.
L’affamato gatto Specchietto, nella fiaba di Keller, vende il grasso del suo corpo allo stregone Pineiss per il momento in cui grazie ai cibi che questi gli fornirà avrà sotto la pelle una bella cotenna di grasso da scuoiare. Ma il gatto alla fine lo giuoca mangiando come cibo migliore e più nutriente proprio la carta che siglava il patto.
… Dal pensiero non si esce mai puliti, riflette il filosofo. Chi potrà dire «io penso» senza amarezza?

Manlio Sgalambro, Piccoli studi, La Sicilia, 9 luglio 1989

«Ma in tal modo, mi si può chiedere, qual è il risultato pratico? Questo, rispondo, non mi riguarda.»
— Bradley, Appearance and Reality

Bossuet
Invidiamo la sicurezza di Bossuet, mentre da filosofi, quali siamo, ci toccano miseri dubbi e maestri la cui grandezza e un’opinione. La filosofia incarna il dubbio perché dubbia è la sua funzione nella società moderna. La filosofia è in realtà il supremo giudizio sul mondo: esso è condannato. Proprio per questo e sospinto al margine. Quanto a Bossuet basta che parli perché si formino intrecci di perle e smeraldi. L’architettura del suo eloquio vale più di un perituro pensiero. Tuttavia il suo Traité de la concupiscence è opera insuperata e assicura alla specie un «perché» al di là di tutti quelli effimeri. Non c’è pianto di bimbo o sofferenza di martire che possa valere una sua pagina. Ma, ahimè, la carne è debole… Oggi lo «Spirito», questo delizioso vanto, risulta cinico a quelli stessi che cinicamente lo chiamano, infelici, «cultura».

Relazioni
Che la verità sia una relazione tra persone sembra talmente vero – che non può esserlo.

Silenzio?
Da nessuna parte si sente silenzio. Ah che ostinatezza in quel Pascal! Il silenzio degli spazi infiniti? Si sentono spaventosi rumori e grida bestiali. Il mistico è colui che urla. Fatalmente sembra che taccia.

Senilità
Ogni buon filosofo – si usa questo termine in senso del tutto emozionale – è come un ottantenne senza domani. In altri termini non ha più alcuna intesa con la vita già nelle sue scricchiolanti giunture. Così delle sue passate esperienze, dei dolori che allora gli mutilarono l’animo, nobilitandolo, si passa alle volgari grida del corpo che però affossa l’anima con tutti i suoi quarti di nobiltà.

Nicomacheide
Alla domanda: che dobbiamo fare? non si può che rispondere che non dobbiamo fare niente. Altre sono le potenze del fare e per il resto ci sono Justiz und Polizei. Tuttavia non si può sfuggire alla stretta mortale e la risposta va data senza trucchi. Se Aristotele stabilì che nel medio potesse consistere la virtù, quantificando perciò l’agire, dosandolo come se distillasse o maneggiasse misture pericolose, dobbiamo raccoglierne Pimento. Bisogna allora dire che ci sono concesse, per una possibile virtù, misure striminzite. Minime azioni, appena abbozzi in cui l’agire non finisce il suo mortale percorso. Perché, chi agì senza rubare, stuprare, togliere spazio all’altrui vita? Al termine di ogni azione sta, come sua conseguenza non sempre tratta, un delitto. In questo minimo in cui riteniamo consista la virtù, si può condurre una decente esistenza. E infine, poiché all’altro forse non si fece tanto male, si può pure dire che gli si fece anche del bene.

Sognare leoni
Importuna saggezza, essa ci distrasse dalla vita eroica che sognammo e ci ridusse ad equilibri infausti. Nello spirito vi sono ancora continenti da conquistare, scoperte e grandi viaggi. Il coraggio non è solo una virtù da sergente. Le menti impigrite vivacchiano e le praterie sconfinate sembrano solo appannaggio di mandrie. La grande filosofia ci passa davanti e non abbiamo la forza di farle un cenno. Su, vai, intrepido, sogna leoni, grandi pensieri improvvisi, e lascia, per due o tre, una traccia per il loro cammino anche se sai che passeranno sul tuo corpo stritolandolo.

Ragioniamo un poco sulla morale…
Che in essa si debba parlare di volontà più accurata escluse che essa potesse essere altro che cattiva. Della parafrasi schopenhaueriana, tolto il mitico velo dell’Essenza, resta però l’ambiguo rapporto: se esso è strappato – avviene in altre parole contro il supposto fondamento del mondo – o se le adempie più profondamente. In ogni caso solo il pensiero è buono. Anche attraverso lo sguardo che si posa sull’altro, come a dargli un addio, si può intravedere una carezza, un cenno di saluto dal più profondo. L’altro non saprà mai che lo sguardo che si posò su di lui rimpiangeva la sua morte imminente come il suo più intimo amico, come una madre. Ma in esso, in gran segreto, si adempì il mistero del bene.

Una differenza fondamentale
Bradley, filosofo per cui abbiamo riverenza e stima, definisce il primato della volontà, decisivo nelle etiche post-cristiane, «un oscuro rimedio per colui che è filosoficamente pavido». Non c’è dubbio. Un atto basta dove il pensiero non regge la vista. Dai da mangiare agli affamati: va bene. Ma se il tuo pensiero si sofferma su di loro non hai fatto di più? Se la tua attenzione li prende di mira, essi esistono, se gli dai da mangiare essi vivono soltanto. Naturalmente ciò suppone che si sia capita la differenza.

Manlio Sgalambro, Racconto filosofico, La Sicilia, 25 giugno 1989

Il filosofo indugia fra le sue trame, vigila che i concetti non si mescolino. I suoi occhi tirano linee, tracciano circoli, spaziano. Lo spirito enuncia gravi sentenze. Lo spirito osa. Gli appaiono ombre, tenui idee che traspaiono come veli d’organza…
Chi volesse fermare il bene come il bell’attimo, non può farlo – si sente una voce. Chi volesse dire al bene «fermati», si troverebbe in mano un pugno di mosche. Si spegne l’entusiasmo per il bene? Il vero ne fuga l’idea che però resta come idea desolata, vecchio desiderio? Oppure?
Si vuole il bene? (non trema la voce del filosofo). Si sappia allora esattamente cosa si vuole. Si vuole lo stesso universale, non è vero? E allora in esso perisce l’individuo che non ha modo di sopravvivere davanti al fulmine di Zeus. Ma guarda meglio. È l’Uno forse il bene? Non si è detto (un’altra volta si disse, infatti) che da esso l’individuo è preso e ingoiato? Quando si vuole il bene di qualcuno si vuole allora la sua morte individuale? Consultiamo la mente. Essa ci ammonisce che volere il bene di uno è volere assolutamente che egli non muoia. Tutto qui? Tutto qui. (O caro, ti trascini sulle ginocchia, i sensi fanno piroette, stringi i denti, alla maniera dei forti: osa).
Lo colpiva talora la tabe dei pensatori, la malinconia e l’accidia. Se ne stava inerte, non scorreva in lui un filo di forza vitale, ma rimuginava, solo il pensiero viveva. Deplorava, in filosofia, l’uso dell’io raccattato, diceva, dai suburbi, degno di Encolpio e di Lucio e la suggestione di esso. Plotino, che ancora l’usò, aveva raggiunto l’estasi quattro volte, Lutero credette, sola fide, soltanto due volte. Un’infinità di individui raggiunge l’orgasmo un’infinità di volte. (Veramente Plotino, amico tu ti sei incontrato con Dio solo una volta, un giorno del 270, era la morte).
Riemergeva in lui la volontà di essere individuo ma come volontà di essere autore di un’opera. (La filosofia, diceva, non è che un’opera).
Non gli sembrava che essere un autore fosse agire e ne era lieto. Si riunivano perciò così l’ordine biologico con l’ordine dell’opera. Si completava. La sopraffazione gli sembrava ora tutt’uno con l’intenzione. Vedeva il regno della verità, disarmonico e crudele. Qualcosa a un tratto si affermava, prepotente e cieco, ed ecco: era vero.
Riteneva comunque che vi fosse un solo pensiero: quello dei signori. Il pensiero che guarda dall’alto in basso anche Dio, diceva. (Amico, tu insegui le pianure di cristallo che io rintracciai già nei tuoi occhi. Un’unica luce proviene da essi, da te…).
Agisci come se ci fossi sempre io, dice il filosofo. Non conoscere altra morale che quella del timore. In ogni caso non seguire, guardatene, quella dell’amore… (Gli sembrava di essere caduto in una sorta di gorgo e di esservi trascinato. Avvertiva il suo corpo, menzognero Descartes, prima del pensiero. Sentiva così di fare parte del cosmo, come una stella. Nient’altro che così: ma occorreva percepirlo. L’abitudine a fare parte di una specie – trista abitudine, infine – gli aveva attuato ogni senso cosmico, il suo corpo siderale. Solo la sua mente orgogliosa intuiva).
Pensava dentro l’ordito di un racconto. L’intreccio non era dato dall’assassinio di una veccia o dall’amore per Carlotta. Ma da pensieri che dovevano rispondere di sé a una emozione.
Il comico è la critica provvisoria dell’azione. (Gli venne improvviso questo pensiero). Solo chi non riesce a pensare, agisce. Immagine artefatta della possibilità, l’azione la ridicolizza. L’uomo d’azione e buffo. Egli imita l’agire come sarebbe se fosse. Perciò il senso del comico ne sprigiona irresistibile. Tagliati fuori da ogni scopo, i suoi atti penzolano nel vuoto. Il tragico suppone la serietà dell’agire mentre ormai abbiamo solo un agire che si prende sul serio, dice il filosofo.
(O Posidonio, il calore è in ogni cosa e l’anima stessa ne brucia. Tu l’hai sentito. Nella regione del fuoco celeste – essa è fuoco ugualmente – ogni intelligenza arde e crea le grandi chiarezze della tua gente. Tu l’hai capito).
Cosa sono queste montagne in cui si aggirano certi spiriti? Chi sono questi signorini? Essi amano certo l’altezza e prima ancora amarono ascendere e prima ancora Dio. Essi hanno dunque una nobile ascendenza…
Dovrebbe essere evidente, sussurra il filosofo, nella rassegnata dolcezza di una cosa accettata, il suo stretto connubio, con una fisica: niente metafisica senza fisica, ciò si sapeva una volta. Essa riacquista la perduta evidenza appena riconosce il suo triste debito. Una fisica grama, impotente, costretta ad ammettere che l’ordine regna nel mondo, proprio come la metafisica.
Il filosofo traduce il suo George: «Io so che in oscuri paesi conduce il viaggio / Dove molti perirono, pure col mio Maestro / Affronto i pericoli, perché il mio Maestro è saggio». Chi insegna un solo pensiero non si riconosce nella vaga definizione di filosofo. Egli non conosce che una sola verità è qualche antica canzone d’amore. E sogna solo un discepolo che gli aggiusti il cuscino sotto il capo quando è stanco e gli racconti belle e tristi storie al calare della sera.
Una conoscenza al di là di tutte le cose umane. Una conoscenza che non perdoni, crudele e senza grazia. Ciò che si può raggiungere solo poi in un momento e poi ci abbandona. La conoscenza per una sola volta.
Ricordava la vecchia definizione di Simmel del filosofo come avventuriero dello spirito. Per valutarla come si deve si deve avere vicino l’altra definizione dell’avventura come l’uscita dall’insieme concatenato della vita. Il filosofo si rispecchiava in essa. Andava per deserti, si impegnava in combattimenti, capeggiava battaglie, volava come un’aquila o strisciava come il più superbo dei rettili che d’improvviso si erge e colpisce. I venti più rudi gli sferzavano il volto e i rumori delle intricate foreste gli occupavano la mente. Inconsueti e struggenti.
Il vecchio cavaliere andava per la sua strada; age crusting him with a salt cloak: la vecchiaia lo incrostava di un manto salino.

Manlio Sgalambro, Grande paura, La Sicilia, 10 giugno 1989

Il più arrogante tentativo di discutere la possibilità della metafisica, quello di Kant, mostra che le idee della ragione sono state raccattate dalla strada. Ogni discorso sulla supposta struttura storica della metafisica, dal quale Kant opportunamente si tiene lontano, ha valore solo nei limiti in cui significa che questa accozzaglia – Dio, libertà, immortalità – imputata alla ragione a sua insaputa, non proviene da essa. La critica della ragione mette invece a nudo, con la sua supponenza, l’estremo tentativo di occultare gli imperativi che provengono non dalla ragione ma dalla esistenza stessa del cosmo e che formano la sostanza ultima di ogni «suprema» domanda. La metafisica è fisica alla seconda potenza. Si tratta di togliere a ciò che vi è di «altro» la parvenza che accompagna l’infanzia della Kultur. È quanto avviene nella Zivilisation. Il simbolo scientifico prende il posto del simbolo mitico conservandolo.
Il pensiero teologico insegna a pensare quell’altro che le scienze umane hanno da tempo abbandonato. Teologia e scienza si confermano più vicine di quanto usualmente si pensi. La stretta aderenza al pensiero teologico conserva, come scintilla, il pensiero dell’altro che la fisica accoglie dalle sue mani. La nuova mitologia, che comincia con Nietzsche, entifica, come la scienza, l’essere dell’ente. Il «supremo astro dell’essere» di Gloria ed eternità si accinge a diventare oggetto comune della metafisica e delle scienze fisiche come entità solare. L’individuo primitivizzato della Zivilisation ritorna al sole. Il ritorno al punto di vista solare è il segno della nuova coscienza del sistema solare come la «cara patria». Ci si espone al sole sulle spiagge mondiali, come si costruiscono case rivolte al sole, non per ragioni ludiche o igieniche come ritengono le masse, ma per ragioni culturali che tornano sebbene come un rimorso. L’unità distributiva dei fenomeni in un totum analyticum, in un «mondo» come sistema solare (grandioso relitto dell’età newtoniana) non è semplice materiale per una idea regolativa. Se la metafisica si può costruire solamente in obliquo, lo specchio ustorio che rimanda l’immagine dell’«assoluto», mentre lo brucia, è l’immagine della morte del sole, ultimo anello della grande catena delle determinazioni. Come una profezia biblica la previsione scientifica incombe sull’individuo come una maledizione. Ma la diffusa coscienza fisica toglie ai profeti il triste compito e fissa l’ultima scadenza all’interno della quale si costituisce la gerarchia della caduta.
Il carattere profetico della scienza fu così richiamato da Helmhotz: «Le leggi fisico-meccaniche sono, per così dire, i telescopi del nostro occhio spirituale, che possono penetrare nella più profonda notte del tempo, passato e futuro». L’ultimo capolavoro del neoplatonismo redivivo è il neoplatonismo del sole morente in cui si incarna la grande paura dell’Ottocento. La minacciosa regressione verso l’informe che attira e respinge. La regressione fu già in Schopenhauer la tensione verso il «qualcos’altro»; come tale non poteva assumere che questa forma trattandosi di spezzare la cintura dell’umano che vieta assolutamente di spingere lo sguardo al di là di questo. Nell’equivalenza che Schopenhauer stabilisce tra umanismo e bestialismo essa resta giudicata. La regressione verso il sole morente legittima l’identità di entrambi. L’uomo è già la bestia. L’ultima barriera che lo divide – l’ipocrita amore per gli animali – è in realtà il tentativo di rimandare l’ineluttabile. Il nulla che come concetto è in Schopenhauer ancora attendibile, prima di finire nella farsa, viene tradotto da Boltzmann in termini statistici e diventa la morte termica. Boltzmann chiama Schopenhauer «filosofastro ignorante», ma poi postula il Wärmetod! Lo spirito di Schopenhauer è appagato.
Il tramonto del sistema solare che l’immaginazione del diciannovesimo secolo vive come evento condiziona la filosofia e da ragione a Platone sul suo carattere mnemico. Ma se ogni «principio» è finito, crolla il festoso potere del ricordo ad esso legato; invano si invoca qualcosa da ricordare con nostalgia.
Il decennio 1880-1890 segna l’estensione dell’illuminazione elettrica su scala mondiale. Con l’elettricità l’energia diventa «onnipresente». A partire da qui l’energia ha una storia. Mentre la legge della dissipazione dell’energia entra nella termodinamica, chiudendo il processo cosmico coll’ipotesi di uno stato finale, a partire da qui, assieme all’energia, diventano onnipresenti luce e calore di cui è come se si avesse una fame insaziabile. Il paradigma della grande paura condiziona la comunità scientifica spingendola all’industrializzazione della scienza. L’unione di anima ed energia elettrica – il programma di Rathenau – è la risposta della «vita» al messaggio di «morte» della scienza. L’immagine della scienza come «mortifera» si comincia a formare e si diffonde a partire dagli anni della grande paura. A partire da qui comincia pure la cosiddetta reazione contro la scienza.
La crisi dell’immagine fisica del mondo, il suo disperdersi in mille rivoli, è l’effetto dell’urto con una fisica senza speranza. L’alternativa di precipitare in una situazione cosmologica senza uscita, porta al riscatto della durata, al primato della storia. La storia che fa rivivere il tempo si contrappone alla scienza che invece fa morire l’universo, e ha la meglio su di essa.
Anche la malattia infantile della scienza, l’estremismo della ricerca, continua, fa parte del paradigma della grande paura. Il «non c’è enigma» di Wittgenstein, come il «non c’è vestito» di Andersen colpisce la pretestuosità della cosiddetta scienza aperta. Per la scienza al suo compimento la mancanza di enigmi rivela invece il mondo nella sua nudità. La radicale inspiegabilità del mondo è identica alla mancanza di enigma. Al fatto che non c’è nulla da spiegare.
L’invocazione di Osvaldo alla madre – negli Spettri di Ibsen – «Dammi il sole» riassume il supplice grido di un’epoca prima che la grande paura cadesse nell’oblio.

Manlio Sgalambro, Del nirvana occidentale, La Sicilia, 3 giugno 1989

La tecnica, a cui l’intimo si ribella mentre le mani accarezzano cupide i suoi prodotti, si appresta a sostituire l’uomo come mal riuscito. Se ne cerca l’essenza altrove che in questo sogno, come se mille indizi non vi riconducessero. Il pessimismo mondiale ha generato la tecnica sotto specie della rinunzia alla vita di tipo occidentale. L’uomo inventa la macchina per sfuggire alla vita. Egli sognerà sdraiato sulla riva mentre le pupille stanche percorreranno l’orizzonte. Ciò che rimarrà intatto sarà questo sguardo. A cui non interessa che tutto ricominci, ma che finisca doucement. La pace della macchina, la pax technica, è questa quiete immensa. L’era della vita, che si pensò interminabile, e su cui vigono tuttora strani pregiudizi, finisce. Vivono le piante, gli animali, a cui si abbassa con pena lo sguardo dell’uomo d’oggi. Essi ancora vivranno, sopporteranno lo stridore dei giorni, la beffa di nascere e morire. Ma l’uomo si spegne. Finisce il dolore che indicò che li c’era ancora del vivo, una massa di carne urlante. Al posto della carne, l’acciaio; le leghe che percorrono lo spazio comico.
Chi rimpiange la «vita palpitante» non ha capito nulla. Non ha capito le mille vie del nirvana. Egli cerca le colpe di tutto ciò come un fanciullo spaurito, ma la tecnica e la rinunzia dell’uomo maturo alla vita selvaggia, per farsi impassibile macchina. Essa è la via occidentale del nirvana. Lo spirito della tecnica non è lo spirito diabolico né la cieca fiducia attivistica. L’uomo cosa è esaltante come il vuoto mistico e il suo sangue è freddo come sangue di serpente. Ci laveremo con esso e ne avremo refrigerio. Ecco il nuovo modo di essere e di avere a che fare con se stessi.
L’atteggiamento blasé, è l’atteggiamento dell’homo technicus. Si sfiora ogni cosa con lo sguardo indolente. Si sogna l’inerzia con cui un tempo si confuse un Dio. Il blasé usa lo sguardo come un grimaldello. I contatti con gli altri passano solo attraverso un’occhiata pigra ma che succhia l’anima al malcapitato.
È dunque l’anima, come essenza della vita, che desta orrore e inquietudine. Come ciò è informe, arretrato, come se l’uomo con l’anima fosse un mostro, un essere abnorme che giustamente si teme.
Sentimenti e passioni che le tecniche morali presero già di mira esaltando l’uomo apatico, approdano alla dolce freddezza dell’uomo astratto che non mira a nessuno in particolare. Chi non sopporta di essere cosa, manca il suo attimo. Ha perso la sua destinazione, smarrita nel passato o nel futuro. Nell’acciaio noi troviamo noi stessi. Nelle leghe che esaltano durezza e malleabilità, possibilità di resistere agli urti cosmici, l’uomo sogna se stesso. Quello che già i saggi gli fecero intravedere. La tecnica realizza lo stoicismo e l’epicureismo insieme, le grandi correnti morali che perseguirono con mezzi rudimentali una vita financo perfetta. Le prime apparizioni della tecnica in Occidente furono le dottrine morali, con l’aspirazione al dominio di se stessi, in cui la vita dominata veniva prima assoggettata e poi fatta sparire. La stessa ragione, esaltata oggi come tecnica, non è che un frutto tardivo. Già così apparve, ab initio, nel suo stesso nome.
È dunque la sfera vitale che la tecnica attacca. Ma ciò non è che la sua stessa essenza. Essa vuole redimere dalla vita.
La stessa macchina sociale di cui si lamenta la riduzione dell’uomo a ruoli e funzioni, è intesa non a fare sparire diseguaglianze sociali ed economiche di cui ribolle solo la superficie, essa è impegnata a fare sparire il vitale, come se fosse un resto arcaico, qualcosa in cui si esprimessero ancora antichi terrori e sofferenze. Il dolore sociale colpisce solo la superficie; ma l’altro, quello legato al vitale, è questo che la tecnica ha di mira.
I lamenti sulla tecnica o la sua esaltazione attivistica fanno parte di una stessa visione attardata. Il collegamento della tecnica col pessimismo mondiale non viene scorto. Questo pessimismo non frigna.
Non mira all’annientamento come soluzione individuale, come autorinnegamento della volontà, tipico della fase neobuddista del secolo scorso, ma oltrepassa la sfera dell’individuo. Esso stesso è trapassato nella realtà: s’è oggettivato. Il pessimismo realizzato deve decifrare i suoi duri passaggi. Non la rassegnazione dell’homo desolatus. Esso ormai rifugge la volontà che ha fallito la sua negazione. Ma spia l’annullamento realizzarsi nelle cose.
La tecnica è dunque il compiuto processo dell’annullamento della volontà sfuggito alla volontà individuale. Essa realizza l’annullamento in ciò che produce. È lì che l’uomo passa la mano a un altro se stesso. Mentre l’uomo attardato confonde passato e futuro in uno stesso rimpianto, l’homo technicus spia, dalle rovine che lascia, il suo trionfo. Egli realizza il sogno dell’inerte che nel dominio superficiale della storia prese nomi e forme diversi. Ma oggi sembra che appaia col suo vero volto.
L’orientamento dell’uomo neotecnico sulle cose non è un semplice accidente che si potrebbe mutare a piacere, ma il frutto appassionato di un essere che ricerca il riposo. Nelle cose si specchia il suo volto che poco a poco si disfa come se l’attenzione animante venisse meno rapidamente.
L’assimilarsi alle cose realizza la nolontà, fallita sul piano individuale. Le cose sono nolontà coagulata.
Il vecchio racconto di Schelling – nelle cose dorme uno spirito gigante… – esalta il momento in cui lo spirito si sveglia e riconosce in esse se stesso e, nell’inerte, equilibrio dello spirito. Ma è tempo, pare, che lo spirito si addormenti di nuovo in esse e s’acquieti in un sogno senza sogni. L’uomo acquietato, l’individuo che mangia e digerisce. L’ex eroe, il filisteo. Appena scosso da impercettibili movimenti che indichino il palpitare quieto del suo cuore. Come il piegarsi al carezzevole vento delle spighe in un campo di grano.

Manlio Sgalambro, Del bello, La Sicilia, 27 maggio 1989

Ciò che l’opera d’arte si arroga come istituzionale, la salvaguardia del bello in funzione di essa, non trova il corrispettivo là dove la bellezza diventa da se stessa il thema probandum. Essa prova la sua esistenza a spese dell’opera d’arte che ha sempre ritenuto il bello cosa sua. L’antitecità tra bellezza e opera d’arte appartiene alla scoperta dell’essenza del bello non asservito. L’opera d’arte fa suo il bello in un atto disperato, come se volesse salvarsi a scapito di quello. O come se essa sapesse che il bello è la sua tomba. La teoria del bello diverge da una teoria dell’opera d’arte nell’essenziale. Dire che nell’opera d’arte il bello è espresso, trova in questa pace apparente il suo redde rationem. Il rapporto non è di questo tipo. Nella bellezza la stessa opera d’arte scompare inghiottita dal fuoco. Essa distrugge l’opera d’arte attraverso cui appare. L’irriverenza del bello non si ferma davanti all’opera d’arte ma la travolge per trionfare solo.
Quando si dice che l’estetica è finita, ciò vale per il suo ambito vitale. Nella considerazione del bello l’estetica fallisce già perché essa è quel che è. Essa riporta il bello all’uomo, al mondo, come se dovesse consolarli. Questa terribile spia di qualche altra cosa, nelle cose nostre, come se cadesse su chi la evoca con intenzioni omicide, viene spacciata per un soporifero incanto dove maldestri esecutori manipolerebbero le sorgenti del piacere. L’estetica vada in pace per la sua strada. Essa non è quella del bello.
Che l’arte, e tanto più una singola opera, possa avere un fine oltre il fatto di esistere, non è più così vero come ai tempi delle patetiche filosofie dell’arte. Che la singola opera oltrepassi se stessa, ciò si diceva già ai tempi dei tempi. Che il singolo autore non sappia cosa fa, nemmeno lontanamente, valeva come una legge. Uno ha scritto un poema, uno ha composto una musica: tutto qui. Ma senza saperlo egli ha scosso i pilastri del mondo. Anche in un frammento si cela distruzione e morte. Così il fine che nemmeno si intuisce oppure è posto addirittura in un processo creativo, eccolo visibile nella totalità dei rinvii di un’opera all’altra. Decifrare l’estetica e uno degli scopi del fine. La tesi selvaggia che l’arte sia creazione non cessa di illudere. Mentre in ogni suo sospiro c’è annidata la distruzione. Come se un pazzo furioso fracassasse ogni cosa attorno. Così scocca il bello, come una scintilla prima e poi come un fuoco in cui brucia il corpo vile della realtà. Per chi sente questo fuoco, veramente brucia ogni cosa intorno, e in lui si consuma ciò che è in più. Quello che resta è il bello.
La bellezza contrasta con l’arte che nella forma conserva il sacro patto. La bellezza, infatti, corrisponde al dissolversi della forma; è, per così dire, l’elemento antiartistico. Ciò è paradossale. Che nella bellezza la stessa opera d’arte vada a farsi benedire mentre mostra la demonia di quella, il sopravveniente irrompere come da chi sa dove. L’opera d’arte che resiste alla bellezza protegge se stessa. Opere del genere non sono divorate dal Moloch. Restano intatte. Per loro sfortuna.
La bellezza fulmina dunque l’opera d’arte che se ne fa portatrice. La prima vittima è proprio essa. La bellezza è nemica dell’opera d’arte che vorrebbe scherzare col fuoco. Ricorrere al bello come a un tranquillo ingrediente che poi domerebbe facilmente piegandolo ai suoi fini. Ma il bello rompe le tenui salvaguardie che mani anche esperte approntarono e travolge l’opera che si credeva indispensabile. Il bello si fa largo e la sua orribile immagine copre e cancella l’opera ormai nemica. Questa è la trascendenza del bello.
Che il bello sia gradevole, che sia «bello», pure contro questo pregiudizio deve cozzare la teoria del bello. Ma l’estetica avalla col suo stinto prestigio persino il nominalismo, la soggettività del bello per cui esso in ogni caso passerebbe sempre attraverso un quidam. Sì, gli passa attraverso, ma come una lancia, come una picca, come una spada. Il bello si imbatte nel poveretto come un furfante, come qualcuno deciso a ucciderlo. Sì, il bello ha bisogno di qualcuno senza di cui non può farsi vedere, ma come uno schiavo, come una vittima, come un povero folle. Come di uno che esso attira in un tranello e non si sa se mai ritornerà a casa sua.
La bellezza è l’esodo da questo mondo. È come se essa lo abbandonasse con sdegno nell’attimo in cui si rivela. Un fruscio, un soffio di vento, un brivido intenso, e dentro di noi il vuoto improvviso. La stessa opera d’arte muore di morte violenta soppressa dalla bellezza che si diffonde come un rapido veleno. Essa si era introdotta in quell’opera per segrete vie; nessuno lo sapeva. Quando si saprà, sarà troppo tardi. L’idea del bello si sprigiona, come il gigante dalla lampada di Aladino, dal quartetto op. 59, n. 1 di Beethoven allo stesso modo che da un perfetto delitto. Il mistero della bellezza sta in questo non sapere da dove mai essa spunta e quando.
Il bello mette a posto l’essere dicendo che esso non lo è. Qualsiasi ontologia del bello puzza. Al confronto l’idealismo è in vantaggio. Già al solo nome «idea» il brivido platonico sorprende assai meglio del sornione concerto di essere che prende sottogamba. Bello non è l’essere. Questa semplicistica affermazione esprime tuttavia come stanno le cose. Il senso trascendente del bello è il suo porsi fuori del pasticcio che ci viene propinato. Proprio perché qui tutto lascia a desiderare, quello è bello.
Il bello è la mortificazione delle opere d’arte. Se non le rinneghiamo, se non passiamo sul loro corpo, nulla si fa vedere. Se l’opera d’arte non muore… Qui il bello diventa sensibile, in questo istante preciso, fatale all’opera d’arte. Essa deve morire perché il bello appaia.

Manlio Sgalambro, Solidarietà è ignoranza, La Sicilia, 30 aprile 1989

Regni e imperi
Si immagina la canaglia entrare nel regno della libertà come il saggio nel giardino di Epicuro? Lo si immagina leggere l’iscrizione che immaginò di leggere Seneca: «ospite, ecco la felice dimora dove la voluttà è il sommo bene; ci sarà pronto il custode di codesto soggiorno, ospitale e umano, il quale ti accoglierà con la polenta e ti mescerà acqua abbondante e dirà: “Sei stato ben trattato?”. Questi giardini non eccitano la fame ma la estinguono, né si accende qui la sete a furia di bere ma si spegne naturalmente…». Si riesce ad immaginare tutto questo? Bisogna tuttavia immaginarlo. Bisogna immaginare il regno della libertà come il giardino di Epicuro e la canaglia come il saggio che vi passeggia sereno – per non crederci.

Caffè viennese
A Vienna una sera, in un caffè, vide gli spettri di Schnitzler, di Altenberg e del signor Dopodomani (al secolo Herrnann Bahr). E il giovane Loris (cioè Hofmannsthal coi calzoni corti). Ma non accadde mente. Solo la malinconia si presentò assieme a essi. Quando nel Cavaliere della Rosa la Marescialla rinunzia al bell’Ottaviano a favore di Sofia, qui è la negazione viennese della vita. Bonne mine à mauvais jeu. La musica birichina lo sa già. «Non è che un ballo in maschera viennese, e nulla più».

Colpi di tacco
Ci animiamo guardando gli insetti, i loro corpi multicolore, così perfetti. Ne ricaviamo persino la certezza della nostra esistenza. Proviamoci a dedurla. Ci rendiamo corto che la loro stessa dimensione attira la crudeltà. Mentre li schiacciamo il nostro cuore sanguina. Ma è tutto collegato. ¿Quién sabe? Ma sì, sì, noi lo sappiamo. La pietà sorge impetuosa dove il destino dell’altro dipende dal nostri piedi, ma essa non serve a fermarlo. Quando colpiamo ci vengono i buoni sentimenti. Essi si legano al disprezzo che proviamo e così il colpo di tacco e la pietà nascono assieme. Sì, è tutto collegato.

Cosmos
L’appercezione del cielo stellato sopra di :ne e della legge morale in me, vale per il mondo di casa al quale limita la sua efficacia; essa ritaglia una porzione di cosmo che elegge a dimora. Ma il limite presto si squarcia. Lo sguardo è invaso da quanto vede; non si può andare oltre gli occhi che guardano inebetiti. Ciò che hanno visto non perdona. Dal corso dei pianeti, nelle Confessioni, Agostino ci richiama a noi stessi e scongiura di non obliarci. Sarà fatto. Come la Vita degli animali di Brehm, la Critica della ragione pura di Kant tratta dell’animale domestico; dell’uomo tra le sbarre delle rappresentazioni. Ciò è stato sempre connesso al primordiale patto di sopravvivenza. Solo il delinquente della conoscenza scorrazza nella terra di nessuno.

L’altra metà
Meneceo, Marcia, Novato: interlocutori muti, eppure evocatori di frasi ben fatte (anche se fossero solo questo). Attraverso i non parlanti, come se si trattasse di propiziatori feticci, si svolgono gigantomachie contro i cœlestia regna (come in Claudiano, collage di vari motivi…). Il lexis dell’etica, il suo ordo retorico, ebbe un nume che aleggiò attorno a un busto in marmo che gli dedicava Aristotele: fosti tu, Nicomaco. Tu fosti presente quando Hegel tenne lezioni sullo spirito oggettivo e non disertò Lucilio le lezioni di Schopenhauer, a Berlino. A queste mute ombre, interlocutori o fiati di voce, siamo tutti grati.

La nostra parte
Quando apprendemmo ci basti (e portarcelo con noi per tutta la vita). Di lì abbiamo tratto la parte di verità che ci penava. Il resto, che non nacque in noi, le idee alle quali andammo dietro, e le filosofie, le scienze, le teologie, di cui fummo solo venduti cortigiani, non aggiunsero un alito. E niente comunque potremmo fare di più. Questa è la nostra parte: ciò che portammo in noi per tutti questi anni e prese la nostra forma.

Solidarietà
Essa ha bisogno di quella stessa distanza che dovrebbe annullare e si trova alla fine al punto di prima. Non ci può essere solidarietà senza ignoranza di ciò che è l’altro. Al di là di quella sofferenza generica con cui ci si accoppia come si accoppiano i cani, come se essa bastasse. Persino sacrificarsi per un altro ha sempre trovato un’eco immediata nei nostri nobili cuori. Ma chi è quest’altro? Ogni volta che s’è visto bene in faccia sono cadute le mani. Non guardatelo allora. Per questo ci si rivolge alla spontaneità, o al dovere. Essi non chiedono i conti e partono alla cieca.

Buoni affari
Una volta il borghese di razza usava comprasi una moglie, ossia tutti gli atti sessuali di una vita in blocco, per fare un buon affare. Vitto e alloggio, ed un regalino ad ogni colpo ben riuscito, era la cifra che sborsava per fare di suo figlio un figlio di puttana.

Non date la filosofia ai porci
Molti scrivono di filosofia pensando: tanto, lo spirito vivifica. Essi scrivono, in realtà, senza avere nulla da dire ma confidano che qualcuno ravvivi i loro smorti pensieri e dia ad essi le ali ai piedi. Ma cosa ne sarà di loro, se a questi ruffiani si grida, via di qui, la filosofia è altrove, è la lettera, non lo spirito, e chi non avrà detto nulla nella lettera non avrà nemmeno aperto bocca? (Sì, lo spirito vivifica, belli, ma la lettera vi uccide).

Passacaglia
Concetti che si sciolgono nelle parole: ciò dà un altro rilievo al rapporto filosofia col linguaggio. Si potrebbe dire che vi sono pensieri cantati. O dove il ripetersi ostinato di quattro battute avverte del suono della verità. È come se una passacaglia sgorgasse dalle cose stesse. L’indicazione, cara a Webern, verlöschend, direbbe come eseguire un pensiero mentre si spegne nel suono di se stesso.

Manlio Sgalambro, Del bene, La Sicilia, 15 aprile 1989

Vuoi il bene? ma di chi, di quel mirmillone? o di quell’altro demente? Agisci bene, ti si dice, ma solo per ragioni generali, non per questo o per quello. Ma se vuoi il bene, tu attenti al Principio, all’essere; neghi, così come lo puoi, Dio stesso. Investi della tua ira l’intero essere. In quel preciso punto hai fatto un minutissimo varco. Hai prodotto una incrinatura. Forse non vi passerà nessuno, forse una torma. Ma per un momento l’essere è in pericolo; col tuo piccolo bene l’hai messo in forse, traballa, è scosso… Se vuoi il bene, grande magari quanto un granello di senape, scateni il subisso del mondo, distruggi l’essere, attenti a Dio – ma proprio per questo vuoi il bene.
La maledizione del bene è che esso si avventa come una belva, quindi chi vuole carezze se ne stia alla larga. Il bene è l’irrompere di qualcosa che non dà tregua all’essere come se gli fosse contro. Esso contiene il “male”, o ciò che l’uomo, nei suoi ristretti limiti, vede come tale. La ferocia del bene è il balzo della tigre che azzanna, non la carezza del cuore buono. Se ne ricordi il perché: per il bene l’essere è ciò che non dev’essere.

Bisogna pensare l’idea del bene in modo che in essa ci sia la collera, la forza negativa del male, l’assoluto sconcerto davanti al vagito di un neonato, la furia omicida e la volontà che l’altro non muoia. Riferita all’individuo, invero, l’idea del bene è un movimento inverso a quello della morte. Volere che l’altro non muoia: questa è la futilità del bene e la sua inettitudine. Ma quando scocca codesta scintilla e davanti a un altro si prova inesorabilmente questo sentimento, il volere, già beffato in partenza, che egli non muoia, mentre si prova ugualmente tutta l’inefficacia di esso e ci si strugge, compare attraverso le strette fessure che le sono lasciate, e si apre un varco, l’idea del bene.
Il bene, dunque, è il contrario della morte. Ma non è la vita. Perché il bene è tale nel momento in cui ci sorprende e affligge l’idea che un altro morrà. Solo allora, infatti, può scaturire il volere, tenace e inutile, che non “debba” morire.
Com’è possibile tuttavia che si voglia il bene di un altro? Sta nella risposta la chiave del problema: che questa belva voglia il bene di un altro. Ciò avviene perché l’altro e io siamo gli stessi? Al contrario, non v’è abisso maggiore di quello che può esservi tra due esseri. Eppure io voglio il bene di un altro. O meglio, come un ciclone passa sopra le nostre teste il bene e contro la mia volontà mi costringe a “volere” il bene di un altro.

Se io e l’altro fossimo la stessa cosa, allora il bene sarebbe la cosa più facile del mondo. Ma è proprio perché c’è il crepaccio più profondo che esso è il “bene”. Che io faccia del bene a un altro è dunque la cosa più difficile del mondo e nel tempo stesso la più facile. Ma è la più facile perché c’è qualcosa che mi obbliga a farlo; anzi nemmeno mi obbliga ma mi spinge alle spalle come se mi volesse buttare in un precipizio. Così arriva dunque il bene, come se ci volesse assassinare. Come un urto alle spalle dato con tale forza che spinge verso l’altro anche se ci divide un crepaccio.
Quale sia il fondamento del bene non può esserci risparmiato dal saperlo. Il rilievo metafisico sta in ciò che veramente non si sa dove esso viene. Il sorprendente è proprio questo. Qui la metafisica sfoggia la sua consueta abilità solo nell’additare il mistero. Il bene è misterioso. Questo non dice nulla: ma chi ha orecchie, intenda. Che esso non è collegato al Principio, anzitutto. Che piuttosto ne è la negazione. Con esso ci garantiamo il nostro posto nel mondo. Siamo chi siamo. In qualche modo noi siamo solo i suoi mossieri. Battiamo i rituali colpi di mazza ed esso compare.

Ma che ha a che fare con noi? Non siamo trasportati, sul vento del suo apparire, lontani sia dal Principio ma anche da noi stessi? O forse non riconosciamo ciò che ci appartiene? Ma nessuno è padrone del bene. Non costituisce nemmeno la vetta del significato dell’esistenza, come invece fu ritenuto.
Anzi qui c’è puzza di pratica, di bisognini. Perché, a dir vero, se una speranza si avesse ancora, non appena compare il bene scomparirebbe del tutto. Il bene cade su noi come una pioggia rovente, come una violenza. Colui che sopravvive all’urto, ebbene questi è il consacrato, l’unto. E veramente potrà dirsi padrone di quell’istante. Ma dovrà aggiustarsi a trovare tutto lì, in questo “luogo”, e poi adattarsi a ritornare miserabile e mendico come prima.
Nell’istante, sfiorato dalle ali del bene, persino su Dio, sull’orrido principio, sul quotidiano tormento del nascere, su tutto cade in nepente ed essi come imprigionati da catene, non possono agire, come se li avessimo annullati, ma poi tutto ritorna come prima e daccapo Dio ci ingoia, e di nuovo la nascita ci sorprende e ci beffa, e di nuovo siamo sospinti all’affanno della vita.
Se si vuole dire in altro modo, il miserabile essere trionfa su tutti i nostri sforzi e si svela l’impossibile nulla come vano. Ma, da dove dunque il bene? Ci appaghiamo dicendo: mistero. Per chi sente la sua forza, il tuono che scuote la propria miserabile carcassa al suo apparire, e l’essere stesso in pericolo, per costui la parola bene è misteriosa. Ma gli pare, tuttavia, di riceverne luce.

Manlio Sgalambro, Immagini, La Sicilia, 8 aprile 1989

I sentimenti sono sempre ingannevoli? Parrebbe che visto attraverso essi il mondo stesso assuma cangianti colori e la sua impietosa durezza si ammorbidisca per il sognatore. Il calore che sentiamo o il gelo di un cuore deluso scompigliano i più perfetti piani. Noi non esistiamo per il cosmo eppure esso sembrò a lungo accompagnare le umane azioni e anche i sospiri. «L’aspetto del cielo rassomiglia all’opera che abbiamo in corso, così sanguigno, infocato, e spaventoso com’è», mormora Cassio in Shakespeare. I tuoni e i fulmini a lungo sembravano il vero linguaggio del cosmo e la minacciosa cometa compare ogni volta che muore un re. «Quando muoiono i mendicanti non si vedono comete» (Shakespeare, Giulio Cesare). Lungo una intera vita la specie ha spiato i luccichii delle stelle, i rumori delle intricate foreste di notte, confuse e bizzarre voci da cui trarre un segno dominante che guidasse fino alla tomba.
Ma perché ci ingannano i sentimenti riflessi dal cielo e non quelli che leggiamo sul volto della donna amata? «Molle riva che simuli il profilo di un braccio…»: questa rima di Jean-Paul Toulet non ha attendibilità oltre i suoi confini? Quel che vediamo su un volto non è amore come il profilo di un braccio non è un fiume?
Il sentimento ci inganna in ogni caso o in ogni caso è vero. Attraverso i sentimenti traluce un duplice modo di essere, delle cose e nostro. Simile a una danza si intreccia un rapporto e bisbigli di voci misteriose. Così il sorgere del giorno è dolce come il volto di un bimbo o cupo e feroce come un assassino. L’intuizione che il mondo partecipa alla nostra vita è relegata alla fantasia e alla superstizione. Ma alla malinconia di un paesaggio, al nero luttuoso della notte, corrispondono stati delle cose che non si disfano, come un arcobaleno, in gocce d’acqua.
Chi riscattò l’immagine, Klages, seppe indicare in essa il plausibile rapporto in cui si può essere col profumo di una rosa o con una foresta. La sua disperata difesa della “Superstizione” – nella grande opera Lo spirito come avversario dell’anima – dovrebbe valere a restituire il cosiddetto mondo percepibile, il mondo delle immagini. L’intelletto, dice Klages, derealizza il mondo e si lascia dietro un mucchio di detriti. «Le nubi cessano di essere schiere di demoni tempestosi». Al loro posto subentrano il vapore acqueo e le leggi della pressione atmosferica. Ma qual è il guadagno? Il residuo utile è il dominio del mondo, non più la vita delle immagini.
I capricci della luna – «la casta luna fa bizzarra i capricci», dice Mefistofele nel Faust -, oggi misero tropo, fu una volta l’immagine con cui l’uomo convisse. Lo spegnersi del Sole alla fine del giorno era opera di demoni maligni o di draghi o lupi o stregoni. La collera degli dei non era una metafora, ma da essa cercava scampo il perseguitato. Non i poveri calcoli astronomici, ma la malinconia dei saturnini provava l’esistenza dell’astro malefico. Si saliva per la scala del cielo sotto l’occhio benevolo di Giove. «Ma ciò che pieno di arcani si svolge nelle profondità della Natura, la scala degli spiriti che per mille scalini sale da questo mondo di fango fino alle sfere astrali, su cui operando salgono e scendono le potenze celesti, i cerchi concentrici che si van restringendo intorno al sole centrale, queste cose le vede solo il limpido occhio del sereno figlio di Giove, nato nella luce» (Schiller, Piccolomini). Affinità e simpatie legavano al cielo ma la maledizione era altrettanto reale e la sventura veniva da lontano. Si dia pieno diritto alle immagini, si lasci che vibrino, come corde impazzite, i sentimenti e l’indifferenza di questa macchina celeste che ci stritola lascia il campo ad occulte potenze non meno micidiali. Ma allora? Per il pensiero calcolante non si è fatto un passo.
Solo che questo senso di avverso è unicamente l’immagine che lo esibisce. La cometa, che Jünger vede come un «gomitolo di Mio», gioioso passatempo per gli occhi, come immagine è un insieme di sciagure. C’è dunque un diritto della superstizione? Un rivolo di conoscenza in essa? «Quanto alla superstizione e alla fantasia non si deve dimenticare che l’essersene liberati è solo il dubbio privilegio delle “persone colte”», ci ammonisce Klages. Ma si può sfuggire alla generalizzazione di una causa o al sospetto di una ipotesi? Non le cose bensì le immagini sono animate, chiarisce ancora Klages. Giureremmo sulla loro autonomia. Si danno, cioè, immagini pure: il giuoco delle nubi, il fruscio degli alberi, il buio della notte, l’animosità di una pianta impedita nel suo sviluppo da un muro (immaginate che si trova nel De anima di Tertulliano)…
Torniamo ai sentimenti. Il “tenero” giorno, la “fosca” notte, il volto “arcigno”: queste qualità non le troviamo più nelle cose, eppure erano la loro anima. Il bluff della metafora è il trucco pietoso di chi vuole tenere in vita questo mondo ma senza pagarne lo scotto. Il linguaggio poetico indica la terra promessa ma non vi mette piede. Il mondo vero dell’immagine si racconta ormai come favola.

Manlio Sgalambro, Della gioia, La Sicilia, 28 marzo 1989

Nel rapido guizzo di gioia si apre il baratro che ci circonda. Tutto sembra ancora più nero a chi ne rimane estraneo e l’estremo giudizio ricade sul mondo mentre quello esulta. Sentimento mostruoso in cui l’esaltazione si congiunge all’aridità. Non c’è in esso preparazione. Niente fa prevedere ciò che poi accade. La gioia non ha padri da cui indicare il figlio. Essa sorge come se ad un tratto dovesse condurre fuori dal mondo, da cui proviene. Qualsiasi domanda che volesse fermarla sul sorgere, o come se volesse punire il colpevole, si strozza in gola e chi domanda mostra di non aver capito da quali cupe sorgenti sgorga questo sussulto panico. Niente, sul momento, può impedire quello che accade. Chi si disfrena nella gioia si libera nell’attimo del peso di tutta una vita. Che importa quel che soffri ma un attimo di gioia lo riscatta. Se dovessi scrivere un trattato di morale metterei il buon umore al primo piano, scrive Alain. Ciò che e più grave è che sembra tentato di non distinguere quest’ultimo dalla gioia. È in buona compagnia d’altronde, se si pensa che «l’ilarità» (l’eccitazione piacevole) e secondo Spinoza l’affetto della gioia: «Affectum lætitiæ, ad mentem et corpus simul relatum, titillationem vel hilaritatem voco». C’è qui qualcosa che non funziona; ce ne accorgeremo.
Essa segue il prevalere di un flusso vitale che dilaga inarrestabile. La gioia è al di là del bene e del male. Si prova davanti al nemico finalmente piegato come davanti alla più dolce fanciulla che viene al nostro appuntamento. Ma indica forse solo la piena espansione del sentimento vitale, condensata nell’attimo come nel momento culminante del coito i cui confini tra piacere e gioia sembrano inesistenti o e il più complesso dei sentimenti quello che stiamo affrontando? C’è un punto che sembra esclusivo della gioia: essa è impartecipabile. Sentimento assolutamente individuale, l’altro lo percepisce quasi come ostile, come se denti aguzzi e artigli trasparissero dietro il tenue velo e la luminosità dei tratti. Nessuno protegge la sua gioia. Ma essa mette tra chi è travolto dal suo raptus e gli altri una barriera insuperabile. Non c’è sentimento più esclusivamente legato a chi lo prova e solo a lui. Impossibile, anche se si volesse, anche se costui lo chiedesse per pietà, farne partecipe chicchessia.
Si potrebbe definire la gioia un piacere senza oggetto. Dove la mancanza di oggetto equivarrebbe alla sua natura astratta. Si prova piacere per qualcosa; ma si prova già per gli stessi motivi? Indubbiamente la gioia non ha oggetto o meglio l’oggetto è la mera occasione affinché nella gioia si goda di se stessi. La gioia, dice Malebranche ne La ricerca della verità, è una conseguenza naturale del fatto che la nostra anima sa di essere nella migliore delle condizioni in cui può trovarsi. È ciò che si voleva dire.
È tipico dei nostri tempi che non si cerchi tanto la gioia ma la vile allegria. Il comico scomporsi del corpo, le mani che si agitano, la faccia spaccata in due da un riso bestiale: questo cerca il nostro contemporaneo. La gioia in effetti non impegna il corpo che per poco, e come se passasse su di esso come un alito e lo scomponesse con dolcezza, con le cure di un’amante. La gioia è l’aleph dei sentimenti. Ve li troveremo tutti. Ma a patto che non indaghiamo oltre.
Nei Mémoires d’outre-tombe Chateaubriand parla di una gioia limitata dallo spavento. La proveremmo addentrandoci in una fitta foresta, camminando sotto i suoi altissimi alberi. Ma può esservi una «gioia spaventata»? O la gioia non conosce limiti ed è un sentimento assoluto che proprio per questo si scambia volentieri per sentimento dell’assoluto? Risponderemmo volentieri di sì. La gioia contiene tutti i sentimenti ma in modo da non esserne intorbidita.
Nella Prisonnière Marcel Proust scrive di «un certo sentimento dell’altitudine connesso alla vita spirituale». Questo carattere lo riconosciamo con sicurezza nella gioia. Essa è un sentimento intriso di spazio; ancor più, un sentimento in cui lo spazio dirige verso un’altezza fisicamente percepibile. Chi riesce a carpire l’istante della gioia riflessa nel corpo di un altro, lo vede come se si innalzasse sotto i propri occhi.
Ma cos’è la gioia? Una qualità, uno stato? «Dov’è la gioia in un uomo che piange – si chiede Stendhal -. Da nessuna parte: essa fu solo uno stato» (Journal, I). Volevamo ben dire. La gioia non è una qualità e il «carattere gioioso» è un’invenzione.
Se la gioia si legasse solo alla soddisfazione di un bisogno, essa sarebbe frequente come l’appagamento o non sarebbe altro. Ma là gioia è un ospite non un abitante fisso del nostro essere. Essa viene ogni tanto e mai quando è attesa.
La gioia è un sentimento di consenso? In essa si accetta il mondo senza dir niente? Oppure il nostro animo può egualmente biasimare l’orrore ed esservi tuttavia presente la gioia? Qui siamo a un punto delicato. Cosa significa la gioia da un punto di vista più generale? Essa non è più di un sentimento individuale. Ma fa di più che accompagnare l’individuo: ne consacra la separazione dalla specie e dal tutto. Nel momento in cui si gioisce, si gioisce di se stessi. La gioia fa piazza pulita di ciò che ci attornia e per un momento noi siamo soli. Ma ciò è qualitativamente diverso dal volgare amore di sé. Gioia di sé, certamente. Ma la gioia di se è gioia di essere ciò che si è. Io gioisco del mio essere, del mio essere così come sono.
Ma qui comincia il lato oscuro di questo sentimento. Non vi sono sentimenti sani. In ogni caso la gioia non è uno di questi. La gioia separa. Al di là di essa v’è il buio, il mondo sulfureo, il mondo del piacere, il mondo dei più. Chi si è elevato alla gioia li lascia al loro destino.

Manlio Sgalambro, Dell’amore, La Sicilia, 18 marzo 1989

Questo strano sentimento segna pesantemente la sorte dell’uomo occidentale. Distoglie l’attenzione che si dovrebbe a sé per dedicarla a un altro. Esclude dall’infinito e dall’ordine della mente. In realtà l’idea dell’amore, o la stima per questo sentimento, è il peso che portiamo sulla nostra intelligenza. Il ricatto della vita. Non subiamo soltanto, ma celebriamo questa passione. Essa sarebbe il migliore retaggio della civiltà. Inaudito.
La monaca portoghese Mariana Alcoforado scrive a chi l’ha sedotta: «Vi ringrazio dal profondo del cuore della disperazione in cui mi avete gettata, e disprezzo la pace in cui vivevo prima di avermi conosciuto… Addio! Amatemi dunque sempre, fatemi soffrire dolori ancora peggiori». Non è dunque nel badare a se stessi, nel costruire all’infinito la propria individualità, nel perfezionare un’opera, l’acme della civiltà, ma nel dare in escandescenze per un altro, misera copia di se stessi! Noi non possiamo contestare questa passione, ma che essa non faccia parte dell’idea di uomo, sì. Cos’è amare? Volere che un dato essere ci sia. Nella massa degli esseri umani eleggerne uno e gettare gli altri nella gehenna. Già questo contraddice l’idea di universalità in cui ci riconosciamo meglio. Amare è già dunque questo delitto. Salvarne uno tra tutti.
Ascoltiamo Ortega: «Amar una cosa es estar empeñado en que exista, non admitir… la posibilidad de un universo donde aquel objeto esté ausente. Pero nótese que esto viene a ser lo mismo que estarle continuamente dando vida… Amar es vivificación, perenne, creación y conservación intencional de lo amado». Nello stesso momento è come se condannassimo gli altri all’inesistenza.
Il piccolo borghese non vede al di là di quell’altro che ha scelto. L’amore è la sua unica virtù; egli se ne intende. Quella di Don Giovanni è l’idea carnale di un amore illimitato, esteso a ogni donna. Casanova che si innamora di tutte le donne, oltrepassa l’avarizia spirituale del piccolo borghese che mette in banca il «tesoro» dei suoi affetti: moglie e figli. Ma è proprio l’elezione, nell’amore, a dare ad esso, nello stesso tempo, la patina dell’atto sublime e la sostanza di ciò che è effettivamente. Anzitutto, come avviene la scelta? In conformità al ruolo prevaricante che l’amore ha assunto, si sogliono scoprirvi motivi profondi. La psicologia dell’eros guazza nel «profondo» o nel vuoto. Invero la superficialità domina sovrana. Un tocco di trucco, il colore dei capelli, un vestito, la curva del naso: tutto ciò è noto.
Intorno all’amore ruotano industrie. Questo bell’atto non ha nel sesso il suo mistero, appreso una volta con mille brividi e la puzza sotto il naso, ma in queste misere cose. Studiate l’arte di vestire, di darvi il trucco, gestite bene la vostra voce e le vostre gambe e voilà. Sotto l’amore si cela il vuoto. Tutte le donne son buone per l’uomo e viceversa. Ma allora, la scelta? Da che si è attratti? O, come dice il poeta, «Warum sich’s liebt und küsst?», «Perché ci si ama e ci si bacia?». Cosa risponde la saggezza?
Chamfort afferma: «Quando un uomo e una donna hanno l’uno per l’altro violenta passione mi sembra sempre che quali che siano gli ostacoli che li separano – un marito, i genitori, eccetera – i due amanti appartengono l’uno all’altra, per Natura, per diritto divino…». Niente del tutto.
Oggi la sostituibilità illimitata dei partner mostra benissimo l’inesistenza di una risposta che oltrepassi la boutique e il coiffeur. Ciò che unisce quei due appartiene all’ordine del futile. Le due grandi potenze d’unione – il sesso e il denaro – sembrano in difficoltà davanti ai vana et futilia. Che vuol dire «ti amo perché sei bello»? Per il tuo naso, per la tua bocca, per le gambe affusolate; o lui, per i tuoi seni, per i tuoi fianchi, o, più sommesso, per il tuo piedino. Il mistero della scelta amorosa si svela in un baleno. In realtà, nell’amore, l’uomo e la donna sono ciò che appaiono.
È tipico di questo sentimento nutrirsi di ninnoli.
Ma la cosa più grave è che nella scelta di uno tutti gli altri siano esclusi. Ciò dice su cosa si basa questo sentimento che non si descrive mai senza lodarlo. In realtà, in esso si apre, alla vista, un pauroso abisso. L’amore contraddice all’universalità su cui si fonda il migliore sentimento dell’altro: la compassione. Ma non c’è scampo. Mentre l’amore dell’uomo è vacuo, l’amore di un uomo è cieco.
Noi ne parliamo come se questo sentimento fosse necessario e avesse sede nella sempiterna natura umana, non in una contingenza insinuatasi in essa come il verme nel frutto. Dalla storia dell’amore apprendiamo tutt’altro. Apprendiamo che esso nacque con l’ideologia cristiana e che può morire.
E se invece vi fosse un Eros, una Venere cosmica? Se la forza infusa alle cose derivasse da questo maligno principio? Resterebbe immutato il disprezzo.
Ciò che sappiamo dal quarto libro del De rerum natura resta, su per giù, l’insuperabile quadro in cui sentimenti e passioni d’amore trovano la loro scienza. E che la Venus vulgivaga, la Venere vagante, possa porre rimedio al male d’amore – un piacere senza dolore, pura voluptas – restituisce la visione dell’atto venereo senza amore come fattispecie. Ci uniremo senza amore: questo ci pare di vedere sbirciando oltre.
Questo sentimento contraddittorio sa dunque di caverna; si intravede la clava. Se lo scopo della castità non è l’esercizio di una vuota virtù, che troverebbe grazia davanti a un Dio ma solo sorriso davanti a un uomo, bensì, com’è stato detto, persegue l’annientamento della specie, allora questo fine può essere più sicuramente raggiunto se affidato al piacere erotico il cui raffinamento sembra oltrepassasse, come inadeguato, il coito di tutti i giorni. S’intende che lo stesso amore è ormai lontano. I bagliori che manda il grembo femminile non evocano più il principio di nascita. La specie ormai vive di incidenti. L’aspetterebbero tristi giorni se una fine intrisa di piacere non fosse a portata di mano.

Manlio Sgalambro, Del leggere, La Sicilia, 11 marzo 1989

«Se non ho i miei libri che faccio?». Questa domanda non nuova ci porta a un modo di esistere che non si può più ritenere attuale. Non si trattava di leggere come se questo fosse un mezzo per formarsi, detestabile uso del libro. No, era solo un modo di esistere. Si leggeva da mane a sera, e talora la notte, con poco riposo frammesso. Tutto un altro mondo si affacciava così ed entrava di prepotenza in quello quotidiano. I libri erano lì, piccoli pacchi inerti che si animavano solo se gettavi loro uno sguardo. Eppure nasceva così un tipo di esistenza, spesso ostacolata, anzitutto dagli affettuosi parenti che temevano il peggio. Le occhiaie facevano pensare a chi sa che vizi e invece si trattava solo di una notte passata in letture.
Quel che fu un modo di essere, oggi è un comportamento: si leggono libri, ecco tutto. Ma non sfiora neppure da lontano che si possa esistere così, solo leggendo. Ma non è il rimpianto che inseguiamo. I teneri richiami di una nostalgia per un tempo beato. Vogliamo solo insistere ancora a descrivere questa esistenza. In essa si esiste, dunque, solo leggendo. Le sdolcinate assicurazioni che leggere educa, che forma seri individui, eccetera, tutto ciò non interessa. Noi vogliamo porre attenzione a chi legge per se stesso. Non si propone fini. Anzi, dove c’è uno scopo, dove si mira a qualcosa, scompare quello che abbiamo chiamato un modo di esistere. Diventa quel leggere meschino che si propone quotidianamente. Eppure il Dies iræ collega al «libro», non fosse altro, persino il giudizio finale: «Onde mundus judicetur». Sappiamo che la domanda «che cosa è un libro?» cammina sulle sacre vie percorse un tempo da queste: che cosa è l’essere? che cosa è conoscere? … Sembra che nel libro si condensi il mondo che così si sfogherebbe mentre si sbadiglia. Si vuole confondere il libro con la terra, si vuole farne l’equivalente del ciclo. Tutto è libro? Verità banale, ove fosse. Oppure solo lusinga. L’esistenza del mondo dipende dall’esistenza del libro? Vanità delle vanità. Colui che esiste per leggere non vi vede che fumo. No, il libro è il letamaio, il luogo che raccoglie i rifiuti della civiltà. Una creatura ingannevole e odiosa. Non vi fate ingannare dal miele che scorre dalla bocca di chi parla di libri. Chi esiste per leggere vi può ben altro. Ma pure così val la pena di esistere solo per leggere un libro, vedere gli immensi orizzonti di una pagina. La terra, il cielo? No, solo un libro. Eppure per esso può esistere una vita. Certo chi cerca altre cose può restare gabbato. Forse è bene che dica e lo giuri: cerco io forse la felicità? no, cerco un libro. L’albero verde della vita non alletta colui che vi si chiude dentro come nel cuore dell’amata.
Cos’è dunque un lettore? Quelli che alzano la mano a sentire questo nome, spesso sono frutto di un inganno, figli del genius malignus. In ogni caso diverso è colui che esiste solo per leggere. Chi esiste per questo può leggere sempre lo stesso libro ed avere realizzato lo stesso la propria essenza.
Quando l’autore parla del lettore come del suo lettore, egli dimentica che questi non è di nessuno. Libero come l’aria lo sguardo del lettore – stiamo parlando s’intende di colui che vive questo atto come modo del suo essere – sorvola come dall’alto i più ostinati picchi e le uggiose pianure e si posa dove il fato gli ordina. Egli, si è detto, non è di nessuno. Davanti a lui, alla sua inafferrabile essenza, quant’è misero l’autore! Anche la creatio ex nihilo fu un atto degenere, si immagini quella che porta all’opus e da qui al libro. Ma chi vive per leggere lo riscatta. Egli è il redentore di questa genia che sta dietro ogni libro e le succhia il sangue che gli ha dato. Cos’è dunque leggere? un atto stranamente passivo, se la contraddizione è concessa. Dell’atto, cioè, non ha il presupposto, il fare sorgere ex novo, come da un bel mattino, ciò che si legge. No, il libro è là! Opaco, duro, inerte; come un sasso. Che l’autore non si scarichi della sua colpa – se fare esistere qualcosa lo è! – aizzando il lettore alla complicità. Il lettore riceve come un’impronta ciò che legge; egli è il suo calco, l’orma sua. Ma la sua natura è semplice come quella di un angelo. È come se non accumulasse quella materia che ogni libro coagula. In ogni caso, presto ne è libero.
«Hypocrite lecteur»: ben detto. Il lettore nasconde la sua faccia dietro il libro. Ogni libro è ancora un velo. Quando il lettore parla di ciò che egli ha letto, si nasconde. Chi è dunque il lettore? Chi l’ha mai saputo! Attraverso la voce che gli prestiamo parla sovente ciò che leggemmo ma chi è: io o un altro? Ogni volta lo stesso lettore è diverso. Quando cadrà dunque la maschera? Mai.
Ma accostiamoci ancora all’autore, questa esistenza ingiustificata. Vi fu un tempo in cui il nome dell’autore soggiacque alle interdizioni di Salviano e Sulpicio Severo. Essi lo misero in guardia contro la vanitas terrestri: del nome proprio. Dare il nome a ciò che si scrive, che arbitrio infatti!? (Ricorderemo dal Convivio: «Non si conceda alcuno di sé medesimo senza necessaria ragione parlare»). Ma dopo allora il trionfale corteo degli autori sfila ininterrotto. Chi scrive un libro uno o tutti? Ancora non si sa cosa rispondere.
Comunque si sa sempre chi è l’autore, il lettore è sempre anonimo. In questo doppio destino si consuma il rapporto e sul mediocre trionfo dell’uno in realtà trionfa l’altro, il lettore silenzioso. È lui che sovrasta sul libro, s’incunea nelle sue fenditure, lo trapassa come uno stiletto veneziano. Di una storia del lettore non si hanno tracce. Al più nomi che evaporano dopo pochi istanti. Solo l’immaginazione ci presta il suo soccorso. Don Chisciotte, Bouvard e Pécuchet: questi i lettori che ci vengono davanti.
Del leggere come modo di esistere si potrebbe parlare a lungo. Seguire la cerimonia con la quale il lettore si insedia nel libro. Seguirne lo sguardo che percorre le pagine, e le soste e il cammino che riprende. Ma esiste ancora questo lettore? Domanda ingenua. C’è sempre uno spazio per i fantasmi.

Manlio Sgalambro, Lo spirito del parlare, La Sicilia, 21 gennaio 1989

Non squietare la pace del pensato, diceva, lì giacciono gli eroi e le verità. Ad essi provennero da dei, dai mondi intellegibili, dal genio. A noi soltanto dalle nostre forze di gente dappoco. Ma valeva di più che arrivassero come saettanti predaci i quali l’abile cacciatore abbatteva che non in seguito a uno sforzo: piegando la schiena e puzzando di sudore.
Bisogna parlare per l’eternità, non per il tempo, continuava. Se però ciò che dici riguarda solo un milionesimo di secondo in miliardi di anni, non c’entri tu, ma la cattiva stella della tua specie. (Che una filosofia non possa esistere se non nella lettera, e quindi come frase, lo dava per scontato il resto è pensierino, diceva. Aggiungeva che nelle loro opere i veri maestri ingannano di proposito e che qualche volta la verità la nascondono in una virgola).
Altri ammirino i marmi, le Muse, ma lui lo esaltava il tramutarsi delle cose in concetti, emozione imparagonabile a quelle del verso e della nota. Sogna una generazione che pratichi il concetto come oggi i fellah praticano il verso, che volga le cose in quello, come altri in suoni. Oh profondità del concetto, echi, sonorità, misteriosi fruscii dell’in sé!
Io non credo, egli diceva, agli amori ricambiati ma alla divina unilateralità. Che mi importa se colui per il quale ho stima ne abbia per me? Il mio amore per lui, la mia amicizia, non lo riguardano, riguardano me solo. Uomini di poca fede diffidano dell’unilateralità e mettono il muso solo perché l’altro non li ricambia, o l’armonia nessuno prestabilì e quindi in quel caso non funzionò. Abbiano dunque quel che meritano – essere amati ogni volta che amano.
Frasi smozzicate, monologhi, discorsi lasciati a metà, sintassi in disfacimento. Pochi sostantivi e incertezza sugli aggettivi. Osservava: aumenta il tipo senile in proporzione alla vecchiaia del mondo. Ad esso non corrisponde maturità d’esperienza e saggezza per soprammercato. Ma rammollimento degli emisferi e incontinenza unitaria: nirvana occidentale. Dopo la volontà di vivere, si domandava, non tocca alla volontà di pensare?
Insegnava: chiederai al tuo discepolo persino la vita (è nel tuo diritto). Ma hai ancora qualcosa di più serio da imporgli: schiavitù del pensiero e obbedienza della mente. Chi è giovane non riesce a tenere la verità senza versarla. Rafforzane anzitutto la sottomissione (a cui la verifica tolse ogni importanza mentre la toglieva alla stessa verità verificandola). Abitualo a tenere la verità con un dito. Poi a sostenerla col solo alito. Solo allora mandalo per la sua strada.
Occorre, diceva, una statica filosofica. (Tornava a pensare immobile il movimento: faceva i suoi studi in proposito). Dogmi, non certezze, continuava. Quelli provengono dal di fuori, risentono dell’aria, delle montagne, del ciclo stellato, queste, dal chiuso di un essere trepidante per la sua sorte. Dogmi, come nelle grandi scuole dove si insegnò rispettando l’abisso tra maestro e discepolo, mentre gli altri li confusero e non si capì più niente. Dogmi, estranei, duri come pietre, su cui non si usa fare domande.
A proposito, si possono distinguere filosofie come divertimento e filosofie didattiche. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, sono le prime che usualmente si insegnano. Mentre le seconde servono da passatempo. Così, per esempio, mentre Il mondo come volontà e rappresentazione serve di solito a divertire, Verità e metodo si insegna e fa invece morire dal ridere.
Pose una volta una domanda maliziosa: in filosofia si può parlare solo se uno parla e l’altro ascolta. Ma chi dei due è il filosofo?
A suo tempo gli fu chiesto il dolce gusto di mordere una pesca, di disperdere lo sguardo su un campo di rossi papaveri, da quando l’Idea ti prese all’amo lo hai dimenticato? Neoplatonico, stoico, epicureo, cartesiano, spinoziano, kantiano, schopenhaueriano: i tuoi sette colori formano però il colore della verità.
Lo prendeva talora una nostalgia di altri tempi. Frasi del tipo «il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me» – rifletteva – rispecchiano fedelmente le condizioni in cui si svolgeva una volta lo scambio dei filosofemi. Il lettore sapeva intuire perché nel ghiaccio dei concetti si aprisse questa specie di sole e la tensione della lettura, così ben guidata, si distendesse, dopo tanto equilibrio, in una emozione. «Il cielo stellato sopra di me» è un grido di dolore, affermava. In effetti il concetto senza emozioni è vuoto.
«Fare dovunque enumerazioni», della regola cartesiana si serviva anzitutto per distinguere le filosofie tra di loro. Di filosofie ve ne sono che includono tutte le altre come di quelle che le escludono una per una. Queste ultime si rinchiudono in se stesse. Si sente il tanfo, la mancanza d’aria? D’accordo, ma badano al loro pensum. L’altro ha sempre torto, esse dicono, altrimenti che significherebbe pensare?
A chi gli diceva «comprendere una filosofia è farla vivere in noi», rispondeva adirato «non ti ascolterò un minuto di più». «In noi», muore.
Non amava le primizie. Il «per la prima volta» gli sembrava osceno. Seguiva una sorta di brummelismo dello spinto. Vestiva idee già indossate.
Il concetto di rinascita attirava il suo astio perché andava contro quel nulla che tutti amerebbero, diceva, se non fosse che assume la forma della morte. La morte gli sembrava infatti del tutto diversa dal nulla, misera e cenciosa similitudine di esso. Siccome nessuno si trova a suo agio, se non fosse per essa, tutto sarebbe risolto. Questo, aggiungeva, è invece quanto ci spetta come compenso alla nostra immensa sciagura di specie: decadere con dignità. Guai ai fautori di rinascite; agli sguaiati cantori di nuove aurore. Decadiamo serenamente.
(Frattanto egli pensa ai suoi ultimi istanti… Della stupefacente lucidità non resterà che qualche poncif e gli occhi che videro cose mai viste ricadranno su se stessi. Si chiude, amico. Qualis philosophus pereo!).

Manlio Sgalambro, Riflessioni di un tale, La Sicilia, 7 gennaio 1989

Si era tenuto lontano per anni da ogni parola che trascendesse le cose di cui si occupava quotidianamente. La parola, così trattenuta, si arricchiva. Sentiva anche nella sua mente formarsi corone di parole intrecciate come viticci. Sentiva che poi sarebbero sgorgate scroscianti come cascate d’acqua, e pure come i deserti al tramonto. Si inibì il più possibile le idee generali. La stessa idea di cosa, l’idea di intelletto. Si sforzava di pensare come un merciaio ambulante. Non spendeva più idee di un impiegato al catasto, più emozioni di un calzolaio. Ciò che non spese fruttò bene. In quegli anni mise da parte una grande fortuna.
Con tutto ciò egli non si accresceva. Né si può dire che gli insegnassero qualcosa le letture, gli sembrava anzi che esse gliela avessero sottratto. La conoscenza però traboccava dalla sua natura. Ubbidiva, nei suoi motivi più segreti, a una sorta di vizio, e in effetti gli sembrava incredibile che si fosse potuta mai congiungere alla virtù.
Gli sembrava dunque la conoscenza la sentina di tutti i vizi, ma non poteva farne a meno. Incastrarvi la specie per quanto stava in lui non l’avrebbe risparmiata. Notava nella conoscenza un sottile, impalpabile odio, ma di chi o di che cosa non gli era chiaro. L’incorruttibilità della conoscenza gli sembrava una virtù paurosa, ma l’unica. Riduceva (o esaltava?) la conoscenza a una dissipazione, a una depravazione morale. Era come se tutti i diavoli dell’inferno si scatenassero. (Io dico: tutti quelli che conoscono sono delinquenti, era il suo giudizio). Odiava i compassionevoli della conoscenza. (È la conoscenza che fonde i metalli, non il lavoro, diceva ad altri).
Sapeva tutto sulla segretezza e su ciò che in essa si nasconde (e come la stessa anima fosse stata all’inizio un segreto anch’essa) Nel segreto ciò che si custodisce gelosamente non e solo qualcosa, notava, ma se stessi. Esso determina lo spazio proprio come ciò che non si dà assolutamente ad altri. Il segreto è ciò che rimane dopo che l’anima, l’intima custode del proprio Sé, fugge via. Esso declassa ad apparenza ciò che si mostra ovunque, senza sforzo, questo alcunché non ha sostanza. Il confidarlo fa parte del segreto, quando esso viene affidato a qualcuno con estremo coraggio. (Diverso è l’enigma che rivelato si dissolve). Il segreto non potrebbe infatti esistere se non vi fosse un testimone. Quello che si conserva in sé non è sottratto ma adesca ugualmente. Oggi il segreto è tramontato L’individuo non ha nulla da nascondere. O forse è cambiato il luogo a cui egli ne affida la custodia. Spesso il segreto e nelle stesse parole che lo nascondono come quella lettera sul tavolo.
Gli sembrava che la specie non avesse più istinti e non si sapesse chi fosse più saggio, se essa o l’individuo. Ma in realtà se essa aveva perso la sua proverbiale saggezza, che era consunta nel fatto che durava ancora, l’individuo sembrava essere più saggio solo perché non voleva durare più. Così l’individuo e la specie non si incontravano. Ma non era stato questo l’equilibrio tra entrambi, si chiedeva? Non era questo che li aveva fatto perpetuare finora? In realtà se lo scopo era la fine della specie, individuo e specie dovevano entrare in un conflitto risolutivo. Ma come, se essa si era perpetuata in virtù di questo? Ma perché egli riteneva che la specie dovesse a tutti ì costi scomparire? Qui non riusciva a vedere sempre chiaro. Questo lo faceva stare male.
Egli vedeva la sterilità a portata di mano, eppure individuo e specie sembrava ogni volta che complottassero, che ci fosse un accordo profondo e maligno. Il risultato era lo stesso da migliaia di anni. Solo c’era un fatto la vera esperienza del coito era recente (Eiaculatori impazienti, nelle loro mani era stata ed era ancora la specie. Poteva dunque stare tranquilla. Fino a quando ciò sarebbe durato, sarebbe durata anch’essa). Ma vedeva un coito senza più sesso, capace di dare ancora più brividi, di infiammare la razza e scordarsi la specie. Dove lo sperma si sublimava in eros puro. Così lo stesso coito, il suo stesso piacere, prolungato all’infinito sarebbe stato lo stesso mezzo della sua fine.
Che un individuo divenga «uomo», questa è civiltà. Civiltà, dunque, è restringersi dentro una specie, vedere tutto coi suoi occhi e fare tutto con i suoi artigli. Rifletteva sulla civiltà con la noncuranza di uno che le doveva tutto. Il trauma susseguente alla nascita lo individuava in quello della civiltà al cui ordine segreto ciascuno deve conformarsi. Gli abitanti della civiltà, proseguiva, procedono come i colonizzatori. I soggetti di questa colonizzazione in grande stile vengono alfabetizzati, adattati, socializzati, occidentalizzati e da bambini che giocano stupidamente vengono riversati sul mercato adulti capaci di reddito e di malvagità. Aggiungeva il compiacimento di chi non ha che da scegliere tra belve e tra queste eleggeva la bestia bianca. Questa bestia, errabonda nella città mondiale in cerca dell’altro, la preda più agognata, questo è l’uomo civilizzato, in continuo «movimento». Di contro all’uomo che sta, fulminato dalla verità al suo posto e al quale tutto ruota attorno mentre cade a pezzi.
Ambiva, infatti, a uno stato senza progressi, ad una specie di simultaneità in cui tutto fosse dato come in una estensione. Percorrerla sarebbe come passare attraverso le unità di un numero. È vero che il tre è uguale a uno più uno più uno? O è un’unica sostanza? Optava per quest’ultima ipotesi. La difficoltà di concepire il varco tra sostanze diverse non e maggiore che di concepirne sin dall’inizio l’unità. Come, attraverso una serie di stasi, si può arrivare al movimento? Ma come attraverso una serie di movimenti si può concepire la stasi? Problemi che una volta erano d’obbligo per una intelligenza. Provava una struggente nostalgia. Adorava quella intelligenza sostanzializzante, come si usava, che tramutava in cosa ogni più aereo moto. E comparivano, a un cenno, dei, enti e cicli. Cristallo erano pure le idee: materia delicatissima. Si percepivano. Ci si fermava sulla solidità di una cosa che variava da un estremo a un altro. O mondo delle qualità! Sospirato mondo, sottile, spesso, lieve, pesante e anche i suoni erano cose e l’anima vibrava come un’arpa! Archita la misurava. Ovvero, nel latino di Claudiano Mamerto, «anima inditur corpon per numerum» era attraverso il numero che l’anima si univa al corpo.
O stasi, ancor più se tutto è opinione, in ogni caso se è verità, perché non torni ad attrarre cupide intelligenze che sdegnino l’ignoto, amabile ai più, o fermi il retto e il giusto nel marmo, oppure sostanza ridiventi il bene, immobile meta di noi tutti, frecce scagliate da un arco non si sa dove?
La stanchezza, l’invadenza e, dalla consueta freddezza, balenavano a tratti sentimenti.

Manlio Sgalambro, Accostamento allo spirito, La Sicilia, 31 dicembre 1988

Perché non c’erano luoghi per pensare? Li immaginava di marmo pario, non a forma di tempio, ma come corridoi lunghissimi. Sandali intessuti di finissimi fili d’oro e d’argento per percorrerli. Ancora un’altra diversità dal tempio. Ciascun corridoio era fatto per uno soltanto. Il pensiero non si unisce alle cose che con circospette manovre, diceva. Gli sembrava in effetti che nessuno pensasse o solo qualcuno. L’affermazione con cui si scontrò molto più tardi, secondo la quale tutti pensano, lo lasciò incredulo. Che il pensiero fosse l’attributo più naturale dell’uomo lo reputava semplicemente puerile: la specie si osannava, ecco tutto.
Stimava i sentimenti, le piccole mani della mente. Ma era guardingo. L’inclinazione per l’altro gli sembrava detestabile. Egli vi scorgeva la specie in agguato. Riuscire a pensare solo a se stesso gli parve a tratti un compito immane. Ci sarebbe mai riuscito?
Diceva di avere solo doveri filosofici. Non ci sono né padri né madri, né figli né fratelli, egli aggiungeva. Ma egli voleva dire: cancellare queste distinzioni, disfatte queste ragnatele, burlatevi dei vecchi nomi. Altri nomi, altra vita. Si esaltava.
Un sapere non nasce dall’idea che si esista ma che esista qualcosa d’altro. Si preparava comunque a qualcosa di diverso da se stesso. Perciò gli piaceva misconoscersi.
Aspirava ad annullare il residuo di azione in lui agendo sempre allo stesso modo. Scongiurava così il margine di libertà che nelle cose dello spirito a stento sopportava. Lo dilettava la monotonia, il ripetersi degli identici atti. L’automaticità gli garantiva gli spazi necessari al pensiero e nello stesso tempo l’immoto a lui caro. Gli sembrava di avere raggiunto, in ceni casi, l’eternità. Aveva appreso a riconoscere una filosofia dalla dolce follia delle sue conclusioni. (Deplorava però l’infernale suggestione del termine “io”). Sotto la guida delle beatissime Enneadi ritenne che uno solo, il viaggio, fosse l’unico tema, ma che l’andata e il ritorno fossero apparenti e in realtà nessuno si muovesse. (Questo viaggio, amico, e il tuo viaggio, non sono mai avvenuti).
Soleva dire: una filosofia che non fa dimenticare tutte le altre non vale niente. La caducità di una filosofia, aggiungeva, non è che il tacito assenso dato alla sua morte.
Seguire la via. Così imponeva a se stesso. A chi gli chiedeva cosa si doveva fare egli dava la stessa risposta: seguire la via. Come se ciascuno vedesse ciò che vedeva lui ed essa fosse una linea magari sottilissima ma netta e tracciata. Poiché però nessuno la vedeva, non sembrava nemmeno che camminasse. Ma egli serviva lo spirito invisibile, lo spirito della filosofia. Ad essa s’era dato da giovane. Man mano erano cresciuti in lui la superbia e il disprezzo e la necessaria crudeltà. A misura che i suoi nervi si acuivano venivano come tirati da mille fili in altrettante direzioni e ciò che egli diceva era puro dolore. Ma la sua natura di filosofo non si rivelava solo da questo ma dal fatto che egli sapesse ormai che conoscere è infliggere sofferenza. Solo questa è vera conoscenza, quella forma di chiaroveggenza portata al male, senza la quale il filosofo non è che un insignificante letterato. Chiaroveggenza, aveva finalmente trovato il termine per esprimere l’idea; qualcosa di cui non era dunque responsabile, una trance, un chiarore improvviso.
Consigliava: siate tutto e sparite. Astenetevi dalla commedia. Fate della vostra grandezza solo una misura per i vostri occhi. Approfondite la vostra mente solo per guardare un fiore.
Curiosa superstizione dei suoi tempi: l’uomo è ciò che legge. Chi pensa, riteneva invece, poteva avere tutte le religioni ma non questa. Si tenne più tardi lontano da questa degenerazione insulsa ma aveva tanto peccato anche lui… Per espiare immaginò che pensare fosse guardare le stelle…
Alla sua infanzia non riconosceva diritti. Non lo turbava questa impermeabilità al ricordo del quale oggi invece si nutrono tutti. A causa di questa egli viveva in un certo stato di immaterialità. Approfondire se stesso. Non mutava niente alle proprie disposizioni. Perfezionare i propri difetti, farne dei capolavori: ciò gli sembrò a suo tempo decisivo per maturare. Fare passare la verità attraverso se stesso senza perderne un briciolo. Il sé, la propria identità, gli parevano più indicati dell’”io”. Si trattava di formarsi. Ciò non implicava conoscersi, voluttà che egli non perseguiva. Ma adattarsi allo scopo; fare di sé un giunco capace di flettersi sino a raggiungerlo. Educare i propri occhi! Osservare gli parve essenziale. Esso richiedeva uno sdoppiamento costante. Infine, nessuno dei suoi atti poté più essere semplice. Egli spiava.
Il mondo era davanti a lui, lo invadeva, lo schiacciava. Ne sperimentava il peso come se l’avesse addosso. E queste due cose si congiungevano. Sembravano fondersi, in una oppressione ancora maggiore, con la sensazione del cielo come se esso non fosse trasparente e aereo, ma una caligine opaca ed azzurrina nello stesso tempo, opprimente e irrespirabile come il vapore che si innalza dalle paludi.
Sentiva l’aspro suono del concetto e gli echi evocati e quella melodia che i chierici riconoscono solo alle stelle. Sotto la grigia apparenza ne coglieva i toni delicati, la sua capacità di esprimere che gli sembrava superasse ogni altra armonia. La Scienza della logica di Hegel gli sembrò un capolavoro di suoni, la più ardita musica. Egli l’ascoltava.
Occuparsi degli uomini gli dava fastidio. Ma anche delle, loro opere finché queste ancora «calde», vicinissime al loro autore, aderenti a lui come la pelle. Occorre attendere che gli uni e le altre divengano cose, spiegava. Che l’aspro odore di vita si attenui.
Della filosofia infine diceva: serva se stessa. Questo sia il suo motto. Il segno araldico, la sua nobiltà. Né lo Stato, né l uomo, né gli dei inferi, né i superni, neppure la verità.

Manlio Sgalambro, Le tappe della vita, La Sicilia, 24 dicembre 1988

Osservare i suoi simili lo dilettava. Poiché un altro lo avrebbe osservato a sua volta, non aveva scrupoli. Praticava una freddezza da uccello. Il suo sguardo calava sull’altro dall’alto e lo prendeva in trappola. Si formava m lui una conoscenza dell’uomo: una sicurezza da conquistatore e una psicologia da serpente. Intendeva trarre tutto il possibile dallo sguardo. Qualcuno lo avrebbe visto morire. Ciò gli rendeva lecita qualunque cosa.
Amava, come il signor Mabeuf, il suo Laerzio (ma era da quattro soldi). Dopo veniva l’Historia critica Philosophiæ del Brucker. Entrambi lo iniziarono alla filosofia, al suo genere. Non avrebbe potuto avere maestri migliori perché lo introducevano a essa, Io conducevano fuori. Praticò insomma gli stessi maestri di Schopenhauer e gli stessi disprezzi: intendeva provocare un miracolo?
Costruiva poliedri di idee esatte o entia rationis per adescare. (Anni dopo lesse su di essi incuriosito nella Kategorienlehre di Brentano le pagine cinquantanovesima e seguenti). Costruiva trappole. Intorbidiva purezze. Osava. Barbara, Darii, Celarent…: suoni che gli piacevano.
Era arrivato a pensare senza un errore. Dominava i suoi mezzi. Controllava le minime cause come un capitano il suo battello: misurava. Contava i giorni impiegati per disprezzare meglio il tempo. Sentiva così e sperimentava di essere eterno, dedicava solo alcune ore a vivere. Le tristi infanzie lo annoiavano. Ah! queste infelicità tutte identiche; egli rifiutava di averne. Simulava l’atto, che non ha passato. Non accumulava materia: restava semplice. Viveva alcune ore al giorno. O si assorbiva in lavori: molava i suoi vetri. Qualunque cosa facesse la viveva attraverso la mente. Si assaporava. Riusciva a staccare il suo corpo di netto. Con esso divideva, egli diceva, solo la stanza. Arrivò ad automatizzare i suoi atti, a ridurli a gesti. Compassionava i profeti che si davano da fare contro la meccanicità (ma di più coloro che sarebbero vissuti nell’età da loro sognata).
Una volta immaginò di essere uno schiavo. Considerò comandi anche le leggi fisiche: ubbidiva agli ordini di un padrone. Biasimò Epitteto di avere pensato come un qualunque uomo libero. Non come lo schiavo che fu. Ritenne che così avesse mancata una più grande occasione. Immaginò dunque di essere uno schiavo, ma non si vide diverso. Sognava caso mai il perfetto automa, il corpo che ampliava il suo dominio, il meccanico che si estendeva. Assegnava la mente all’istante; al tempo congiungeva il corpo, entrambi cari al secolare.
Perdeva tempo. S’intratteneva su una riflessione; la ripeteva innumerevoli volte. Notava che essa non era mai la stessa e tornava a ripeterla fino a quando l’identità raggiunta lo soddisfacesse. Riteneva comunque che ogni risultato che valesse fosse uno stato. Amava tanto l’immobilità! Diffidava della vivacità che gli sembrava avversa alle condizioni senza le quali la mente abdica. L’immobilità, infatti, gli sembrava l’atto supremo della mente. Dalla sua propensione a servire cavava spunti per un metodo. Le stanze da ordinare, le cose da riporre, erano atti di classificazione. Ripassava la logica dal vivo.
L’idea di servire lo seduceva. Poteva così conservare vecchie abitudini. L’educazione ricevuta; se no sprecata, così gli era utile. Solamente le mani servili valgono da sole una coscienza morale. Morale è quella azione che va fatta a sangue freddo? Egli andava oltre: morale è ciò che va fatto con la punta delle dita.
Con la morte il corpo si libera dell’anima, diceva. Questa convinzione la raggiunse presto, porta infatti le tenere tracce dell’adolescenza, le graziose audacie che non si sa se scalfiscono solo il linguaggio o le cose stesse.
Non c’è sapere se non definitivo, asseriva. Un filosofo che cerca gli appariva una figura ridicola di cui più tardi avrebbe svelato il mistero. Occorreva solo allestire la trappola: un giorno un sapere vi sarebbe caduto. Dedurre se stesso, farsi nascere con le proprie mani. Fare passaggi accurati. Come in un arpeggio. Discendere e risalire. Odiava il dialogo. Questa mostruosa moltiplicazione di sé stessi. Amava l’intelligenza una, si educava ad essere il solo. Si deduceva; tramutava ciò che era in idea. Si vedeva in trasparenza. Si, si dava la vita con le proprie mani…
Gli piacevano questi versi: «Lloraba la niña / (y tenía razón) / la prolija ausencia / de su ingrato amor. / Dejóla tan niña, / que apenas creo yo / que tenía los años / que ha que la dejó». Ma perché? Da quali squallide contrade ha origini il piacere verbale? Perché amava con tutto l’intelletto i versi di Corneille ma non resisteva a questi di Gongora? Sospettò di ogni piacere estortogli.
… Qualcosa strisciava nella sua testa che doveva catturare a ogni costo. Ciò lo sorprendeva. Gli sembrava di correre come se il corpo non avesse peso e ogni cosa lo seguisse pure essa incorporea. Sapeva queste sensazioni a memoria e se ne stava in attesa guardingo. Bisognava fare distinzioni accurate, gli risuonava alle orecchie. Così salvava il suo pensiero. La sua attendibilità davanti a se stesso. L’onore di chi pensa. Egli adorava solo l’idea concepita senza peccato, il dono caduto da chi sa dove: il pensiero improvviso.
Le discussioni sull’ordine biologico lo appassionavano poco. Che come estensione egli facesse parte dello stesso ordine dei triangoli lo entusiasmava di più che di far parte dell’ordine animale. Lo sforzo per pensare quest’ultimo lo deprimeva. Egli plaudiva alla sua essenza geometrica. Gustava i suoi lati.
Dedicò alcuni anni allo studio delle qualità. «Il cielo che si abbuia», «gli angoli scuri di una casa», «il riflesso in un rigagnolo»: qualità del momento. Ma dosi difficili da cogliere. Non arrivò mai invece a distinguere azioni umane. Una pietra che rotola, il rumore della risacca, un raggio di sole o un moto di pietà: gli sembravano, tutti, azioni cosmiche.
L’idea che tutti i leoni sono un leone solo e tutti gli uomini un solo uomo diede al suo pensiero quel che lo rese perfetto. «Basterebbe infatti un solo uomo per tutti gli uomini», si trova scritto nella quinta Enneade. È tradizione che chiunque lo legga individui quell’uno in se stesso. Egli non fu da meno.

Manlio Sgalambro, Della politica come compassione, La Sicilia, 9 dicembre 1988

Per chi non ha coscienza civile (o solo insignificanti abitudini) essere grati alla società sarebbe come se si fosse grati al mondo che ci tiene stretti nelle sue grinfie. Insomma, nulla dobbiamo alla società come nulla dobbiamo al mondo. Poco ci importa degli altri ai quali lasciamo volentieri che si interessino gli altri. Non è in questo che consiste l’ethos che ci chiama o quello che la misteriosa parola bene circoscrive a meraviglia. Esso oltrepassa noi come chiunque. È uno dei qualsiasi eventi del cosmo – l’alitare del vento, il rotolare di una pietra, la sabbia che si inzuppa d’acqua marina. Non esiste bene infatti che non passi attraverso il cosmo e vi si perda come uno dei suoi infiniti moti.
Come specie apparteniamo al cosmo, come individui a un altro individuo. Prestiamo ascolto alle parole di Eloisa ad Abelardo: «Domino specialiter, sua singulariter». Chiediamoci dunque dove siamo stati immessi nascendo, dove siamo costretti a vivere. Le tue recenti riflessioni, caro amico, (ho sottomano i tuoi ultimi libri: Pietro Barcellona, L’individualismo proprietario, nonché il più recente, L’egoismo maturo e la follia del capitale) ripropongono ancora una volta il problema. Ma il concetto di vita, dopo lo spreco che se n’è fatto, è ancora usabile? Appropriato comunque resta ciò che ne disse Horkheimer: «La vita generale nasce ciecamente, casualmente e iniquamente dalla caotica attività di individui, industrie, Stati. Questa irrazionalità si esprime nel dolore della maggior parte degli uomini». Che la critica della società possa essere perciò dispensata da una critica della vita si rivela illusorio. Senza un giudizio sulla vita non c’è teoria sociale. L’orribile e cieco riprodursi della società rimanda l’immagine di quella natura che la natura ha, da tempo, cessato di essere. Nella società si solennizza il distacco dal cosmo, l’atto terribile con il quale la specie si separa dal tutto di cui ora avverte la paura. Questo iato si colloca in ogni punto della società, nelle sue viscere, nell’estremo nord di essa. Al di sotto v’è un sussulto che non si placa. Chi si aspetta «pace» dalla società resta beffato.
Accenti di tenerezza per l’individuo, per la sua grama sorte, che la società, oltre l’opaco universo, sembra anch’essa evocare, sono presenti, lo so, nella tua riflessione politica dove quest’ultima diventa partecipazione alla sorte comune. Mitleid nel senso schopenhaueriano: compassione. La tua riflessione appare tormentata dal concetto di libertà, un asylum ignorantiæ come tu sai bene. In altri termini, tu ti opponi alla insignificanza dell’individuo pur sapendo che egli non avrà mai uno straccio di significato. Che egli è superfluo davanti alla società come lo è davanti all’universo. Nacque, visse e morì. Cos’altro mai? Ma cosa ti dà allora il diritto di prospettare una sorte diversa? La società dovrebbe salvarci dall’universo che ci ingoia. Ma cosa ci salva dalla società? Ricordi certo la ingloriosa asserzione: nella comprensione dello stato di cose esistenti è inclusa la negazione di esso. Qui il passaggio a un metodo, che dovrebbe peraltro essere l’espressione della sofferenza, avviene al contrario nella maniera più indolore possibile.
Tutto conclude nella saggezza che ogni cosa che nasce deve perire. Il che è esatto, ma moriamo prima noi. La politica ci inganna per essenza, dunque. La promessa, «una società degna dell’uomo», si beffa da sé. Quale società potrebbe essere degna di quest’uomo, quale società egli merita, se non quella in cui è? La politica è la metafisica pour la canaille. Ma c’è in te un dolore per uomo che mi sorprende.
Abbiamo detto: la politica come compassione. In un’epoca di freddezza lo sguardo politico, rivolto a questi individui gettati nella società come in un ennesimo inganno, diventa compassione. Se ogni teoria sociale è diventata ridicola ciò ha la sua spiegazione non nell’adattamento allo status quo, ma addirittura nell’adattamento al mondo che la critica sociale ha mascherato per lungo tempo. In questo senso essa è illusoria più di quello che ne sarebbe l’oggetto. Solo gli scribacchini si occupano ancora di critica sociale. Essa continua solo perché altrimenti diverrebbe obbligatorio chiedersi se si può ancora vivere. E ciò in generale. Per questi uomini, gettati in un universo che esige puntualmente la loro morte, «società» dovrebbe essere, nel suo limite estremo, ciò che li accomuna in nome del comune destino. Da essa non ci si aspetta un futuro ma che, qui e ora, ciascuno guardi l’altro con commiserazione.
I sentimenti sociali – ne converrai – mostrano ormai il loro volto. Si svelano per quello che sono. La solidarietà ha bisogno di quella stessa distanza che dovrebbe annullare e si trova alla fine al punto di prima. Non ci può essere solidarietà senza ignoranza di ciò che è l’altro effettivamente; al di là di quella sofferenza generica con cui ci si accoppia come si accoppiano i cani. Sacrificarsi per l’altro ha sempre trovato una eco immediata nei nobili cuori. Ma chi è quest’altro? Ogni volta che si è visto bene in faccia sono cadute le mani. Non guardiamolo allora. Non vogliamo vederlo in volto. Per questo ci rivolgiamo alla spontaneità o al dovere. Essi non chiedono i conti e partono alla cieca. Del resto la morale ha sempre diffidato dell’uomo. Quale più maestoso esempio di diffidenza della Critica della ragione pratica? Il concetto di umanità non ci inganni. Essa comprenderebbe in uno gli uomini che furono e quelli che saranno e in noi vivrebbero gli uni come nel futuro vivremmo noi. Salveremmo persino le nostre budella, come volevano i Maccabei. «Sentiamo» invece che non c’è futuro. C’è solo un presente totale. Non voglio dirti altro, amico mio. Le linee di questa politica della compassione che ho intravisto mi sembrano ispirate. Questo immoto, rapido guizzo che proviene da chi sa dove e che ci unisce per un momento – ci basti.

Manlio Sgalambro, Il mistero del filosofo, La Sicilia, 4 dicembre 1988

A Gesualdo Bufalino

Il mistero del filosofo è tale che un numero incredibilmente piccolo di individui lo conosce. Egli è pacifico, con l’aria di un conciapelli in vacanza – per via della duplicità delle sostanze – eppure i segreti del mondo passano per le sue mani. In effetti egli non sa più di quello che sanno gli altri, ma lo sa. Sempre per via della duplicità delle sostanze, con una è installato solidamente nella condizione con l’altra vede enti ed essenze, sogna tigri e lotte di ghepardi, regressi e momenti cruciali, istanti e punti nello spazio. Tecnico e artista della filosofia, non può rinunciare a nessuna delle due cose.
La filosofia è la carta su cui essa è scritta? A maggiore ragione egli richiederà il possesso della tecnica per maneggiarne i concetti e l’arte per farne sentire i suoni. Il filosofo non incoraggia alla verità. Sdegna quegli intelletti che si spingono sino a un poema, mugolando di piacere, ma non sanno sillabare Apparenza e realtà. Essi ne ignorano i turbamenti. Ma questa ignoranza sembra al filosofo ubbidire a un disegno intessuto appositamente per perderli. Nei suoi incontri egli prende vie traverse, lontane dalla verità. Egli sa che da qui alla verità c’è un passo, ma impegna gli altri in percorsi estenuanti, in mille giri su se stessi perché cadano lungo la strada, e alla fine, chi arriva, sia sempre al punto da cui è partito e ricominci daccapo. Gli sembra che proprio la facilità della verità richieda procedimenti difficili, metodi di verifica convulsi, prove laboriose, vite sacrificate.
La filosofia deve cominciare con la pratica e finire con la teoria, egli insegna. Non secondo l’uso invalso. Porsi dapprima i problemi della specie sino a nausearsene e quindi contemplare – con durezza. Per la sua avversione ad una visione aspramente teorica, cioè sovrana ed indipendente, Kant non è affatto da lodare, egli commenta.
Ad un tratto sopravviene la naturalis propensio e dà luogo a un uso farneticante della ragione. La morale è soltanto una macchia nella limpidezza del fato, nota invece il filosofo. La pratica, solo una debolezza della teoria. «Io sono per natura un ricercatore – legge in Kant – un esploratore. Ho sete di sapere e provo l’arida irrequietezza di spingermi sempre più oltre. Vi fu un tempo, in cui credetti che tutto questo potesse formare il vanto dell’umanità e disprezzavo il volgo, che non sa nulla. Rousseau mi ha messo sulla buona via. Questo abbagliante privilegio ora scompare; imparo a onorare gli uomini e mi crederei molto al di sotto di un operaio volgare, se non credessi che questa considerazione può dare modo a tutti di stabilire i diritti dell’umanità».
No, il filosofo non lo loderà per questi pensieri. Né per questi altri loderà Goethe: «Oh, quanto amore per questa classe di uomini che si dica bassa… sono tornato a sentire. In essa si trovano riunite tutte le virtù, sobrietà, sano criterio, fedeltà, innocenza, tolleranza…». Era fatale che da questi incroci ne uscisse non la tanto vantata “critica” ma una volgare apologia della pratica, questa virtù da mandriani.
Non amo così tanto gli spiriti liberi quanto quelli legati dice il filosofo. L’uomo “libero” lo aduggia. Dal suo diario di conoscitore trae vecchie impressioni. La rasano di Giovanni che sfiora appena il piedino di Cordelia farebbe trionfare sul possesso del corpo quello dell’anima che subentrò, con le finesses cristiane, alla schiavitù. Il vero piacere, quello di essere padroni di un corpo, si è spento con essa, che si crede finita. I nostri simili confidano, osserva il filosofo, che non ci siano più schiavi da liberare mentre ogni loro rapporto è in realtà schiavitù dissimulata. Questa schiavitù invisibile la vedranno un giorno tutta di colpo – egli aggiunge – e torneranno all’altra che prese il corpo a staffilate ma lasciò l’anima libera e pulita.
Cose profondamente, sinceramente sentite non si addicono al filosofo. Egli agisce in uno spazio in cui la sincerità non lo segue.
La sincerità mostra tutta l’angustia dell’uomo. La riflessione oltrepassa ciò che un individuo può sciorinare e se lo porta con sé chi sa dove. Un individuo “sincero” dirà solo ciò che “sente”, misero lui. Serve, cioè, la sua bramosia di mettersi a nudo. Di fare vedere le sue cosine. La riflessione invece scioglie gli ormeggi e vola e il filosofo è tutto fuorché franco e leale.
Il filosofo sente l’ira invaderlo ma la trasforma in oggetto di conoscenza. Essa dura affinché egli la esamini da tutti i lati. Così essa continua ma ormai non mira a nessuno quanto a persistere per potere essere studiata. Il suo oggetto è ormai solo un’occasione per uno stato d’animo che richiede attenzione per così dire spassionata. Essa dura dunque il tempo necessario a essere conosciuta. Gli sembra che questo sia il retto uso dell’ira. Anche la libidine altera speso il suo stato. Il filosofo avverte questo bruciante calore avvampargli le membra, ma anche qui la conoscenza prevale.’ Sembra che egli la provochi per soddisfare una qualche più oscura passione. Sfida i suoi sensi per osservare le mosse, per carpirne il segreto. Dà in pasto la passione alla conoscenza.
Così le passioni sembrano asservite, ma in realtà egli finisce per esaltarle perché possa corrispondervi una conoscenza più intensa. Risulta evidente la perversione del filosofo. Alla fine egli non sa se è conoscenza o qualcos’altro. Ma sa l’impossibilità di districarsi. Perversione si può chiamare la smodatezza nel conoscere che lo spinge; questa incapacità di sottrarsi al vizio, la frenesia che lo fa persistere negli stati d’animo anche più spiacevoli per ricavarne ancora una sensazione di conoscenza.
Solo dopo anni il filosofo capisce che non si “perviene” alla conoscenza e la vanità dei suoi sforzi, ma che essa è il proprio destino. (Rimprovera a Descartes il termine “innato” non rendendo esso qual che di cupo e fatale c’è in fondo a ogni “idea”). Conoscerai ciò a cui sei destinato, egli dice. Sebbene lo ritenga strano, da questa oscura radice zampillano inenarrabili chiarezze. Ma poiché egli non è che un elisabettiano – quindi meno di un moderno – è ancora preda di astri. Tu non hai che una sola conoscenza: non sprecarla, insegna. Conosci dal tuo posto, continua. Inutile sognare altre condizioni o la migliore di tutte. Conosci dal tuo posto. Un colpo è la conoscenza e un altro è il risultato. Ci sarà un posto migliore – ma questo è il tuo.

Manlio Sgalambro, Immagine cosmica, La Sicilia, 5 novembre 1988

L’estinguersi del sole, la distruzione finale della terra, la fine dei mondi, «Umstürzungen und Ruinen», «sconvolgimenti e rovine»: per chi voglia sentire da questo orecchio e non la solita campana, Kant è il filosofo della morte del sistema solare. Per lo più è rimasta incompresa la sua posizione dagli studi iniziali sulla distruzione della terra agli accenni sulla fine del mondo nella tarda Das Ende aller Dinge, La fine di tutte le cose (1794). Sia che la terra finisca per l’ostacolo opposto dalle maree alla rotazione terrestre, rallentandola sino a fermarla, o che invecchi e muoia («alt zu werden und zu ersterben») per il progressivo esaurimento (Ermattung) della forza stessa (Weltgeist), il problema si colloca in quello della fine del sistema solare i cui rintocchi si sentono nella grande Storia generale della natura e teoria del cielo. L’apparente assenza di tutto ciò dalla Critica della ragione pura va contro di essa.
In realtà la fine del sistema solare è presa nel giuoco della duplicità teoretico-pratica della ragione e viene smistata a una grande etica futura che tratterebbe solo di essa. Il problema, considerato da Kant nella sua qualità di scienziato (Naturforscher), non trova invece posto nella fondazione filosofica della fisica, nella Critica della ragione pura, perché ne contraddice il presupposto, la conservazione della «forza» contro cui il risultato della sua ricerca fisica un tempo testimoniò. Ci aspetteremmo che a questo punto, come per l’idea di mondo, Kant trattasse l’idea della fine del mondo nella Dialettica trascendentale, ma essa è esclusa a priori dal novero delle idee nel senso di questa.
Nella sospensione critica del dibattito tra tesi e antitesi, l’intervento risolutore dell’interesse architettonico richiede espressamente un’origine non una fine. Così ingloriosamente si chiude la Critica della ragione pura. Mentre la Teoria del cielo, almeno idealmente, si congeda più degnamente con la morte del sistema solare. Tuttavia è lecito pensare che se la fine del mondo non entra nella Dialettica trascendentale è perché essa non è una semplice idea alla cui stregua quindi Kant non la considera.
Nel grandioso avvio alla seconda parte della sua opera principale, Il mondo come volontà e rappresentazione, il sistema solare è fatto intravedere da Schopenhauer come il vero «mondo» su cui un ammuffito rivestimento ha prodotto esseri viventi e conoscenti. Ma tutto ciò, come dice subito l’avvertenza, è da liquidare in quanto empirico, perché l’esistenza del sistema solare «per quanto immensa e grandiosa possa essere, pure dipende da un unico sottilissimo filo: e questo è la temporanea coscienza, nella quale esso esiste». Ciò nonostante, con un ennesimo tiro giuocato alla gnoseologia di stretta osservanza idealistica, Schopenhauer mentova quel mondo che è proibito dire e fa balenare la cinica verità che un misero sistema solare è il vero oggetto della riflessione.
Ogni discorso sulla struttura storica della metafisica, dal quale giustamente Kant si tenne lontano, ha valore solo nei limiti in cui significa che la tradizionale triade – Dio, libertà, immortalità – non ha la sua necessità nella ragione ma chissà dove. La critica della ragione mette invece a nudo, con la sua supponenza, l’estremo tentativo di occultare gli imperativi che provengono dalla sola esistenza del cosmo e che formano la sostanza ultima di ogni «suprema» domanda. Non appena si accorge di questo la metafisica passa la mano. L’indifferenza che successivamente si ostentò per essa è l’indifferenza per il pattume che vi si trovò al posto delle nobili cose promesse.
Il ritorno al punto di vista solare – contrapposto già da Comte a quello «universale» – è il segno della nuova coscienza del sistema solare come se la «cara patria» plotiniana ci avesse beffati. Tutto ciò che resta è un bel mucchio di stelle. Ma il mondo come sistema solare – grandioso relitto dell’eredità newtoniana – non è regolato dall’Idea. Lo specchio ustorio che rimanda la sua immagine mentre lo brucia è il topos della morte del sole. Come una profezia biblica la previsione scientifica incombe sugli individui già riluttanti. Il tramonto del sistema solare che l’immaginazione sostanziale del diciannovesimo secolo vive metodicamente come evento ossessiona la riflessione e da ragione a Platone sul suo carattere mnemico. Ma che c’è da ricordare?
Al quesito circa una concezione scientifica del mondo che unifichi l’immagine cosmica dispersa nei mille rivoli delle ricerche disciplinari bisogna dare una risposta ben più seria di quella che essa sia il risibile frutto di una «enciclopedia unificata della scienza». Ciò si coglie meglio nella tristezza che ne accompagna l’esperienza rappresentata degnamente, ad esempio, da questo vivido quadro, uno dei tanti ma forse il più bello che ne da l’Ottocento: «Potranno trascorrere milioni di anni… ma si avvicina inesorabile l’epoca in cui il calore esausto del sole non riuscirà più a sciogliere i ghiacci che avanzano dai poli; nella quale gli uomini… non troveranno alla fine… calore sufficiente per vivere; scompare via via fin l’ultima traccia di vita organica: la terra – un corpo morto e freddo come la luna – ruota in orbite sempre più strette attorno al sole ugualmente estinto ed infine precipita su di esso. Alcuni pianeti l’hanno preceduta, altri la seguono; al posto del sistema solare – armonicamente articolato, luminoso, caldo – ormai solo una sfera morta e fredda prosegue il suo solitario cammino attraverso gli spazi celesti» (Engels, Dialettica della natura, Introduzione).
Il quesito circa una concezione scientifica del mondo che unificasse l’immagine cosmica fu posta nel manifesto del Wiener Kreis a ridosso del lavoro della scienza e alla messa a punto di una fisica che fungesse da scienza pilota. Si tratta di avvenimenti che hanno precisi nomi: crisi del meccanicismo, revisione dei concetti di spazio e di tempo, teoria della relatività, fisica dei quanti, termodinamica statistica… Il manifesto si rende conto di ciò come pure che la ripresa filosofica della scienza – a differenza del positivismo classico – non punta più sulla biologia e sulla psicologia, ma sulla fisica e sulla matematica. Ma la «nuova» concezione scientifica unitaria del mondo ripete lo stesso difetto strutturale della «vecchia» laddove si mette, giusto le fatidiche parole di chiusura, «al servizio della vita». Ciò la compromette più della metafisica che essa vede dovunque.
L’immagine cosmica riceve invece la sua unità dal di fuori, dal trauma che ha compromesso la sua stessa fiducia nella vita. In questa immagine è compresa la sua distruzione e anzitutto la morte del Sonnensystem, concerti che non sono al servizio della vita e da cui si diparte la tristezza che è inscindibile dal sentimento della scienza. Attraverso essa si fa luce la malasorte dell’individuo e l’impietoso duro compito di chi deve ricordargliela. La miseria della scienza ci consegna alla miseria del sistema solare. La morte del sole è ormai «esperienza possibile», proprio nel senso kantiano. Un sordo grido che sale dalla massa urbana assediata da questa immagine s’ode da lontano. Davanti ad essa si sofferma la conoscenza compassionevole del filosofo.

Manlio Sgalambro, Diderot il giovane, La Sicilia, 22 ottobre 1988

Noi, caro amico, non amiamo soverchiamente l’illuminismo. La divisa di quel filosofo – «Buio, ancora più buio» – è anche la nostra. Esso ampliò a dismisura la pratica contribuendo a darle un’importanza smodata. E l’elogio dell’uomo pratico – quest’essere disgustoso – non poche note ha della sua musica. La sua luce era dipinta, mentre avrebbe dovuto bruciare. (Si, noi amiamo ciò che incendia, non ciò che illumina soltanto). Ciò che ne nacque portava tuttavia i segni della morte: «Vostro figlio viene al mondo coi sintomi della morte; la facies Hippocratica dà il carattere della sua fisionomia e il pronostico del suo destino»: così Burke. «Giovane prendi e leggi», iniziano in questa maniera le Pensées sur l’Interprétation de la nature.
Per un periodo tutto fu in mano ai giovani a cui la bocca puzzava di latte ma il cervello ribolliva di idee, queste cattive consigliere. Essi scambiavano volentieri la loro giovinezza con la giovinezza del mondo. Errore funesto, su cui insisti il “giovane” Diderot. (Ho in mano, caro amico, Giovinezza di Diderot di Franco Venturi riedita quest’anno da Sellerio, e me ne servo eccellentemente).
L’illuminismo fu una philosophia pauperum. «Affrettiamoci a rendere la filosofia popolare»: che orrendo disegno quello di Diderot! Ad esso dobbiamo l’imbarbarimento di una disciplina che, assieme alla matematica, resisteva agli assalti del volgo, di quello stesso che trucidò Ipazia nel 415. Bisogna invece renderla segreta e, se lo e, ancora più segreta. E cosa fu l’Enciclopedia se non la Biblia Pauperum dell’età moderna? L’idea di una scienza utile si pone all’origine di un disegno di spremere alla scienza i suoi benefici senza i suoi malefici. Di valutare il danno ad essa intrinseco come irrisorio e contingente. Mentre il progetto della scienza è la distruzione del mondo che essa dissimula a malapena e il suo desiderio è la permanenza nel nulla. L’illuminismo si creò una natura a sua immagine e Diderot alla sua. Contro i suoi principi metodici la sua fisica è edificante. Una natura tutta vita e saggezza. Diderot tradisce volentieri il suo segreto quando definisce un «délire philosophique» l’organo della sua ricerca; una folk ispirazione lasciata libera di sbizzarrirsi. Del vitale ad ogni costo, comunque.
«Facta, facta, nihil præter facta sarà, un giorno, l’epigrafe di tutti ciò che si scriverà sull’uomo». Questo è del buon, vecchio Stendhal (se si vede l’Histoire de la Peinture en Italie lo si troverà). Ma è anche l’enciclopedismo allo stato puro, sebbene con un pizzico di ironia. Quella che manca al “giovane” Diderot e compagni. Essi insegnavano con dedizione e con la massima serietà, insegnavano cose nuove e importanti ma dimenticavano la natura di un mondo che perpetua se stesso. “Nuovo” era la loro parola; noi immaginiamo, caro amico, i brividi di piacere che dovevano provare. Quanto a me ricordo le parole di un vecchio monaco: «Loro dicono che il mondo deve rinnovarsi, io dico che deve andare a fondo». “Nuovo”: ma non era stato un insulto che Spinoza aveva rivolto contro un giovane intraprendente: «amante più del nuovo che del vero»?
Del resto osserviamo cosa diventa la “Nature” di Rousseau e di Diderot poco dopo. Si tratta della Nouvelle Justine di Sade. «Sì, aborro la natura, ed è proprio perché la conosco bene che la detesto». Dov’è l’illuminismo conseguente, in Diderot o in Sade? Vecchio domanda. Ma chiediamoci ancora: dovremmo spalancare gli occhi per non vedere? Per coltivare il nostro giardino? Le arti, le arti, signori: magistrale idiozia di un pugno di filosofi che vuole insegnare a stare bene in questo mondo!
Si vuole che il merito di Diderot (e il suo storico che lo sostiene) sia stato di avere consentito alle idee e ai sogni dei filosofi di operare. Lucien Febvre, che elogia il nostro storico per avercelo messo sotto gli occhi, definirà questo libro “nutritivo”. L’orribile idea alimentare lo sfiora piuttosto come un indegno sospetto. Esso desta invece sintomi di rivolta. Impegna non alla sola lettura ma a la guerre. Destino migliore.
Ma torniamo alle nostre perplessità. Tutto si illuminò, dunque. Lo splendore delle luci inondò il theatrum mundi, ma che si vide? Mentre i nostri filosofi, pretendendo di insegnare a vivere, si davano da fare – merito o colpa grave di Diderot prima che degli altri – nemmeno passò molto tempo che ci si accorse che non ne valeva la pena. Vogliamo ascoltare Axel? «Vivere? No. La nostra esistenza è colma, la sua coppa sta per traboccare. Quale clessidra può contare le ore di questa notte? Il futuro? … Vivere? I nostri servi lo faranno in vece nostra». La miseria della storia legherà le due risposte alla stessa inquietudine e le daterà. Ma è la loro simultaneità che trionfa sui pazienti datari.
«Non essere un berretto da notte, ma sii sempre sveglio. Se infatti sei un berretto da notte, sei cieco e muto. Ma se sei sveglio vedi tutto e dici tutto quello che è». In questo aforisma Hegel riassume l’affare. Al di là dell’illuminista che regge in bilico sul naso gli occhiali dell’intelligenza, lo svegliato ascolta i rintocchi dell’orologio dell’Occidente che batte l’ultima ora.
Baader parlò dell’oscurantismo dell’illuminismo. C’è veramente una sua radice segretamente nascosta, un buio al di là dei suoi superbi giuochi di luce. Si agita confusamente oltre la darti. È come se si ascoltasse una voce allarmata: fermatelo in tempo. Al di là dell’illuminismo, come vigile realizzazione di esso, è annidata infatti la sua malevola controfigura, il pessimismo. A chi gli occhi si spalancarono tanto, si stagliò in tutta la sua orrenda apparenza lo stato delle cose. Progresso non è che una parola per continuare. Una nozione infame. L’illuminismo approntò gli occhi, il pessimismo vide.

Manlio Sgalambro, Il lamento di un Pierrot, La Sicilia, 8 ottobre 1988

«Tout cela vous honore, Lord Pierrot, mais encore?»
— Jukes Laforgue, Complainte de Lord Pierrot

Secondo il concetto illuministico di ragione, essa deve entrare nella vita e guidarla. L’umanità guidata dalla ragione e quella che non vive più ciecamente, lasciandosi andare all’impulso immotivato, ma lucidamente sulla base di scopi. Se l’illuminismo e l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità, quest’ultimo non e soltanto, come fu detto l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro, ma egualmente l’incapacità di vivere senza tutela. Da questo punto di vista è ancora il pessimismo che porta a compimento l’illuminismo. Chiarezza e distinzione – i colpi di martello cartesiani – investono sistematicamente la vita che per il completo assorbimento nei processi di autoconservazione non ne ha avuto frutto che m situazioni eccezionali e privilegiate.
Solo la conoscenza geniale sa il fatto suo. La questione dell’affermazione o della negazione della vita e interamente nell’ambito dell’illuminismo. La vita completamente illuminata, cioè senz’altra guida se non quella che proviene dalla ragione, conduce alla propria negazione, alla rinuncia razionale che pone limiti al desiderio in nome dell’autonomia. Il pessimismo non è un mucchio di lagne, ma uno sguardo sufficientemente freddo lanciato sul mondo come nella migliore tradizione della filosofia borghese. Ma il completo rischiaramento si rovescia, come fu notato, nell’oscuramento totale nella “distruzione” della ragione per mettere in salvo la vita.
Oscurità e misticismo l’avvolgono teneramente per proteggerla. l’irrazionalismo non ha altra origine. La vita, perfettamente nota, ridiventa nuovamente un mistero con cui a si delizia. Emergono qui i limiti dell’illuminismo, la vanità dell’emancipazione dell’individuo senza l’emancipazione della società. In una società completamente emancipata niente più celerà l’essenza della vita e se ne potrà misurare l’orrore.
Come possa una serie di nonne etiche trasferirsi nella vita e agirvi, questo problema lo si trova formulato in Husserl nel modo seguente quale rapporto si possa stabilire di fatto tra le generalità dei principi e la vita che consiste di «decisioni istantanee». Già la risposta del pessimismo era stata negativa. La stessa etica, impropriamente chiamata, dalla filosofia almeno, “pratica”, è veramente “impratica”. Non sono i suoi morti concetti, dice Schopenhauer, a dare luogo alle azioni, ma l’intima essenza dell’uomo, il suo carattere intelligibile sostanzialmente immodificabile. Questa, è la dottrina dell’illusorietà del tempo, la cui conseguenza principale è altresì l’immodificabilità del mondo, costituiscono le barriere opposte da Schopenhauer alla follia della prassi, i limiti da lui scovati in essa.
Nella prima però viene assolutizzato l’individuo contro la contrastante giusta intuizione che esso abbia invece la consistenza di un fantasma, frutto del principium individuationis, mera apparenza. Il contrassegno del carattere intelligibile, che l’uomo sia nient’altro che quello che è, la sua immodificabilità, lo ribadiscono alla individualità come qualcosa di primario e non di derivato. Il che chiarisce senza mezzi termini questo passo dei Parerga: «l’individualità non si fonda soltanto sul principio di individuazione, e perciò non è integralmente mera apparenza, bensì e radicata nella cosa in se, nella volontà del singolo infatti il suo carattere stesso è individuale».
Da qui alla dottrina del suo maggior discepolo, il Bahnsen, che originaria è la singola individualità volente non la Volontà e che perciò dal contrasto delle singole volontà con se stesse e tra di loro non si potrà mai usare e quindi, per dirla tutta, non ci sarà salvezza, il passo è breve. Anzi autorizzata è in ultimo la più astuta conclusione di Nietzsche per cui la salvezza si autodistruggerebbe nel trionfo della volontà nell’individuo che vuole il nulla. Quanto alla modificabilità del mondo, «che il tempo generi alcunché di veramente nuovo e significante – dice Schopenhauer – che per esso o in esso qualcosa di effettivamente reale pervenga ad esistere, o che il tempo medesimo abbia, come un tutto, principio e fine, norma e sviluppo, e per avventura tenda, quasi ad estremo termine, al massimo perfezionamento del genere ultimo venuto e vivente trent’anni», ebbene egli non è così pessimista da ammetterlo ma in effetti si deve. La raccapricciante possibilità che possa avvenire una modificazione della società in meglio non e da escludere. Ma essa getterebbe tutto il passato in una eterna gehenna e noi in un eterno rimpianto e tutto ricomincerebbe.
Al problema dell’agibilità delle norme etiche è connesso tradizionalmente quello della fonte erogatrice. Per Kant, l’individuo Kant approda all’individuo da cui egli parte e strada facendo lo rafforza il concetto di autonomia dovrebbe dare all’individuo poteri immensi col farlo autore della propria legge. Ma l’autonomia è eteronoma, come dimostrò Simmel. Non è la propria legge quella che egli dà a se stesso senza contraddizione ma quella dominante nella società, quella che non la contraddice. Norme etiche attendibili e valide non possono invece derivare da nulla di esistente. Nemmeno quindi dallo stesso soggetto, irretito nella vecchia società, eteronomo da cima a fondo.
Vera resta, peraltro, in linea di massima, la tesi che le norme etiche traggono la propria legittimità dalla società, ma non da quella esistente, bensì da quella che la trascenderebbe. «Si terrà fermo il principio – scrive Durkheim – che mai può essere voluta una morale diversa da quella reclamata dallo stato sociale del tempo. Volere una morale diversa da quella impilata nella natura della società significa negare quest’ultima e quindi negare se stessi. Resterebbe da chiedersi se l’uomo debba negarsi, la questione è legittima, ma non verrà presa m esame Assumeremo come postulato che abbiamo ragione di voler vivere».
In effetti, negata per sempre sarebbe questa società, ma ha ragione Durkheim di prospettarsi tale negazione come l’assunzione, per la sociologia, di un postulato diverso da quello, solo a lei congeniale, dell’affermazione della volontà di vivere. Il che sancisce quello che il vecchio materialista Czolbe chiamò l’immoralità del bisogno morale e sociale in quanto sorpassa il mondo dato di cui invece bisogna contentarsi e amen. Ma in realtà, il bisogno d’uguaglianza, ad esempio, non sorpassa per nulla ciò che è dato. Si traduce infatti nella tendenza a rendersi uguali a quelli che godono del più elevato status. I cui fattori – reddito, prestigio sociale, autorità, grado elevato di istruzione, ecc. – dovrebbero invece essere rifiutati in blocco e il bisogno di uguaglianza attestarsi al livello più basso essere nessuno e sparire. «Tutto ciò vi onora, / Lord Pierrot, ma e poi?».

Manlio Sgalambro, Rinuncia, La Sicilia, 1° ottobre 1988

L’affermazione di Schopenhauer che una società giusta non eliminerebbe «gli innumerevoli mali, alla vita necessariamente inerenti» e vano sarebbe perciò perseguirla, è genericamente esatta ma non vera. Proprio questo, al contrario, la rende forzatamente necessaria. Se il problema dell’affermazione o della negazione della vita («volere o non volere la quale è la grande questione») non è indecidibile e peraltro si deve decidere per la negazione, quest’ultima passa contrariamente all’avviso del borghese Schopenhauer, proprio attraverso una trasformazione radicale della società. Già da un punto di vista che si mantenesse ortodossamente fedele, i grandi della negazione che si esprimono canonicamente nella contemplazione estetica, nella giustizia, nella compassione e nell’ascesi, non potrebbero competere, in quanto oltretutto meramente individuali, con la negazione della volontà così come si attuerebbe su scala collettiva in una società in cui profitto e plusvalore fossero tagliati alle radici e, mercé la rinuncia, l’emancipazione dalle più svariate sudditanze foste condotta a compimento. Nondimeno Schopenhauer e l’unico che porti avanti l’illuminismo senza regressione. Anche la questione della vita avanza in lui oltre ma non contro l’illuminismo: nella sua richiesta di una soluzione non individuale ma universale qual è la negazione della volontà di vivere al posto del suicidio propugnato dall’illuminismo. Schopenhauer mostra solamente, e per così dire sogghignando, che se si vuole eseguire veramente la morale, egli aspetta il malcapitato al varco della negazione della volontà di vivere a cui, dopo la disperata e ultima difesa di Kant, la morale, ormai senza protezione, conduce. La vita, che è immediatamente in balìa delle «potenze antimorali», attende la mediazione giusta che un tempo fu assicurata dall’etica vanamente. Ciò che deriverebbe dall’egoismo e dalla malvagità – le potenze antimorali – s’è invece formato assieme ad essa nel corso della produzione e riproduzione della vita, nella stona dell’autoconservazione, dove le atroci ferite da essa inferte diventano quell’interiore, non luogo di delizie ma letamaio, che va esorcizzato.
Tutto il lavoro della Critica della ragione pura è scaturito dall’esigenza di individuare i limiti della teoria. Oggi andrebbero individuati con urgenza i limiti della pratica. Come Trappolone, che insegna al giovane Oliviero Twist a sfilare i fazzoletti dalle tasche della gente senza che essa se ne accorga, Kant insegna ai giovani borghesi a sfilare dalle menti dei ricchi padri le Idee, ricamate e orlate di pizzo, di Dio, della libertà e della immortalità, e a rimetterle a posto dopo averle completamente svuotate. Si fa lo stesso con l’idea di società giusta: la si riduce, per così dire, allo stato laicale e si rifila la patacca agli sprovveduti. Kant opera ugualmente. Con cipiglio nietzschiano parla degli uomini «buoni» come delle pecore che essi menano al pascolo. Si tratta degli uomini quali sarebbero senza egoismo, invidiosa emulazione, cupidigia mai soddisfatta di averi e di dominio. E, naturalmente, di come sarebbero qualora tutto ciò scomparisse. La raffigura come una vita pastorale e arcadica che si avvicina terribilmente alla noia che, secondo Schopenhauer, segue ogni soddisfazione e che sarebbe il connotato dominante di una ipotetica società giusta. I «dolci sogni» vanno spiegati, come avviene con i sogni del visionario. La morale kantiana – come del resto tutte le morali borghesi – è fatta per non essere usata. Che l’uomo debba essere trattato come fine vale solo come mezzo. Se la società dev’essere insocievole affinché non si cada nello stato pecorile, occorre che l’uomo sia trattato come di fatto è.
Se una sola massima si eseguisse nello spirito della morale kantiana, il mondo borghese se ne andrebbe in pezzi. Industriali, imprenditori, commercianti, proprietari terrieri, liberi professionisti, colletti bianchi, tutte le specie sociali insomma che si precipitano l’una sull’altra ora belve affamate ora nutrimento, a turno, – sono uniti e disuniti insieme da rapporti che non ammettono deroghe. Basterebbe che l’una trattasse l’altra come fine e decreterebbe la propria morte. Questo processo si riassume esemplarmente in quello della volontà che perciò non è un comodo nome ma il modo stesso come esso esiste. Nella volontà si riassume, cioè, quel processo che dalla riproduzione semplice culmina nel capitalismo avanzato: non si può negare il capitalismo senza negare anzitutto la volontà.
Kant non concepisce la società come un dominio a sé. Questo maniaco dell’autonomia non ha mai considerato la società come autonoma. Quando egli si prova a tracciarne lo sviluppo, lo fa in questi termini: la società va da un’unione patologica forzata verso un tutto morale. Dove, solo la prima parte designa veramente la società, l’altra il mondo morale che sulla società Dio ne guardi abbia effetti sostanziali. Sicché quando egli si domanda in che misura un atto può dirsi libero, ha presente da un lato la natura, dall’altro il mondo intelligibile, mai la società. Nessuna indagine viene dunque condotta tendente ad accertare gli impedimenti sociali dell’agire e non si parla, di conseguenza, di alcuna casualità sociale accanto a quella naturale o a quella intelligibile. Ciò si spiega con l’individualismo kantiano. Kant, che peraltro ha distrutto le ultime vestigia del concetto di anima, non si rende conto che l’individualità è l’anima del borghese. Il sale con cui il vecchio porco si conserva. Sostanzialmente, cioè, il concetto di anima, con tutto quello che esso rappresenta, nel mondo borghese è emigrato. Ora essa è annidata nel concetto di individualità. Sarebbe però occorsa una indagine che non rientrava nel piano di Kant per avvedetene. Una indagine non solamente sulla illusione «trascendentale» ma sulla illusione sociale. L’individualità, per come stanno le cose, è infatti un «errore» sociale.
La grigia routine del mondo sociale – dolore noia, capitalismo – si riassume nel nome sintomatico dì volontà, negare o non negare la quale resta ancora oggi la grande questione. Allo stato dei fatti l’ultima via etica percorribile è la rinuncia.

Manlio Sgalambro, Tardo dolore, La Sicilia, 24 settembre 1988

«Se dell’interpretazione del mondo è passata – dice Adorno – e ora si tratta invece di modificarlo, la filosofia prode congedo, e nel congedo i concetti si arrestano e si trasformano in immagini». Tutto questo è sintomatico; quale può essere il compito dell’ultima filosofia se essa ha a disposizione solo immagini? Indurre la logica a parlare, viene risposto. «Anche i concetti caduchi della gnoseologia rimandano al di là di loro stessi. Fino entro i loro formalismi supremi, e soprattutto nel loro fallimento, sono una pagina di storiografa incosciente, e possono essere salvati se li si anca a piatte coscienza di sé entro quello che da soli intendono». In questo salvataggio, dove in extremis viene in uno salvata, contro l’intenzione apparente, la filosofa stessa, consisterebbe l’ulteriore compito dell’ultima filosofia come «memoria della sofferenza sedimentata nei concetti». Si adempirebbe così il voto espresso da Simmel nel Diario postumo che la filosofia parli finalmente detta sofferenza.
Ma nella storia, a cui viene rimandata, la filosofia non incontra soltanto la storia ma ciò che la domina e che domina quindi lei stessa, di fronte a cui entrambe rivelano la loro impotenza. Persino Dilthey che di questo compito soteriologico si incaricò a suo modo, e un’epoca tutto sommato fiduciosa, avrà dei dubbi. Questa era parsa a Dilthey la “sofferenza” attuale della filosofia: la ricerca del duraturo e la «caducità e relatività» del risultato. Già in Dilthey stesso però questo aspro dissidio sembrava comporsi e s’incontravano e univano il fremito e il brivido del terrore ma nel contempo il calmo fervore di chi poteva «abbandonarsi quietamente alla forza della coscienza storica e porre anche la propria opera quotidiana sotto il punto di vista della connessione storica». Questa sofferenza, che egli sperimentava anzitutto in se stesso, era l’esperienza dell’unica possibilità dell’impossibilità dello “spirito” (da Hegel affermato nella sua assolutezza), solo come «caducità e relatività»; solo, cioè, come cultura. Con tutto ciò, comunque, la funzione tradizionale della filosofa rimaneva, nel complesso, intatta. Pur nella mobilità dei suoi nuovi fondamenti, essa poteva proseguire senza perplessità nel suo compito; abbandonarsi quietamente, come faceva, alla storia. Senza quasi rendersene conto lo stesso Dilthey, tuttavia, metteva le mani, come per caso, su ciò che avrebbe compromesso questa quiete e distrutto l’immagine di una filosofia felicemente fondata sulla storia. Su ciò che la filosofia avrebbe trovato nella storia e, conseguentemente, anche in se stessa: «Nel campo economico – afferma Dilthey – il sistema naturale ha prodotto la terribile conseguenza del capitalismo. Il capitale mobile ha potenza illimitata… Esso può fare e disfare a suo talento; è simile ad una bestia dai mille occhi e dai mille artigli e senza coscienza, che può rivolgersi dove più le talenta».
Acquistando coscienza di essere nella storia, la filosofia doveva man mano rendersi conto di questa «potenza illimitata»; inoltre, impegnata a parlare di una vita dominata da questa «bestia dai mille occhi e dai mille artigli», da questa potenza che fa e disfà, impegnata ad esprimerne la sofferenza, la sofferenza trapassava in essa: la stessa filosofia, cioè, diventava infelice. Contemporaneamente si manifestava la sua incapacità a rappresentare questo potere in maniera adeguata. Il fallimento stesso di ogni teoria della conoscenza non si faceva attendere. Ciò che Kant aveva fissato almeno nelle sue linee generali, il soggetto, l’oggetto e il loro mutuo rapporto, si sconvolgeva. Già agli occhi atterriti di Marx (sin dai Dibattiti sopra i furti di legna) la situazione reale si presentava così: non è la coscienza, l’io, ma la legna che fa le leggi. Mentre per Dilthey la legna sarà sempre e dovunque oggetto, nel “campo economico” e, a partire da lì, ormai in tutti gli altri, le condizioni kantiane rielaborate da Dilthey, ma accettate nella sostanza, sono sovvertite: i «terribili effetti», che Dilthey avverte ma rilutta a definire, sono già avvenuti: il capitale ha già fatto e disfatto.
Rinviata alla storia la filosofia dunque non incontra soltanto quelli che la porteranno via conducendola per i piedi (secondo l’immagine ripresa da Hegel), ovverosia la sua storicità, ma anche ciò che finora la storia non è riuscita a storicizzare. D’altra parte l’orgogliosa sicurezza di fare filosofia facendone la storia è colpita alle radici già per altre ragioni. L’asserzione di Spengler – «Noi consideriamo la storia della filosofia come l’ultimo tema serio di ogni filosofia» – concede serietà al tema come simbolo del tramonto. Tutt’altra la prospettiva dei sostenitori della tesi che saremo alle soglie di un mondo nuovo, non della tomba. Alla domanda perché la storicità li accomuni non si potrebbe dare risposta più esauriente di quella che lo storicismo equivale per entrambi al primato del divenire sul divenuto, proprio come voleva Spengler.
Spengler esclude il divenire dalla Zivilisation perché ne è perita «l’anima». Esalta il divenire puro, la vita illimitata, mentre esegue la condanna che il «divenuto» porta dentro di sé giusto il precetto Nietzsche di dare un calcio a tutto ciò che cade. Qui si dividono le strade. Per Spengler lo stato a cui è giunta la civiltà non le consente che di essere quello che è e perire. Per Adorno i resti della civiltà, quello che essa ha macinato, i rifiuti, l’immondizia sociale, proletariato e affini «personificano negativamente, nella negatività, tale civiltà, ciò che promette sia pur debolmente di spettarne l’imperio e di mettere fine all’orrore della preistoria». L’esile filo che divide queste due prospettive nella teoria, si trasforma nell’abisso che le separa nella pratica. Ma alla morte del mondo determinato o perché esso muore o perché deve morire mirano entrambe. Disordine e dolore di un mondo perduto!

Manlio Sgalambro, Il concetto e la bellezza, La Sicilia, 17 settembre 1988

«Se ha un qualche senso parlare di un oggetto estetico allora si tratta di qualcosa che si manifesta in presenza di un quadro, di una scultura, di una poesia, di una frase musicale…».
— Max Bense, Estetica

La classificazione in bello naturale e artistico, con la supremazia di quello artistico acquisita nella malfamata filosofia dell’arte, non riesce più a seguire la complessità della contemplazione estetica. Anzitutto la stessa dicotomia sembra manchevole e non già per eccesso, come se il bello naturale fosse solo una petizione. Si potrebbe aggiungere ad essi il bello tecnico, al quale il sentimento estetico dà oggi il suo assenso. Ma certamente si potrebbe parlare di un bello teorico, particolarmente di un bello filosofico, di un bello matematico nei quali cadrebbe acconcia la distinzione della Critica del giudizio tra pulchritudo vaga e pulchtritudo adherens. Essi sarebbero pulchritudo vaga, come un fiore, non adherens come una cattedrale.
Solo estetiche attardate sono ancora ferme all’opera d’arte – compresavi ovviamente la cosiddetta arte figurativa – mentre la sensibilità estetica si sfama anche altrove. L’estetica è ancora ferma all’opera d’arte a cui essa si aggrappa teorizzandola come se non dovesse anzitutto ascoltare i rintocchi della sensibilità estetica e da essa farsene dire i limiti. Proprio l’esperibile estetico dovrebbe spostarli. Là dove cade la sensibilità estetica, nel suo divino arbitrio, là segue la contemplazione. Là stesso comunque dovrebbe andare alla ventura l’estetica. Essa non ha altra norma che quella prescritta dalla sensibilità. Da quando l’estetica non fissa più norme. Se in ogni arte sono presenti momenti intellettivi, così si potrebbe dire che in ogni opera intellettuale vi sono momenti estetici. Ma ciò o è un banale altruismo oppure i Principia Ethica o Appearance and Reality sono belle proprio in sé. Questo non ha niente a vedere col fatto che l’opera filosofica sia bella malgré soi. Di ciò giudica non la quantità di elementi artistici disseminativi, ma «l’arbitrio» della contemplazione estetica. Del resto «concetti» vi sono nell’arte come «intuizioni» nell’opera filosofica. Ciò che importa è la loro tensione, contrariamente all’opera d’arte, non vi è nell’opera filosofica la volontà d’arte. Ma con un cenno la contemplazione estetica la chiama a sé.
A noi interessa questo squarcio estetico che annette l’opera filosofica come se solo in essa fossero rimasti intatti i requisiti dell’arte e nello sguardo retrospettivo riconquistati alla contemplatività estetica sottraendoli all’ordinario uso «storico-filosofico». Ciò che fu fatto senza volontà d’arte, o proprio per questo, rimanda alla contemplazione l’imago del bello, del soddisfacente in assoluto. L’elemento artistico passa all’opera filosofica che lo conserva in sé come la cosa più cara. Ora è l’opera filosofica che è bella. Di essa, del suo contemplato, resta l’idea come tutt’altro, anche se essa fosse inabissata nella realtà sino al collo. Dalla chiacchiera storico-filosofica si passa dunque alla contemplazione estetica. Si può concedere che l’opera filosofica è l’opera d’arte tarda. Si stia attenti alle Enneadi. Esse si possono considerare un racconto. Come tali mostrano da più di un segno che una volontà d’arte non fu loro estranea del tutto: sorprendenti eredi di un noto passato. Ma come opera filosofica, solo come tale dobbiamo occuparcene e come tale essa diventa oggetto di estasi estetica. Ci si unisce ad essa come con l’Uno di cui vi si racconta. Quello che dovevamo avere e non avemmo ci viene dato in qualche modo. Questo modo è il bello.
Non i tratta di stabilire quale sia l’arte «per eccellenza»; come se a rispondere non si precipitassero tutte alzando la mano. Ma dove essa si possa sentire ancora tale. Essenzialmente in questa domanda si uniscono filosofia e arte ma senza formare – questa dovrebbe essere almeno la scommessa – alcuna filosofia dell’arte. Che l’opera filosofica possa essere l’oggetto della contemplazione estetica, ciò dunque non è supposto in virtù di una filosofia dell’arte, ma perché il nucleo resistente del bello sembra esservisi rifugiato. Nell’era in cui non si parla più di bellezza artistica e suoni e colori sfumano nell’indifferenza, l’insieme dei concetti manda echi ammalianti. C’è tanta malinconia nella Critica della ragione pura quanto in una grigia giornata autunnale. Ad ogni «fine dell’arte» su qualcosa cade il compito di rappresentarne l’agonia. A maggior ragione se da essa sia talmente lontana la volontà d’arte che anzi comunemente dia a vedere tutt’altro.
Più importante dell’arte è qui considerata la contemplazione dell’opera. Se non ci fosse più arte, ce ne sarebbe sempre abbastanza perché non finisse «mai» il più impopolare dei suoi risultati. L’opera d’arte, senza che essa se ne renda conto, anzi parteggiando manifestamente per l’opposto, scompare sempre più davanti alla contemplazione estetica. Si spiega così perché l’agonia dell’arte non coincide con quella della contemplazione estetica. Se il raffinamento di questa non è semplicemente soggettivo – questione appunto di raffinatezza – allora un’opera di fisica teorica, o i Principia Mathematica, possono fornire l’occasione alla contemplazione estetica allo stesso modo della Recherche. (È vero che ad essa può bastare anche un ciottolo, goccia d’acqua…). Ciò che c’è in queste opere di «estetico», può essere colto dal soggetto così differenziato da poterlo ritrovare, come avviene per la malinconia, in cose difformi. Ma è quando la contemplazione si appunta sul concetto che questo manda bagliori. La bellezza evocata non lo sfiora da lontano, come se la cosa non lo riguardasse ma sembra che sorga dalle sue stesse viscere, dal più intimo di esso.
Così l’opera filosofica, mentre placa il suo pathos e rifulge nel concetto la conquistata quiete, concedo allo sguardo estetico, come supremo dono, la stessa bellezza invano cercata nel mondo che un tempo fu esclusivamente suo.

Manlio Sgalambro, Filosofia come arte, La Sicilia, 10 settembre 1988

«Quel che l’artista cerca di fare è di esprimere una data emozione. Esprimere questa emozione ed esprimerla bene sono l’identica cosa… Ogni manifestazione ed ogni gesto che ciascuno di noi compie è un’opera d’arte.»
— R. G. Collingwood, The Principles of Art

L’elevata coscienza di un’opera filosofica tramuta il rapporto con essa in godimento artistico, in gusto. Non soltanto come conoscenza e sapere, ma come di emozioni vale dunque l’opera filosofica. Su essa si sofferma il gusto, come opera bella. Opere come la Fenomenologia dello Spirito, il Mondo come volontà e rappresentazione o Apparenza e realtà, non si mutano in opere d’arte come se dopo i1 loro fallimento terreno di esse fosse rimasto almeno questo. Esse restano fermamente ciò che il destino volle che fossero. Ma proprio come tali colpiscono il senso estetico: come oggetto di contemplazione.
L’elemento che accomuna un’opera di poesia ad una di filosofia non è da cercare perciò nella loro struttura, ma nello stato cui assoggettano il contemplare. A partire da questo, però, si è pure certi della possibilità che godono entrambe. In ogni caso proprio qui l’opera filosofica raggiunge, paradossalmente, il suo massimo di comprensione piuttosto che attraverso i consueti mezzi. Come opera d’arte l’opera filosofica arriva a quello a cui raramente pervenne quand’era tale. L’obiettivazione dell’opera di filosofia – usualmente affidata al basso livello dell’interpretazione – trova invece nella contemplazione estetica l’assolutamente adeguato. Una filosofia deve restare un enigma per il volgo ed essere come una musica da canna per l’iniziato. Che erosa si sciolga nella bellezza è il suo destino finale.
Il mondo trasfigurato dall’opera filosofica si dà in essa mediato dalla stessa. Alla contemplazione l’opera filosofica appare unicamente come forma. Anche il nucleo perituro dell’opera filosofica passa indenne attraverso lo sguardo estetico del contemplante e si salva.
Filosofia senza espressione è vuota – così potrebbe dirsi dunque dell’opera filosofica. Infatti senza un elemento espressivo il generico filosofare non arriva mai ad essere un’opera. Ma in che è bella l’opera filosofica? Anzitutto in ciò che non adempì. In ciò che non poté mantenere. Proprio perché essa è separata per sempre dalla realtà, per questo, come l’arte, non vi appartiene. Chi si rivolge ad essa sente ora solo immensa nostalgia. Tutto è perduto fuorché la forma. Eternamente inadempiuti restano infatti il «Nirvana» e lo «Spirito Assoluto», ma non la forma che presero entro la quale splendono entrambi. Nella contemplazione sono restituiti all’unica realtà che loro tocca. Ma qui sono tutto.
Nella contemplazione estetica si salva il loro nucleo di verità che è dato, per casi dire, ancora una volta, ma definitivamente. Il rimpianto per l’inadempiuto Nirvana che colpisce il Mondo come volontà e rappresentazione ne rafforza però la bellezza come opera. E lo è in quanto sperò invano e non poté andare al di là della forma. Questa impotenza la salvò. Perché quella reca con sé la verità che la realtà le rifiuta. Il Mondo come volontà e rappresentazione e la Fenomenologia dello Spirito sono vere nella forma che si offre come un tutto alla contemplazione estetica. Noi sentiamo la loro bellezza in questo contrasto: perché tanto osarono e con tutto ciò non oltrepassarono la forma.
L’opera filosofica è vera opera d’arte non perché mi abbia rinunciato sia pure per un momento alle sue prerogative, come se l’intenzione fosse diretta a quest’ultima anche per disperazione, ma oggettivamente. Soggettivamente l’opera filosofica non presenta nessuno dei requisiti richiesti dall’arte, ma essa lo è rispetto all’elevata coscienza del contemplante. La coscienza estetica che già si soddisfece nell’arte trova qui appagamento, nell’opera filosofica. Nella sua contemplazione si rende libero, ora, alla coscienza elevata, ciò che era già in essa ma attendeva il suo momento. E questo senza che il filosofo lo sapesse.
Come oggetto di contemplazione estetica l’Ethica mostra nella composizione la sua stessa filosofia realizzata. Solo come opera. Essa è veramente l’apparire sensibile della filosofia di cui parla. La pace avvertita è la quiete dell’opera compiuta. Lo spegnimento delle passioni è l’effetto catartico che si sprigiona da essa. Ciò a cui non riesce l’etica quætalis, avviene esteticamente. Cosi l’opera filosofica dona conoscenza e bellezza. Ciò che è triste è che essa non sia «vera» ma soltanto bella? Ma attraverso la bellezza si apre una via di comprensione eccezionale, tutt’altra dalla comprensione «filosofica» ma che ha i suoi diritti. Dovremo forse dare retta a The Sense of Beauty dove Santayana si permette di dire: «L’arte è la risposta alla domanda di svago, e la verità entra in essa solamente in quanto sia utile a questo fine»? Ma se il bello appaga esso lo fa contro il «piacere»: l’arte è «dispiacere» in cui dispiace l’essere stesso.
La filosofia è arte involontaria. Essa si realizza nell’autonomia di un’opera. Chi coglie il Leviathan nell’unità di uno sguardo estetico, non viene preso dalla paura, dal pathos della morte violenta che consegna in mano al potere. Egli ne resta immune. Il palcoscenico dell’azione moltiplica vacue immagini. L’agitazione, la paura mortale, l’affanno dei protagonisti, sgombrano il campo. La pace in mezzo al pericolo della morte violenta è data in sovrappiù, alla sola contemplazione estetica. Senza che l’opera muova un dito. Senza che avvenga nulla. Il Leviathan non si realizza in uno Stato ma nell’animo del contemplante dove i concetti sono indistinguibili dai suoni. Così ne è dell’opera filosofica. Chi ne cerca al di fuori ciò di cui parla, torna da capo tra le nubi. Solo in osa è dato ciò che è promesso.

Manlio Sgalambro, Teologia minore, La Sicilia, 3 settembre 1988

Conversioni
«Christophe si svegliò. Guardò attorno a sé con paura. Non riconosceva più niente. Attorto a lui, in lui, tutto si era trasformato. Non vi era più Dio… Come la fede, la perdita della fede è sovente un miracolo della grazia, una illuminazione subitanea. La ragione non ha mente a che vedervi e basta un niente, una parola, un silenzio, un suono di campane. Si passeggia, si sogna, non si pensa a niente. D’un tratto tutto crolla. Ci si vede attorniati da rovine. Si è soli. Non si crede più» (Romain Rolland, Jean Christophe, III, L’adolescent). Sì, avviene così che ci si converte all’ateismo. Con la stessa ingenuità con cui ci si converte a Dio.

Santa intolleranza
L’esperienza intellettuale, a lungo scambiata con i suoi rapporti, si chiude oggi timidamente in se stessa per proteggersi. Invece di raggiungere l’intolleranza che altre volte ebbe, come nella figura del saggio al di fuori del quale non vi erano che stolti. O al tempo della rabies theologorum, in certi teologi duri e superbi, intolleranti e protervi, che mandavano al rogo senza batter ciglio ma nei quali si manteneva incorrotto il concetto di verità. Poi venne il «progresso»! lo non desidero bruciare Calvino e i suoi libri – dice Sebastian Castellion – mi contento di confutarli. Si badi bene, al posto del rogo la confutazione. Il magnanimo tollerante si è tradito.

Atti, XVII, 28
In eo enim vivimus, et movemus et sumus («In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo»). Non risulta. In esso siamo distrutti e moriamo.

Vanini, l’empio
Nei versi che Hölderlin gli dedica – «Empio osarono dirti?» – (nella poesia Vanini) si sente la stessa musica intonata per Spinoza – santo, santissimo Benedetto… – ma stavolta, fortunatamente, senza fortuna. Per Vanni, di solito posposto al fiacco Bruno, «l’ordine del mondo ne sancisce perfino la perfezione (e si sentono le sghignazzate di questo terribile moccioso…): «Perché meravigliarsi? Se anche nelle più vili macchine inventate da qualche tedesco ubriaco vigono leggi? » (De admirandis Natura reginae deaeque mortalium arcanis, IV, 21).

Redenzioni all’incanto
«Sentimenti di redenzione ha anche il cane, quando la sua fame viene soddisfatta con un osso» (Hegel, Vorrede zu Hinrichs’ Religionsphilosophie, in Schriften aus der Berliner Zeit, p. 19).

Speranze
L’enfasi sulla speranza emerge ogni volta che una vera theologia fidei fa la sua comparsa. Cosa ci sia da sperare, essa però non lo dice.

Misura per misura
«Il comportamento negativo dello spirito singolo nei confronti della natura non teme la sua violenza e con questo disprezzo la tiene lontana da sé e si mantiene libero da essa. Lo spirito singolo è grande e libero soltanto in misura del suo disprezzo per la natura» (Dokumente zu Hegels Entwicklung, Stoccarda, 1936, pp. 343-344). Fin qui giunse Hegel. Ma il disprezzo invece raggiunse Dio. A misura di esso si giudica un vero uomo.

Si nasce!
Il disgusto di essere nati sorprende all’improvviso. E anche ciò che distrusse l’equilibrio che per un istante mancò e spuntò la vita. Ma essa viene un soffio dopo, appena più tardi, dapprima v’è il nascere, puro nascere senza nessun’altra determinazione…

Minima theologica
Il motivo della «malinconia del mondo» combina la patologia degli umori con l’esperienza teologica. L’esperienza malinconica designa l’elemento sinistro nell’esperienza teologica: il fatto die Dio sia questo. A qualsiasi livello di descrizione, l’esperienza malinconica appare nel momento in cui si urta con la cattiva sorte del mondo o Dio stesso. Il carattere di peso del mondo viene avvertito dal malinconico come se gli gravasse addosso. I suoi nervi si eccitano. Il turbamento sfiora allora il terrore. Questi piccoli farti si insinuano dentro e colpiscono anche l’animo più ferrato. Come altrettante spacche dalle quali si infiltra, per così dire, la sinistra immensità di ciò che è. Questi minimi teologici commentano, o al limite ciel silenzio o gridando, la condizione teologica dell’uomo.

Scrupoli teologici
Un tempo ti si faceva uno scrupolo di dimostrare che Dio non esisteva. Oggi il più impenitente senzadio è costretto a provare in tutta fretta il contrario. Naturalmente ciò non vuole dire niente di buono. Anzi, che siamo perduti.

Religione
Un coro di sospiri che si innalza da cuori devoti riempie tutto di grazia e di bontà. I volti si illuminano a somiglianza del raggio divino che dovrebbe, cadendo dal cielo, investirli. Ed essi grati ricambiano, proni e reverenti, leccando gli stivali al principio del mondo.

Condanna a morte
L’origine sarebbe solo un ricordo che non varrebbe la pena ricordare. Se non fosse che esso non riguarda la memoria e che noi siamo condannati a Dio.

Manlio Sgalambro, Cantuccio, La Sicilia, 31 agosto 1988

C’era una volta
Continuiamo a vivere perché fummo fanciulli felici. Anzi solo perché una volta fummo fanciulli. Allora mettemmo da parte questa ricchezza che ora andiamo spendendo. Ne fecero parte la tenerezza, le carezze che ricevemmo, lo stesso ritmo del sonno che ci riposò. Le voci care, le prime impressioni del sole e delle stagioni… Tutto questo, man mano che lo andiamo spendendo diminuisce. Così la nostra vita.

Sincerità per sincerità
Cose profondamente, sinceramente sentite non s’addicono al pensare. Esso agisce in un spazio in cui la sincerità non lo segue. La sincerità mostra tutta l’angustia dell’uomo. La riflessione oltrepassa ciò che un individuo può sciorinare e se lo porta con sé chi sa dove. Un individuo «sincero» dirà solo ciò che «sente», misero lui. Serve la sua bramosia di mettersi a nudo. Di fare vedere le sue cosine. La riflessione invece scioglie gli ormeggi e vola e il pensiero è tutto fuorché franco e leale. Quando si deve mentire perché si possa pensare!

Concetti ed emozioni
Famose frasi del tipo «il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me» rispecchiano fedelmente le condizioni in cui si svolgeva una volta lo scambio dei filosofemi. Il lettore sapeva intuire perché nel ghiaccio dei concetti si aprisse questa specie di sole e la tensione della lettura, così ben guidata, si distendesse, dopo tanto equilibrio, in una emozione. In effetti il concetto senza emozione è vuoto. «Il cielo stellato sopra di me» è un grido di dolore.

Antropologia pragmatica
Il distratto che esce con una calza infilata e l’altra in mano o che cerca gli occhiali che ha sul naso, fu figura che il bozzetto, ma anche la novellistica maggiore, praticarono. Questo tipo di individuo sembrerebbe oggi scomparso. In ogni caso soccomberebbe presto. L’attenzione che è richiesta oggi è in diretto rapporto con gli imperativi della sopravvivenza. La distrazione introduceva nella vita l’universale ma in maniera immediata. Chi era immerso in pensieri, lo era appunto in maniera generica. Tuttavia questo stato era in qualche modo il più vicino alla contemplazione. Lo spirito universale vi consumava gli ultimi resti del bios teoretikòs che la vita pratica metteva in caricatura incarnandola nel distratto. Il distratto che era dominato da un pensiero sino a rischiare la vita attraversando una strada era ancora in qualche modo un eroe. Presto però l’uomo desto in tutti i suoi sensi, pronto a balzare, teso come un cacciatore, sarebbe emerso come unico vincitore.

Casa di bambola
Le descrizioni commosse di sentimenti sono sempre sospette. Le passioni brucianti si lasciano ricostruire solo da una indelicata freddezza che spulcia bene addentro. In un rapporto amoroso solo uno ama; l’altro si lascia amare. Ama solo perché è amato. Questa condizione è costituitiva e se ne cercherebbe invano un’altra. Ciò sconcerta gli apologeti dell’amore ma non il furbo Platone. Gli dei, dice quest’ultimo, maggiormente si meravigliano quando l’amato mostra amore verso l’amante, che quando l’amante lo mostra vento l’amato. Commentiamo: l’amore dell’amato è qualcosa di completamente diverto da quello dell’amante: è un mero riflesso dell’amore di questo in lui. Ciò significa che, nell’amore, l’amato ne è necessariamente l’oggetto. La secolare «oggettività» della donna – l’amata – ha assicurato finora il materiale necessario a un sentimento che si è sorretta interamente su di lei. Da quando la donna ha acquistato pur essa soggettività diventando «amante» – dopo l’intermezzo borghese che bollò questo termine, giustamente, come un insulto – l’amore si sorregge ora sulle spalle dell’uomo che, nella casa di bambola, ha preso così il posto di Nora.

Un cantuccio
Farsi un cantuccio dove dire le proprie preghiere o profferire le proprie bestemmie: questo cerca ormai lo stanco meditante. O sibili sentenze o imbastisca frasucce, il pensiero lo perseguita e si poggia rovente dove la sua anima danzante gli ispira, in quel cantuccio…

Filosofia didattica
Si possono distinguere filosofie come divertimento e filosofie didattiche. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare sono le prime che usualmente si insegnano. Mentre le seconde servono da passatempo. Così, ad esempio, mentre Il mondo come volontà e rappresentazione serve a divertire, Verità e metodo si insegna e fa invece morire dal ridere. Ma qual è la caratteristica della filosofia che abbiamo chiamato didattica? Esattamente questa, essa non può che insegnare. Una forza irresistibile ne emana che non c’è verso, essa deve per forza farlo. Non deve né convincere, né farci capire, né farci agire, né farci pensare, in breve null’altro può fare – sempre per l’impeto che è in essa – se non insegnare. Ma cosa significa insegnare se non tutte queste cose o altre del genere? Si escluda, per intanto, che per insegnare essa abbia bisogno di un luogo da cui venire impartita, per cui la sua qualità didattica sarebbe più del luogo che di quella filosofia. Dicendo qualità didattica si vuole indicare invece qualcosa che questa filosofia ha in sé, non che derivi dal luogo. Una filosofia è didattica, dunque, in virtù di se stessa, solo di se stessa. Non certamente, d’altra parte, dell’individuo che «l’insegna». Anzi, e ciò valga eventualmente da definizione, essa è didattica perché non ha bisogno di nessuno che la insegni. Quasi quasi si potrebbe pensare che essa sia talmente ingenua da ritenere che sia tale in virtù della sua verità. Ebbene sì. Essa è talmente astuta da ritenerlo.

Manlio Sgalambro, A un giovane scienziato, La Sicilia, 6 agosto 1988

«Una farfalla è annegata nel vino. Ho tolto il cadavere. Lo sfarfallio dell’ala ha coperto il calice di uno scintillio d’oro. Ho finito di bere e poi mi sono addormentato.»
— Erwin Schrödinger, Poesie

Il sottile spessore della nostra materia ci divide appena. Eppure la forza del numero non viene mai meno. Noi siamo chi siamo solo per gli altri o per essenza? La nostra qualità di scienziati o di filosofi ci è attribuita sulla base di una speciosa ripartizione di funzioni o giace nel grembo degli dei? Noi sappiamo che è così e non fu fortuito che siamo chi siamo. Ma l’opinione della gente è dilettantesca e in ogni caso solo occhi esercitati possono vedere nel chiarore abbagliante del mondo intelligibile o, come forse dovremmo dire, nel bordello dello spinto.
Cosa succede, caro amico, nella fisica, dove la bagascia «novità» fa da madre badessa nel convento? Difficile dimenticare la sicurezza di un Planck, pur in mezzo ai paradossi della relatività, in cui anzi egli vedeva la capacita del fisico di trascendere persino le intuizioni, reputate finora necessarie, di spazio e di tempo per arrivare a una fisica universale valida per ogni essere razionale, uomo o no. Era la stessa sicurezza del filosofo, di un Husserl ad esempio, che pure in mezzo ai paradossi della logica moderna e nella crisi dei suoi fondamenti, vedeva la verità filosofica brillare per tutti, uomini o dei, angeli o mostri. Oggi il fisico sembra abbia smarrito le delizie della teoria – come il matematico il paradiso di Cantor – e scellerati e miserabili parlano di fisiche a misura d’uomo. Non vorrei richiamare solo il Feyerabend e la sua gaia scienza, anzi sembra ormai che i confini di un solo nome non bastino. In realtà lei potrebbe ricordarmi che questa confusione proviene piuttosto dalla «filosofia della scienza», strana creatura che si aggira tra l’uria e l’altra accomunando le cattive ragioni di entrambe. E, per Dio, ciò mi convince. Se non si può fare a meno di usare ipotesi ad hoc, dice il filosofo della scienza più su nominato, è meglio usarle nei confronti di una nuova teoria che, come tutte le cose nuove, potrà dare una sensazione di libertà, di piacere e di progresso. Ma ricordiamo Planck ed Einstein, la loro provata convinzione di un ordo, divino o losco che fosse, di un mondo ormeggiato a leggi sulle quali ininfluente era la carne e atteniamoci a esso. Ma che mi dice della meccanica quantistica nel suo complesso? Semplici problemi di perturbazione dovuti alla misurazione (quale che sia l’insulsaggine di simili voci) lasciano dietro di se aloni pericolosi entro cui prospera un «umanismo» della scienza timoroso, come in Schrödinger, «di ridurre le esperienze psichiche a puro fenomeno gregario» ed esaltando perciò il superfluo a necessario. Peraltro parve, a suo tempo, che si rinnovassero i fasti della fisica epicurea, con la sua dottrina della «declinazione», intesa a dare in qualsiasi modo una libertà all’uomo pur di liberarlo dal timore una volta degli dei oggi di un mondo esistente in se. Non le sembra che le discussioni sull’indeterminismo, connesse alla fisica quantica, abbiano lo stesso sapore di un favore reso all’uomo? Sì, la carne e debole… Mi perdoni, mio giovane amico, ma io faccio quel che debbo. E debbo ricordarle l’ethos della scienza; la sicurezza – sia pure metodologica, almeno inizialmente – che ci sia un mondo indipendente da noi. Che noi siamo sbattuti dalle circostanze su questa arida riva, come imminenti cadaveri, e che tutta la nostra forza sta nel pensiero rettamente. Non è la nostra gloria un giusto pensiero? Cosa lasceremo di noi come specie – se mai i nostri segni fossero raccolti e se qualcuno ci succedesse? -. Anche se dovessimo optare per un opportunismo epistemologico, il primo passo sarebbe sempre quello di «descrivere il mondo indipendentemente dagli atti della percezione». Lei avrà qui riconosciuto la spregiudicata posizione di Einstein. Ma è ancora evidente come il nobile fisico abbia, assieme a Planck, riflettuto più di ogni altro su questi problemi e nel senso più degno. Ma torniamo a noi e riprendiamo il problema dagli inizi. Come definire, dunque, l’ethos dello scienziato? Sappiamo che un rigoroso specialismo è connesso alla scienza. Specialismo significa, quanto meno, praticare un settore ben delimitato del sapere e ignorare tutto il resto. Ma che tipo è l’individuo che può farlo? Chi può rassegnarsi ad ignorare quasi tutto, collocandosi in questo «quasi» con il mostruoso ampliamento di un minuscolo settore, senza cui però non vi sarebbe nella scienza quel «progresso» che viene vantato? Questa considerevole osservazione di Ortega vale da primo sorpreso commento: «siamo costretti – egli dice – a rimarcare l’assurdo di questo fatto innegabile: lo sviluppo delle scienze sperimentali è stato spinto fino ad una notevole ampiezza per opera di persone incredibilmente mediocri ed anche meno che mediocri». Precisiamo: ciò che allo sguardo di Ortega appare come mediocrità e rinuncia. All’ethos dello scienziato essa appartiene come indistinguibile da ciò per cui egli è ciò che è. Alla base della scelta di un campo sta un atto non una passività. Egli non subisce dunque i limiti della sua persona, di ciò che e come individuo. Ma si limita energicamente. Qui il limite è un atto, ripeto, non il tratto dominante di un’esistenza limitata. Sarei propenso, giovane amico, a definire rinuncia ciò che si nasconde dietro questa faccenda. Ma già l’ho detto. Piuttosto bisogna sottolinearne un altro tratto: la rinuncia alla pietas. L’ethos dello scienziato lo costringe alla disumanità. Per lui l’uomo non è umano. Lo scienziato che lo vedesse diversamente tralignerebbe da quella via che unisce uno a uno i rappresentanti della scienza e ne fa una sola catena, ne fa la scienza. Che oggi spazino «scienze» che si occupano «umanamente» dell’uomo è un segno di tempi oscuri. Chi, per giovargli, gli si avvicina troppo, lo perde. Lo schermo dì scienze come la biologia o la medicina è che esse maneggino la vita e «l’uomo» con assoluta indifferenza. A questa indifferenza si legano del resto i loro stessi scopi, non alla pietas che tratta l’individuo come persona e dopo un poco l’abbraccia, piangendo con lui.
Bisogna, a questo punto, interrogarsi seriamente sul vantaggio e il danno della scienza. Il secondo è incommensurabile al primo, siamo d’accordo. Ma questa è la grandezza della scienza da quando, con la luce che sparse, squilibrò il rapporto tra la richiesta di conoscenza, tra il suo fabbisogno commisurato a un generico utente vivente nel tardo quaternario, e il surplus che oltrepassati i limiti di sicurezza mette in forse la stessa esistenza del suo atterrito beneficiario.
Ho l’obbligo dunque di dirle, giovane amico: se sente ancora un moto di pietà per l’uomo si volga allora alle più recenti «magie», alle fole che prosperano rigogliose all’ombra del secolo (intende: lætaberis, «stai attento, te la spasserai un mondo», Apuleio, Metamorphoseon, I, 1). Ma se la grazia della scienza le proviene da più lontano e lei non può essere che ciò che è, non si curi del suo simile e se la scienza è funesta, partecipi a cuor tranquillo al funerale dell’umanità. Dopotutto, non può essere che attraverso la scienza l’uomo stesso cerchi un riposo e una fine dignitosa?

Manlio Sgalambro, Pornografia, La Sicilia, 30 luglio 1988

Il vento soffia a mezzogiorno, poi gira a tramontana; gira e rigira e sopra i suoi giri il vento ritorna.»
— Ecclesiaste

Da una “Memoria sull’odio”
Passi di una Memoria sull’odio sono questi che seguono. Come passione inutile esso deve essere ancora esaminato con dovizia di riflessione. Meditazioni accurate dove si impegni l’anima stessa. Bisogna odiare, non c’è scampo. Non si può guardare chi ti è accanto per caso, a due passi, senza sentirlo. Presto la passione si stabilizza, assume contorni precisi, profili perfetti. Un sentimento di invidiabile chiarezza, più terso dell’amore, disinteressato, come può esserlo, ma certamente più di ogni altro sentimento. Qui è il difficile passaggio dove la ragione si inoltra in un bosco come un bambino smarrito. Ma nell’odio essa si ritrova come in nessun’altra passione. Un odio metodologicamente organizzato contro la realtà: è forse questa la ragione? Studiamolo dunque con cura. Scoviamo quel che c’è in esso che lo fa esistere, come possa esserci e cosa dev’essere il mondo perché esso possa installarvisi e non andarsene mai più. Insomma, rendiamoci edotti se si tratta di una contingenza. Semplice passione che rimane impigliata a ciò che la fa sorgere e scompare con essa? Oppure è dall’odio che sorgono tutte le altre? È esso dunque la passione primigenia dove altri invece la videro nell’eros? E le cose sono forse unite così fermamente da questo vincolo come dalla catena che trattiene gli schiavi all’unisono ai remi? O soave «amore» dell’odio se tuttavia esso unisce! (Non si troverà qualcuno che lo dirà?). Se l’amore nasce da ciò che manca e dal desiderio di esso, per cui si ama qualcuno come se lo si fosse creato, come opera propria, l’odio invece nasce dal senso che qualcosa è di troppo. dalla sensazione che un altro tende a prendere il tuo posto, il tuo spazio e il tempo, e se ne fa padrone. O come se l’essere stesso fosse così in eccesso che traboccasse da tutti i lati e tu non potessi fermarlo. Ecco, l’odio nasce perché una persona o una cosa, o al limite l’essere stesso, è di troppo. Così la nostra impotenza, l’impossibilità di annullare questa massa in cui siamo invischiati, lo genera al suo posto. Esso è dunque lo scacco di un annullamento desiderato, ma impossibile. Ritorniamo a chi ci viene a tiro. Ecco quest’essere incarnato. L’essere è nei suoi peli, nelle cispe, negli occhi mucosi. Ancheggia con quella ragazza e le sue cose: anche lì c’è l’essere e i money, anche qui… E allora nasce l’odio, al posto dell’olio bollente, e degli stiletti, viscidi come serpenti mortali. Al posto dei roghi, al posto dello squartamento (i cavalli che volano in quattro diverse direzioni, perfette come tracciate da un divino geometra). Oggi ci contentiamo – piccola cosa inutile, bava che esce di bocca e cola come nei vecchi – di un piccolo clistere di odio.

Sulla morte
Che la morte appartenga alla stessa essenza dell’uomo – e come qualcosa d’interno sia annidata in lui – o secondo il contadino, che l’uomo appena nato è già abbastanza vecchio per morire, ciò manca esattamente di descrivere, già a livello di fenomeno, il sopravvivente senso di esteriorità della morte. La morte è cosmica non umana. Ciò vuole dire che precipita sull’uomo dall’esterno di sé, dall’intimo intrigo di altre forze. Si precipita sull’uomo di cui le condizioni non sono mai tali da potere condividere la morte come qualcosa che ormai gli tocca. La morte è sempre in più. (Che l’uomo sia mortale: esercizio di scuola, buono per sillogismi di prima figura e a far sbadigliare). Che la morte sia certa, non è mai così «certo». In qualche modo ciò indica non che l’uomo la «copra», il fuggirne del pensiero che non vuole pensarvi, ma proprio la sua estraneità all’uomo, come tale. Essa è fissata infatti dal cosmo, dalla sua lontana fine che convoca sin da adesso, uno per uno. La prosopopea dell’esperto il quale stabilisce che ormai quel tizio è spacciato tende ad accreditarne l’immanenza. Si conoscerebbe tutto sulla morte solo conoscendo la vita! Ma la morte viene sempre dal di fuori. Proprio perché c’è un mondo, c’è la morte. Prova estrema di quello.

Pornografia
La pornografia rappresenta la ratifica della «morte» della madre e quindi del principio femminile, il grembo. L’ostentazione della vagina, come immagine corrente, ne rivela il grande segreto e la sputtana. Le antiche delicatezze del coito in rapporto allo scopo non sono indifferenti affinché si formi la figura della madre e non sia maledetta. Alla stessa maniera della pornografia, la deliberazione dei piaceri erotici, centellinati col punto dell’esperto, attraverso il conseguente rallentamento dello spasimo finale, atto da mandriani, conclude allo stesso risultato. Si compiono sforzi sovrumani per abolire la madre e codificare il figlio come un incidente erotico che non merita soverchia attenzione. La pornografia è lo sbarazzarsi infastidito del sacro che copre ancora le pudende e gli atti inerenti come un paio di vecchie brache. Ciò che qui, oggi, si presta all’immagine con voluta compiacenza, si vedrà forse un giorno per strada in ogni angolo che sia buono allo scopo. Già il vecchio Cratete, il cinico, copulava con la moglie davanti alla porta di casa. Così non celata, ma sotto gli occhi dell’altro, indifferenti, la copula avverrà senza scandalo come una stretta di mano. Si apre la via per una nuova castità. Essa non costerà rinuncia e martirio, come nelle vecchie cantafere. Ma sarà spontanea come il profumo di un fiore o l’aria che si respira. Il primato del sessuale, accreditato dalla sua stessa parvenza, cadrà nell’indifferenza totale. Lo sfrontato principio di vita, legato al grembo del destino, non troverà così la bruciante materia prima. Sarà lo stesso erotismo, raffinato ed esoterico, a liquidarci.

Manlio Sgalambro, La filosofia e l’università, La Sicilia, 23 luglio 1988

Perché la filosofia nelle università? Così potrebbe essere formulata una domanda che già a suo tempo ebbe le sue brave risposte ma che oggi ne ha bisogno di nuovo. In una lettera del 1816 che, dal suo contenuto, si potrebbe chiamare, con una allusione diretta, «Filosofia nelle università», Hegel enuncia una ragione su tutte: la filosofia deve essere insegnata. Il cosiddetto pensatore avrebbe invece lo svantaggio di saltare disinvoltamente il momento dell’apprendere. Egli si precipita come una furia sulla cosa stessa, contando sul suo talento, per trovarsi alla fine in mano solo intuizioni private. Nello stesso tempo il pensiero indipendente rimane fuori dalla grande razionalizzazione moderna mentre il sapere, nella sua generalità, diventa pubblico. Un concetto di pubblico servizio viene così acquisito alla filosofia assieme all’acquisizione della sua qualità burocratica. Da Hegel a L’autoaffermazione dell’università tedesca di Heidegger tutto ciò, nell’essenziale, è diventato pacifico.
L’equivalenza filosofo-funzionario indigna invece Schopenhauer; ma essa è più attuale della sua indignazione. Naturalmente i lamenti di Schopenhauer valgono lo stesso come dolenti domande corum mundo: «Oh se si potesse fare comprendere a questi filosofi per passatempo – scrive in Sulla filosofia delle università – la vera e terribile serietà con cui il primato dell’esistenza afferra il pensatore e lo scuote sin nella sua più profonda intimità», e per suo conto chiede per la filosofia solo un cantuccio in cui la verità possa celebrare i propri saturnali.
Grandi filosofie, portatrici di problemi e soluzioni a ogni livello, abituate a porre «questioni radicali» su ogni cosa non trovano niente da dire sulla «universitarizzazione» della filosofia. (Così Husserl che con Schopenhauer si trova solo d’accordo nell’esigere che la filosofia abbia a che fare, come dice già quest’ultimo nei Parerga, «con le cose stesse»). Husserl constata che oggi «si vive in un mondo in cui si ricerca invano il senso che prima era indubitabile perché era riconosciuto dall’intelletto come dalla volontà». La domanda è di tipo perbenistico-universitario. Presentata in modo drammatico induce a pietà e terrore e in ultimo a una buona catarsi in poltrona. Husserl va in giro a proporla a ogni sorta di pubblico. Alla fine l’ascoltatore si alza, soddisfatto che nel giro di un’ora si sia trovato il pelo nel mondo e lo si sia finalmente tolto. Come puro teorico della conoscenza, le sue stesse direttive gnoseologiche restano al di qua di ciò che prescrivono. Si veda il problema delle riduzioni. Sociologicamente l’io «ridotto», l’io puro, si identifica, sotto sotto, con quello del filosofo burocratizzato, ordinario o almeno assistente di ruolo più che con il «funzionario dell’umanità».
Cos’è dunque la «universitarizzazione» della filosofia? Anzitutto la neutralizzazione dei suoi contenuti di verità. Quando nel quadro della filosofia universitaria europea contemporanea si presenta l’Essere e tempo di Heidegger, come articolata espressione di temi fondamentali, assistiamo in verità alla comica «universitarizzazione» di matters of fact come l’angoscia, la cura, la noia, la morte… Tutto ciò viene travolto in un linguaggio burocratico, «ufficiale», nel quale ciò di cui si parla è nello stesso tempo messo a tacere. La stessa riproducibilità, tipica del lavoro universitario, rende altrettanto comica la cosa quando a «riprodursi» sono situazioni affettive come la disperazione o l’angoscia. In realtà l’universitarizzazione della filosofia, come massima espressione del sapere concernente la verità, ha proprio lo scopo di razionalizzarla per attenuarne la pericolosità sino a ridurla a margini dominabili.
Qualora la filosofia non fosse il più nobile dei saperi ma un sapere ignobile di bisogni e di miserie, i suoi contenuti di verità potrebbero agire in senso altamente distruttivo. Essa potrebbe rappresentare un reale pericolo sociale. La sua universitarizzazione consente invece che il pericolo si neutralizzi. Il gergo universitario, in filosofia, adempie al suo compito innocuamente allo stesso modo come un trattato di tossicologia non avvelena. Ciò che l’università insegna agli occhi di tutti è la filosofia, ma segretamente è il modo come farne a meno nello stesso momento in cui mette in moto il suo apparato di esperti e la loro organizzazione come pubblico servizio. Ma il reale servizio che essa rende è la sua eliminazione tacita.
Ciò avviene anche esplicitamente. La filosofia prende congedo, e nel congedo i concetti si arrestano e si trasformano in immagini, scrive Adorno. Tutto questo è sintomatico. Quale può essere il compito residuo della filosofia se essa ha a disposizione solo immagini? Indurre la logica a parlare, viene risposto. «Anche i concetti caduchi della gnoseologia rimandano al di là di loro stessi. Fino entro i loro formalismi supremi, e soprattutto nel loro fallimento, sono una pagina di storiografia incosciente, e possono essere salvati se li si aiuta a prendere coscienza di sé entro quello che da soli intendono».
In questo salvataggio, dove in extremis viene assieme salvata, contro l’intenzione apparente, la filosofia stessa, consisterebbe l’ulteriore compito della filosofia come «memoria della sofferenza sedimentata nei concetti». Si adempirebbe così il voto espresso da Simmel nel Diario Postumo. Ma nella storia, alla quale viene rimandata, la filosofia non incontra soltanto la storia ma ciò che la domina e che domina quindi anche lei stessa, di fronte a cui entrambe rivelano la loro impotenza. Persino un Dilthey, che di questo compito soteriologico si incaricò a suo modo, e in un’epoca tutto sommato fiduciosa, avrà dei dubbi. Questa era parsa a Dilthey la «sofferenza» della filosofia: la ricerca del duratura e la «caducità e relatività» dei suoi risultati. Già in Dilthey stesso però questo aspro dissidio sembrava comporsi e si incontravano e univano il fremito e il brivido del terrore ma nel contempo il calmo fervore di chi poteva «abbandonarsi quietamente alla forza della coscienza storica e porre anche la propria opera quotidiana sotto il punto di vista della connessione storica». Questo abbandonarsi quieto cela però forze infernali. Muta infatti la stessa funzione dell’università che ne doveva essere il centro. Essa diventa il centro, sì, ma dell’autoconservazione che vi trova il suo cervello. La forza cieca, di cui parlava Schopenhauer, assoggetta l’intelletto ma ora sistematicamente. L’università esprime la volontà di vivere che ha sottomesso la volontà di sapere. Il fenomeno dell’universitarizzazione appartiene dunque alla stessa morfologia dell’epoca. La filosofia ne paga le conseguenze in misura maggiore proprio per la sua funzione. Il concetto di verità viene fronteggiato dapprima col dubbio scettico quindi con la sua caricatura, il relativismo della cattedra, ora con la paura – con la «filosofia dell’università».

Manlio Sgalambro, Dialogo di morti, La Sicilia, 9 luglio 1988

— Colote: Da quando hai attratto astutamente la mia attenzione sulle pietre – i nostri avi, mi hai detto, rendevano onori divini non a statue ma a pietre non lavorate ed Hermes prima di essere un Dio era solo pietra – non ho avuto pace e ho atteso che il nostro colloquio riprendesse per saperne di più. Levigate dal tempo, passato su di esse come la mano di un Dio, le sculture al confronto, hai aggiunto, sono giocattoli per bambini. Ma dimmi, dunque.
— Epicuro: Sì, di questo ti parlai e potrei aggiungere che i nostri vecchi riponevano il centro del mondo, l’omphalos, in una pietra, ed altre cose ancora ma il mio intento era di attirarti dove volevo circondandolo di cose curiose e piacevoli. In realtà io vedo in esse l’incarnazione di un desiderio. Vi vedo l’immagine del bene, o Colote, o, come meglio ti dissi or ora, il suo desiderio.
— Colote: So per esperienza che non parli invano anche se in quello che dici talora mi sembri ebbro. Ma veramente il bene è assai oscuro se può essere come tu affermi.
— Epicuro: Bada, io ti incito al desiderio del bene non a farlo. Quest’ultima cosa solo a pensarci mi atterrisce.
— Colote: Non vedo senso in quel che dici, amico. Non fu il bene il più bello ornamento dell’uomo? Non fu anteposto da te stesso alla ragione? Non è il profumo della vita?
— Epicuro: Non mi deludere o Colotuccio. Rifletti. Cos’è fare il bene a qualcuno? Anzitutto non fargli del male. E come lo puoi se già vivendo glielo causi? Se già ammazzi, rubi, stupri, senza che né gli altri se ne avvedano né te stesso? Che tali ed altre del genere equivalgono a vivere?
— Colote: Ma non insegnasti la felicità, Epicuro? Non la maneggiavi con tenere mani come fragile cristallo e tuttavia senza romperla? Per te insultai Parmenide e Platone, derisi Democrito e Socrate… e ora?
— Epicuro: Tu mi richiami a quel che pensai da vivo. Quando fui un vivente proprio ciò mi limitò nel pensare. Ma ora che sono un’ombra, ora il vero spazia davanti a me senza alcun impedimento e lo raccolgo chinandomi come si fa con i fiori. Quindi non mi ricordare ciò che dissi allora. Era solo fumo e boria.
— Colote: I nostri, devono dunque essere pensieri di morti?
— Epicuro: Colgo un rimpianto nella tua voce. Ma solo i morti sono in grado di pensare. Non invidieremo ai vivi il loro gramo pensiero che essi trascinano qua e là secondo i loro turpi bisogni e infangano mescolando alla loro ingordigia vita. Ma lascia adesso che continui. Ti dicevo che volevo parlarti di un desiderio o di qualcosa di più fatuo, del desiderio di un desiderio… Immagina una pietra. Immota, preda dei venti, del tempo, di mille bufere, essa è come un Dio. Nulla la intacca nella sua essenza. Non ti pare che questo sia già un segno della sua superiorità? Perché un Dio, là dove basta un ciottolo? Posta al limite della vita, ne rappresenta l’aspetto più benigno. Sì, una scultura al confronto di una semplice pietra – di cui ha messo mano il cosmo stesso – è un passatempo da ignari ma pure in essa è incarnato, se ci badi, il nostro sconfinato desiderio di essere simili alla sua materia, priva di menzogna, più che alla sua forma dove ritroviamo in qualche modo ancora noi stessi. Come se l’impassibilità di quella volesse tramutare anche le passioni in leggeri smarrimenti, in un quieto trasalire.
— Colote: Insegnavi anche questo nella tua vita, o Epicuro, quando ci invitavi ad essere come Dei, da nulla turbati e noncuranti. Ora, dici, basta un ciottolo.
— Epicuro: … Ma anche l’immobile slancio di una scultura esprime la brama di passare dallo studio imperfetto e primitivo della vita a qualcosa d’altro per cui manca il nome ma non il desiderio.
— Colote: Ma non è questo il bene, o Maestro? Perché sei così cauto, perché tu ostini a non pronunciarne il nome o lo fai così a malincuore?
— Epicuro: Perché, mio piccolo amico, a me pare immenso e invece troppo indegno il vivente. O solo uno schiocco della sua lingua, un semplice movimento di labbra. Ma ci pensi, Colote, all’eco misteriosa di questa parola. E a come poté la specie immaginare il bene, a come poté sia pure per un attimo sognare sino a questo punto e non cadere morta subito, all’istante? Noi che non siamo più nel bene, per noi nulla turba il quieto discorrere e l’aria ci nutre e gli odorosi fiori accompagnano i nostri sensi con mille colori. Per noi morti il bene è raggiunto!
— Colote: Ma allora, dove vedi il destino dei vivi tu che cercasti per loro e ti accollasti il loro dolore, spremendolo tutto, per dare ad essi solo il piacere? Cosa ne è di questa vita in cui un uomo si riconosce più degno o meno a secondo come trascorre i suoi giorni e gli atti che compie? Se tu dovessi ancora parlare ai vivi, cosa diresti loro o Epicuro?
— Epicuro: Parlerei di statue, Colote. Di pietre e di fatui desideri, così come ho fatto con te. E non cercherei più negli interspazi dei cieli. Dei beati da imitare. Guarderei quel ciottolo lungo la via che mena al nostro giardino e non vi arriverei mai perché in esso mi parrebbe di avere intravisto l’immagine del bene. E vi rimarrei fermo per sempre, e non vi sarebbe giardino né tu stesso o Colote, né Fedro che per testamento lasciai libero. Vi sarebbe solo Epicuro, o Colote. Solo e felice.

Manlio Sgalambro, Nell’anno della peste…, La Sicilia, 3 luglio 1988

«C’era in Londra una terribile peste / Nell’anno sessantacinque / Spazzò via centomila anime / Eppure io vivo.»
— Defoe, A Journal of the Plague Year

Il viaggio
Come dei piccoli Odissei vanno avanti e indietro senza che «vedano» niente. Chi sa tutto questo non viaggia, sta fermo. Solo così vede il mondo. Lo diverte l’Inno al viaggio di Stefan Zweig: «Le frontiere si spezzano, pali di vetro. / Lo spirito unisce le lingue straniere…». Illusione di chi viaggiò ma poi tornò a mani vuote. A chi piacque sempre la casa, spaziare in mondi lontani non fu congeniale. Andare via da casa era una colpa che il ritorno da vecchi non espiava. (Il vero viaggiatore, dimentica di ritornare). Lo stesso spirito critico, che segnò con altissime mura i confini del mondo conoscibile, nacque dalla riluttanza ad abbandonare la casa a vita, simbolo del patrimonio e delle cose care. I limiti che esso impose rispecchiavano il cortile, i muri, le care stanze in cui si svolgeva la vita quotidiana e si educavano i figli e si moriva. Oggi non soccorre più nemmeno la «scoperta», perduto premio del viaggio, e delle città sono rimasti solo i gloriosi nomi. Un francese che viaggiò molto si chiese curioso: «Les villes modernes méritent-elles mieux qu’un séjour de sept à huit minutes?». Chi lascia i muri screpolarsi non accetta che si cancelli il passato, né di scongiurare il tempo che trascorre, col sortilegio. Essi ne segnano il discorso, mentre si stingono le pareti. Nelle care ferite si celano tenere ombre.

Vecchia filosofessa
La vecchietta che sgambetta per il mondo per godersela, tanto più, come per Peter Gilgus, che non c’è l’Orso bianco, si comporta come fosse ogni giorno festa o, dice Gottfried Keller, come il sorcio quando il gatto non c’è più. Essa ammira le azzurre profondità del cielo senza nubi e senza Dio… Ma tornata a casa, piangerebbe sulla sua minestra se sapesse che Dio la sta aspettamelo assieme alla morte.

Stanza d’albergo
In una stanza d’albergo non si è solo lontani da casa, ma da quel mondo che ci fu familiare dalla nascita e dove si svolse la nostra vita. È come se ora si fosse fuori da esso e da ogni cosa, in un punto senza dimensioni, in un luogo magico che solo lo spirito saprebbe notare come allorché si era bambini e c’era un punto inviolabile dove si era al sicuro e niente poteva accadere. Solo cose meravigliose. Nulla più si rivela nei luoghi familiari in cui un tempo abitarono persino gli dei e ora nemmeno gli uomini. La casa non ha più scopi, se non per vecchi nostalgici. I più rozzi bisogni si soddisfano tra moquette e cristalli preziosi. Abitare non ha più alcuno scopo. La casa e ormai solo un grande water. (Eppure il cielo vi entrava dalla finestra, una volta).
Ciò che un tempo fu il monastero – esso garantì dalla casa dove stava in agguato il demonio – oggi è la stanza d’albergo. I corridoi silenziosi sono tali e quali le strade come saranno dopo la fine del mondo e celle sono le stanze, dove puoi dire le tue orazioni o bestemmiare. Come se su di te si chiudesse la volta celeste, come se non dovessi più uscirne. Da un momento all’altro la porta però si può aprire e l’incanto spezzarsi come un bicchiere. Ma fino a che ti puoi chiudere dentro nulla ti può accadere.

Cattivi rumori
Da palazzi avanti negli anni, case sfrecciate. fumiganti da cattive minestre e di liti, s’innalzano come da un invisibile camino, luminosi pensieri, note che percuotono il grande sonno delle cose come se volessero svegliare i morti. Tutto questo non avviene nelle linde case, fornite di patio, dove le piante convivono con i padroni sorse se fossero di famiglia. Tutto ciò che costoro producono scende veno il basso e l’unico suono che l’accompagna è uno scroscio d’acqua.

Critica dei nervi
La sostituzione di una «critica dei nervi» alla tradizionale critica della ragione appartiene agli eventi fisiognomici di quest’epoca. Sebbene essa sia finora debolmente avvenuta. Intendere in termini di nervi ciò che fu compreso come «ragione», ubbidisce, oltretutto, a quel compito di sviare che un dimenticato attribuì alla vera maestria. In questo travaglio si intravede la direzione di una critica che non ha ancora trovato la possibilità di esprimersi totalmente e di porsi perciò autorevolmente al posto delle vecchie ninne nanne. I cosiddetti sensi non hanno il sonnolento ménage attributo loro da Locke e Kant. Un colpo di pistola è una reazione causale così inconfondibile che non ai tempi di Hume la partita a bigliardo tra gentiluomini illustrata nei Philosophical Essays concerning Human Understanding. Una tensione nervosa trasforma questi deboli impulsi in un fato. Allo sguardo agitato, essa è data come un nesso tra incubi. Se la ragione è esclusivamente un sistema nervoso, ciò che la vecchia puttana chiamò le sue Idee sono solo ambivalenti barriere che con la loro efficiente «pazzia» difendono l’individuo da qualcosa di peggiore, da ciò che lo distruggerebbe. La nevrosi, che nella visione classica, impedisce il godimento, assicura quel godimento che essa stessa nel frattempo è diventata. Il blocco davanti alla cosa in sé elevato da Kant tramite la controversa dottrina delle Idee è l’inibizione nevrotica rivolta a ciò che potrebbe distruggerci solo che lo si conoscesse. La reazione idealistica contro la «realtà» è la malattia mondiale per cui essa la vede, attraverso se stessa, come sana. Ciò che si colpisce in piccolo come malattia, in grande è pacificamente accettato. Non c’è maggiore felicità che la felicità di non essere felici.

Manlio Sgalambro, Nečaev, La Sicilia, 18 giugno 1988

«Uno dei principali avvenimenti dei Demoni sarà il famoso assassinio di Ivanov, compiuto a Mosca da Nečaev.»
— Dostoevskij, Lettera a Kathy del 20 ottobre 1870

Quel che attira la nostra attenzione su Nečaev è anzitutto la sua stessa esistenza; il suo essere apparso in un momento straordinario e la parte sostenutavi. Egli sostenta tutti, non appaga nessuno; ma è il suo compito. Tradisce gli amici, viola ogni fedeltà, uccide infine un suo stesso compagno. Ma egli vuole rappresentare proprio lo scompiglio, vuole essere lo stesso disordine. A quale intento ubbidisce? Quale decisione gli consente di farlo con tanta serenità, con tanto abbandono?
In una lettera Bakunin scrive di lui: «Se l’avete presentato a un amico, la sua prima cura sarà di seminare la discordia contro di voi… Il vostro amico ha una moglie, una figlia, egli tenterà di sedurla, di ingravidarla, per strapparla alla moralità ufficiale e gettarla in una protesta a darci il motivo di tutto; nel Catechismo del rivoluzionario (che scrive assieme a Bakunin) egli dirà: «Il rivoluzionario è un uomo perduto… Nella profondità del suo essere, non soltanto a parole ma di fatto, egli ha rotto ogni legame con l’ordinamento civile, con tutto il mondo colto e tutte le leggi, le convenzioni, le condizioni generalmente accettate, e con l’etica di quel mondo. Sarà per esso un nemico implacabile e se continuerà a viverci, sarà soltanto per distruggerlo più fattivamente».
Né Marx né Angels vogliono sapere di questo «assassino vulgaris», ma impassibile egli si richiama anche a loro. Ancora un imbroglio? Una viltà tra le tante altre? Una contraddizione di cui non si accorge? In realtà egli non può fare altrimenti ma sa che nessuno può volerlo. Né Bakunin né Marx. Un giorno, forse; ma oggi, quest’oggi da cui egli è stregato, un oggi quasi senza dimensioni, un oggi di cui vede solo ciò che deve distruggere, oggi non può volerlo nessuno; non deve volerlo nessuno. Del resto, egli non ammette intermundia: amicizia, amore…: nessuna di queste cose deve salvarsi affinché non ci si salvi più in nessuna di essi.
D’elezione Nečaev appartiene ai Lumpen (sebbene sappia citare a mente interi brani della Critica della ragione pura); a quelli che Marx definisce la “putrefazione passiva” («Vagabunden, Verbrechern, Prostituierten»: vagabondi, delinquenti, prostitute) e che caccia via dal Klassenbewusstsein, dalla “coscienza di classe”. Ed è ai bordelli, alle osterie, alla strada che egli mira, non alle fabbriche. È sui miserabili, sugli infelici che conta per questa distruzione che progetta. Un uomo perduto: egli si è definito.
Ma quello che ci mette immediatamente in situazione davanti a Nečaev resta il suo delitto. Gettati in un atto del genere, è impossibile limitarsi a parlarne. Se è vero quello che egli dirà, che l’ha fatto per noi, è un nodo inestricabile dove siamo nello stesso tempo giudici e colpevoli. I fatti sono noti. Cannac, in un capitolo del suo libro – Netchaiev, du nihilisme au terrorisme – li ricostruisce minuziosamente. Ivanov, membro della fantomatica Società dell’Ascia “fondata” da Nečaev, mette in dubbio l’esistenza del comitato centrale rivoluzionario in nome di cui Nečaev diceva di agire, mette in dubbio l’esistenza delle cellule di cui parlava, lo accusa di menzogna. Le accuse erano esatte ma ammetterlo, commenta Canac, era impossibile: «rari sarebbero stati coloro, egli credeva, la cui fede rivoluzionaria avrebbe potuto sopravvivere a una tale rivelazione». Da qui la sua decisione attira Ivanov in un tranello e lo uccide. Questi i fatti, questa la conclusione di Cannac: «A dispetto dei titoli incontestabili con i quali egli compare davanti alla storia, la sua figura rimane oscurata da un crimine di cui egli ha aggravato il significato tentando di giustificarlo in nome di principi che, a sentirlo, dovevano costituire il credo di ogni rivoluzionario».
Indubbiamente non ci sono mezzi termini o ci troviamo davanti a un volgare assassino o davanti a chi ha posto, vivendolo e facendolo vivere sino all’estremo, il problema della fede rivoluzionaria. Nel Catechismo troviamo ancora ripetuto: «Il rivoluzionario è un uomo perduto. Egli non deve avere relazioni personali, né cose o esseri amati. Dovrà spogliarsi anche del suo nome. Tutto in lui deve concentrarsi in una sola passione: la rivoluzione». In queste parole vi è il suo atto e non la giustificazione di esso. Per chi si muove tra i giudizi di fatto, il comitato centrale, le cellule, non esistono: agli occhi dell’incredulo solo menzogne. Tuttavia, sostiene Goldmann, «sarebbe altrettanto assurdo per Kant e Pascal affermare o negare l’esistenza di Dio in nome di un giudizio di fatto quanto … affermare o negare in nome di un siffatto giudizio il progresso e la marcia della storia verso il socialismo».
Impegnato dunque a suscitare una fede in una rivoluzione “impossibile” quello di Nečaev è il problema di Pascal: una prova che sia un atto. Ma se egli ha ucciso per questo, noi dobbiamo ricordare a noi stessi le celebri parole: «Se la fede non può giustificare il fatto di volere uccidere il proprio figlio, Abramo cade sotto il giudizio comune». Se esse possono valere per Nečaev è che anch’egli e quelli a cui si rivolge sono impegnati a credere in una “rivoluzione” che non ha per loro nessun’altra evidenza oltre quella di sempre – miseria, oppressione, sofferenza – e si sorregge perciò interamente sul loro credo quia absurdum.
Camus aveva osservato: Nečaev che non ha attentato alla vita di nessun tiranno, uccide invece un compagno. Sappiamo quello che egli vuole dirci; ma anche Abramo, che non ha ucciso nessuno, tenta di uccidere il proprio figlio. Vediamo bene le intenzioni di Camus, che poi sono quelle stesse di Cannac: entrambi vogliono togliere a Nečaev il suo delitto. Ma per parlare di Nečaev bisogna prenderlo in carico. Si può giustificarlo o no, non si può toglierlo.
Ce ne rendiamo conto, se Nečaev avesse ucciso per noi, non potremmo cancellare un atto situato nel nostro passato, solidale con una storia che abbiamo accettata. Tuttavia poiché il piano in cui agiscono i Nečaev – al contrario di quello in cui agisce Abramo – non è quello di una trascendenza imperscrutabile, i cui segni oltrepassano il tempo, sebbene quello di una storia che presto mostra le sue vie, ciascuno, al momento giusto, saprà se essi sono degli assassini o dei padri della fede.

Manlio Sgalambro, Morte di Spinoza, La Sicilia, 11 giugno 1988

Ho un tale ricordo di Spinoza che quasi non sembra che egli mi appaio attraverso la spietata memoria. Questa mi terrorizza mescolando cosa a cosa e rendendo ancora più confuso ciò su cui tiranneggia. Ma, ombre di Meneceo e di Lucilio, non ho altro mezzo per rievocare ciò che egli è stato per me. La storia, dici? Che faccenda da camerieri! Rileggerne adesso l’opera? Ma non cadrò in questo imbroglio. È quello che è rimasto di lui in me per tutti questi anni che mi sta a cuore non ciò che alcuni giorni vi potrebbero aggiungere. Meglio dunque l’attenzione che gli prestammo e la sottomissione incondizionata dei nostri inizi. Eterno candidatus theologiæ gli devo crudeltà come la proterva insopprimibilità di Dio. Di esservi incatenato come Prometeo sulla cima del Caucaso, mentre questa nozione mi rode la mente. Ma le sue intenzioni erano pure. Sentivo e sperimentavo peraltro come non ci fosse distanza o differenza e potevo dire a me stesso «questo sei tu» ogni qualvolta egli mi tornava alla mente.
Ecco la sua prima dote: egli è come se non ci fosse mai stato. L’Ethica, perché è di questa che vogliamo sapere, è come se si fosse scritta da sé. Come se fosse l’opera di nessuno. Ma allora, mi chiederai, perché lo rammenti, perché anche tu mitologizzi? La nostra cattiva abitudine di unire a un’opera un nome, ecco la causa. La nostra ignoranza che le migliori tra esse sono superbamente increate. Che esse sembrino legarsi a un nome, è solo la nostra idolatria. Tutto ciò hai ragione di rimproverarmelo, di biasimare la mia leggerezza e l’incoerenza in cui mi dibatto.
A chi lo felicitava per una predica ben fatta, Lacordaire rispondeva: «Il diavolo me lo aveva detto prima di voi». La stessa risposta bisogna dare a chi semplicemente vi attribuisce una filosofia. Il diavolo ve lo aveva già detto. Il diavolo o l’orgoglio, come credete. Una vera filosofia, aggiungo, non è di nessuno. Come il rumore del mare che batte sugli scogli o il vento che scuote le cime degli alberi, una anonima voce che si lamenta quieta.
Per tanto tempo traemmo dalla Vita di Spinoza del Colerus energia per filosofare. Stabilivamo un parallelo con la sua vita secondo un ineguagliabile metodo, ma poi tremavamo di fronte a ciò a cui talvolta Colerus si spingeva. La luce che emanava da Spinoza, spiegava Colerus, non era meno della luce del sole. Sospettavamo che a quella similitudine avessero mano cielo e terra compiaciuti. Eppure c’è una ragione, meno fortuita, per cui non faremo mai a meno di pronunciarne il nome. Scomparendo davanti alla sua opera, in questo modo insidioso egli si legò ad essa per sempre. Dov’è infatti la traccia di quest’uomo nell’Ethica? Sapresti tu veramente indicarmi un punto in cui sia presente sia pure la sua ombra? Non ti sembra l’irrealtà il suo attributo? Ecco dunque cosa ha fatto Spinoza e la ragione per la quale dobbiamo assolutamente ricordarne il nome. Egli ha saputo fare in modo da non essere l’autore dell’Ethica. Ha fatto solo sì che un’Ethica ci fosse. È diverso.
Così è questo problema, non quello in cui si affanna la tradizionale filologia, proprio esso ad essere il nostro. Noi siamo d’accordo – non è vero? – che quest’uomo il quale cancellò letteralmente se stesso ha dunque bisogno di una memoria che insegua la sua fugace esistenza come una mura di cani. Ma che ne avremo alla fine? Un ghirigoro, un arabesco, un segno, sbiadito e mutilo, impresso su ciò che passa per «suo». Delle ossa spolpate. Potremmo definirlo, in due parole, il rovescio della «sua» opera.
Qualcuno ha detto che solo Dio avrebbe potuto scrivere l’Ethica. Costui sbagliò: nemmeno Dio. Infatti l’impossibilità per l’Ethica di essere scritta non è che la stessa impossibilità per il mondo di essere creato che l’Ethica dimostra. E allora com’è che quest’opera esiste? In che modo c’entra Spinoza? Disfacendosi di se stesso egli ci diede l’Ethica. Ciò è tutto il contrario che esserne stato l’autore. Per potere scrivere l’Ethica egli non doveva esistere. Dovremmo dire, se dovessimo essere più precisi, un tale Baruch Spinoza, che non esisté, scrisse l’Ethica. Per quanto, a dire il vero, io non vi veda niente di così strano, sarebbe però contrario a tutte le consuetudini e non riceverebbe l’approvazione dei benpensanti.
Convieni però che mentre tutti cominciano: Baruch Spinoza nacque ad Amsterdam (o forse altrove) il 24 novembre del 1632 (per la verità neppure questo è certo), e poi parlano dell’Ethica, convieni, dicevo, che essi fanno solo salotto. Bisognerebbe invece cominciare dalla sua morte e dall’inizio di questa. Bisognerebbe dire come fu che questo tal Spinoza un giorno del 1661 o ’62 cominciò a morire. Nel linguaggio approssimativo dei suoi storici, cominciò a scrivere l’Ethica. Approssimativo è anche il termine «scrivere» che essi usano senza pensarci. Sarai d’accordo con me che nel metodo geometrico tutto è simultaneo e perciò scrivere, d’essenza temporale, non può essere ciò che veramente avvenne. Anche «cominciò» può essere usato solo in forma apofatica. Otto definizioni e sette assiomi la aprono, quest’opera, come i battenti di un tempio per accogliere i fedeli. La mazza del cerimoniere batte tre colpi. Si comincia. Ma già c’è tutto. Ne dobbiamo cercare fuori di essa le sue prove. L’Ethica è prova a se stessa. Chi cerca al di fuori dell’Ethica la verità dell’Ethica – nella storia, nell’esperienza, nella ragione, in Spinoza stesso – costui non ha capito che essa è esclusivamente se stessa. Se è una filosofia, essa è una filosofia assolutamente chiusa: chi vi entra non può più uscirne. Ma la circostanza è puramente indicativa perché essa non è «una» ma «la» filosofia o meglio, essa è l’Ethica. La confluenza della realtà in un libro, di cui poi sognò Mallarmé, era già avvenuta.
Solo per gente come noi, volgare e dappoco, è necessario uno sviluppo com’è necessario il tempo (nozione tra le più infamanti); altrimenti sarebbe bastato dire solo Deus sive Mundus (come lo volse il vecchio Brucker di cui ci fidammo) e avremmo compreso, con il terzo genere di conoscenza, la pesantezza dell’essere, la nostra natura di modi, bollicine di poco conto nel desolato mare delle cose, la schiavitù delle passioni, la morte certa, la libertà del sapiente e che tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare. Tutto ciò, infatti – diciamo meglio tutta l’Ethica – è compreso dentro quelle tre parole. Solo per esseri travolti dall’immaginazione fu necessario che si traesse e pronunciasse, come per chi sa appena compitare o come per chi sa contare appena è indispensabile l’abaco.
Spinoza morì definitivamente il 21 febbraio del 1677. Non ci sorprende che nello stesso anno, qualche mese dopo, apparisse l’Ethica.

Manlio Sgalambro, Milonga, La Sicilia, 5 giugno 1988

Tener fermo
Quando si è trovato non si deve più cercare. Cerchino gli altri. Ciò che si è visto immobilizza per sempre. Non c’è più dove andare. Nello spirito di ricerca si annida il marcio della conoscenza: il primo venuto che vuol dire la sua. Sia chiaro, l’immobilità non è riposo ma lo sforzo immane di tenere fermo ciò che si è trovato.

Bene esautorato
La pratica esautora il bene con la sua efficienza che non si contenta di meno del meglio.

Metafisica e romanzo
Ideale per la narrazione fu la metafisica. Si pensi alle Enneadi. Essa suppone un mondo straripante di senso del cui svolgersi quieto il «narratore» dipanava lentamente le fila. Non conoscenza, nel vile senso del termine, quale poi divenne, ma vera agnizione; riconoscimento drammatico che ciò da cui tutto si diparte, il Principio, è pure ciò da cui prende avvio il racconto. Quando le succede il romanzo, il mondo narrato nella pienezza di un significato primigenio è già crollato. In esso il senso si legava al soddisfacimento di un’attesa. Come tale non si ritrova più. Oggi si lega alla frustrazione. Là dove qualcosa non va, si mostra il senso del mondo. Appare dunque il romanzo, come un che di mutilo, di incompleto. Incomparabilmente inferiore. Un amore infelice o un adulterio al posto del processo degli Eoni. Emma e Charles Bovary al posto di Abisso e Silenzio.

Ninnoli
Se il ritorno alla natura improntò il rapporto tra gli uomini a quello tra buoni animali, quello attuale si ispira al rapporto tra cose come dei ninnoli in un salotto spolverati tutti i giorni da solerti cameriere.

Fabian. Storia di un moralista
Questo romanzo di Erich Kästner finisce così. Un ragazzino, camminando per giuoco sul parapetto di un ponte, cade in acqua. Fabian, che si trova a passare, si butta per salvarlo. Il piccolo raggiunge la riva per proprio conto. Fabian muore annegato. S’era scordato che non sapeva nuotare. Parecchie linee si dipartono da questa conclusione. Una fra tutte ci convince di più. Moriamo perché ci siamo scordati di qualcosa.

Favoletta
Se «cœli enarrant gloriam Dei» è che, come una vecchia nonna, il cielo racconta, appunto, una favola.

Il signore della morte
Il timore della morte, che ne fa parte, è la aberrante «scintilla» divina, o addirittura il vero Dio in noi, «per speculum et in ænigmate». Ciò che ci tiene desti quando dormiamo e ci fa cercare il sonno quando siamo desti. L’inferno in cui soffriamo – il fuoco in cui siamo arrostiti quotidie.

Tra le stelle
La nozione di causalità, capolavoro del nostro spirito, è ormai uno di quei concetti che devono essere liquidati. La «libertà» lo ha deciso. Il senso per la causalità è dunque tramontato. La stessa scienza non se ne fa più scrupolo. Non è più il senso fondamentale col quale solo si poteva procedere sul terreno dei fatti e della vita. Ma un arnese ormai superato, un vecchio alambicco. Oggi la crisi della causalità, non è nemmeno più tale. Tuttavia, perduto il senso di essa, l’individuo si smarrisce, perde pure il senso del fatto che si vuole opposto. Ma mentre ogni imbecille «si è fatto da sé», chi si sente causato già per questo vive nel cosmo, è già tra le stelle.

Può anche capitare
A ribadire l’intellettualismo del filosofo valgano queste parole di Max Scheler: «Chi… vuole sfuggire a questo formale intellettualismo della filosofia, non sa bene cosa voglia. Gli si potrebbe solo dire che ha sbagliato professione».

Soddisfazioni
Oh la gioia con cui si assiste allo sbocciare nel fanciullo della tendenza al guadagno, ai piccoli commerci tra compagni, a farsi bene i conti (e ad estorcere all’altro un sovrappiù)! Questi atti costituiscono nell’insieme il battesimo del denaro con cui la civiltà assicura il suo proseguimento. Piccoli atti, ma che trovano nel compiacimento con cui vengono accolti ed esaltati l’eco che li ingigantisce e prepara i grandi.

La sostanza del cane
Il «succès du bergsonisme», ovvero di ogni filosofia della mobilità, è piuttosto il successo dello schopenhauerismo, ma rovesciato; dove, cioè, si va a letto col principio del mondo.

Per la filosofia del denaro
Il critico della cultura, smaliziato e protervo, che soprattutto intende evitare quella che chiama, in punta di forchetta, l’interpretazione economica della storia che farebbe di essa, egli dice, una monotona conseguenza del denaro, viene sorpreso sul fatto quando si tratta di contrastarne il «potere». Allora egli dice la sua: quando non vi è più niente che comanda, comanda il denaro, dice a esempio Ortega. Ossia, quando vengono meno idee morali, religione, politica e cultura, allora e solo allora si fa avanti il denaro. Che è poi esattamente l’opposto: è quando viene meno il denaro che se ne fanno avanti le vedove.

Milonga
Concetti che si sciolgono nelle parole: ciò dà un altro peso al rapporto della filosofia col linguaggio. Si potrebbe dire che vi sono filosofie cantate… Dove un tremolio di note avverte del suono della verità. È come se questo canto sgorgasse dalle cose stesse. Fare culminare la filosofia nella musica è un modo, ancora approssimativo, per dire che essa può essere anche una milonga…

Manlio Sgalambro, Kierkegaard e De Sade, La Sicilia, 14 maggio 1988

«Tutti credono che qualche profondo sentimento mi abbia spinto a scriverlo – dice Kierkegaard di Aut-Aut – mentre in realtà si riferisce alla mia vita privata esclusivamente e il mio scopo… Se qualcuno sapesse quale era il mio scopo mi crederebbe pazzo». Come sappiamo in Aut-Aut si tratta del conflitto tra stadio estetico e stadio etico della vita, e del trionfo di quest’ultimo sul primo. Tuttavia Kierkegaard ci ha avvertiti: «Tutti credono», egli dice. Così siamo al punto di prima. Ecco ora quest’altro indizio: il riferimento alla sua vita privata. Egli ha rotto il suo fidanzamento con Regina Olsen e, giusto quello che dice, per amore verso di lei non ha dato «compimento al suo desiderio».
Il conflitto è dunque tra il suo desiderio di riavere Regina e il dovere (comunque motivato) di non soddisfarlo? Ma anche qui siamo al punto di prima, perché nello stadio religioso, che subito segue, l’etica viene sospesa e nonché sublimarsi in una rinunzia, il desiderio ritorna. Ciò che egli cerca nella religione dunque non è il «bene» né Dio ma una donna? Regina non è un mezzo per salire a Dio (cosa che tutti peraltro avrebbero ritenuto abbastanza ragionevole e conforme allo spirito più puro della tradizione) ma è Dio che diventa un mezzo; il mezzo, l’unico per Kierkegaard, per poterla riavere? È questo allora lo scopo che se si sapesse lo si riterrebbe pazzo?
A giudizio di Bloch (ma potremmo citarne decine di altri) qui tuttavia non è accaduto niente di nuovo; Kierkegaard mescola voluttuosità e ascesi ma in definitiva, come uomo religioso, resta un platonico. Il rifiuto di Bloch di vedervi altro è comprensibile. Il divieto spinoziano opposto a tutte le libidines è scrupolosamente osservato nel materialismo che egli sostiene e del resto a stare all’insospettabile Plekhanov (è una preoccupazione costante dei suoi Saggi sulla storia del materialismo), in ogni materialismo che si rispetti. Kierkegaard non farà dunque eccezione; la religione resta platonica per essenza come il materialismo resta per essenza spirituale. In realtà, se si considera la posizione realmente assunta da Kierkegaard, Bloch, e quella decina di altri a cui alludevamo, non hanno tutti i torti; ce n’è un’altra che Kierkegaard assume nella fantasia ma non è certamente questa che si può invocare.
Si sa che Spinoza aveva celebrato il potere della rinunzia come il frutto supremo dell’«amor erga Deum» – che tutti sapranno cos’è; è probabile che Kierkegaard, nel cavaliere della rassegnazione che rende possibile spiritualmente l’impossibile mediante la rinunzia, abbia di mira lui e quelle cose che non sono in nostro potere ma che, sempre secondo Spinoza, possono in qualche modo diventarlo, seguendo i dettami dell’etica che insegnano a sopportare le avversità o i sorrisi della sorte con lo stesso animo. Regina è una di queste «res» (come lo sono la maggior parte delle cose che desideriamo) e di fronte alla sua perdita Kierkegaard, non soltanto per la filosofia ma per la stessa religione, non deve fare altro che rassegnarsi. Sarà questa infatti la posizione personale di Kierkegaard che non andrà oltre la rassegnazione, ma non la fede che egli immagina, con ardita fantasia, in Timore e Tremore.
La singolarità di questa fantasia sta nel fatto che in essa si suppone che colui che compie interamente il movimento della fede non si ritroverà tra le mani il pugno di mosche dell’«infinito» e dello «spirito», ma il finito o, come anche si spingerà a chiamarlo, l’impossibile e tutto questo, s’intende, non spiritualmente. Timore e Tremore, è stato detto, costituisce un tentativo infruttuoso per dire di sì al reale passando attraverso Dio; un tentativo fallito. Dirlo non costa niente. Si prende Kierkegaard, si vede che egli non ha riavuto Regina e, posto che era questo che egli cercava attraverso la fede, se ne trae la dovuta conclusione. Ma ripercorriamo lentamente il tentativo, soffermandoci su ogni tappa con la stessa lentezza che certo dovette costare a chi lo effettuò. Cambia forse la conclusione? Per niente. Regina è perduta, e per sempre. Al di là però della vicenda personale, il cui misero esito del resto Kierkegaard ha scontato premettendo che egli non aveva la fede, resta ciò che ha immaginato.
Questo ci riporta all’estetica o meglio a quella mescolanza di estetica e religione su cui Kierkegaard riferirà abilmente – affermandola e mascherandola – nel Punto di vista sulla mia attività di scrittore. Come un autore religioso, si domanda egli qui, s’è potuto convincere a ricorrere all’estetica? Vedremo più oltre la sua tranquillizzante risposta; per intanto conosciamo già un elemento comune ad entrambe, il solo che egli non ha voluto mascherare, il desiderio. Ecco però che daccapo ci sbarra la strada: la fede, dice perentoriamente, non è un impulso di carattere estetico. Ci concederà Kierkegaard che può diventarlo? Che può diventare una dissipazione, il culmine della sregolatezza, il più squisito dei piaceri, la crapula assoluta? E che, in ogni caso, qui lo è diventata? Non dobbiamo infatti dimenticare l’affermazione di principio che regge Timore e Tremore: «mediante la fede, io non rinunzio a nulla; anzi ricevo tutto…». L’impurità della fede è mille volte legittimata.
C’è sempre una fessura attraverso la quale l’estetica si insinua, raccatta ciò che l’etica lascia cadere incurante e trionfa. Per tornare a Spinoza, la sua amara ammissione che ciò che interessa gli uomini siano ricchezze, onori e piaceri, è controbattuta dalla sua certezza che le «res æternæ» alla fine prevarranno. Anche se gli uomini «credessero che l’anima perisce col corpo» ritenere che si darebbero al capriccio e si regolerebbero in base al proprio piacere, dice ancora Spinoza, è altrettanto assurdo quanto pensare che uno preferisca essere pazzo e vivere senza ragione. Spinoza non prevede che la sfida sarà raccolta; che uomini che faranno professione di capriccio e di piacere pretenderanno di raggiungere ex libidine quegli scopi per cui egli riteneva di avere indicato l’unica strada possibile. De Sade, che precederà l’esteta kierkegaardiano in questa aggressione dell’estetica all’etica nonché all’incontro tra estetica e religione, non esiterà a dire: «Lungi dal negare Dio come l’ateo o di lavarlo dei suoi torti come il deista» il libertino si impegna – per usare le parole di Klossowki – in una provocazione di Dio «come se lo scandalo fosse un mezzo per forzare Dio a manifestare la sua esistenza». «Se vi fosse un dio e questo dio avesse la potenza, permetterebbe che la virtù che l’onora e di cui voi fate professione fosse sacrificata come essa va ad esserlo ai vizi e al libertinaggio?», chiede De Sade nelle 120 Journées de Sodome, ed è senza dubbio una domanda estetica e religiosa – anzi teologica – nello stesso tempo.
Le «futili» osservazioni di Noirceuil, in Juliette, sulla differenza tra amare e godere e sulla nessuna importanza della bellezza del collo o della leggiadra curva di un fianco per chi ama, o della loro assoluta importanza per chi mira all’illimitato possesso dell’altro; quelle di Giovanni, nel Diario del seduttore kierkegaardiano, sul delizioso piedino di Cordelia e sulla mano candidissima, mirano tutte più lontano. Impegnano l’estetica oltre i suoi naturali confini, concernono, che avvenga in nome dell’incredulità o della fede, i diritti dell’uomo al possesso illimitato del finito. Furto, sodomie, stupro, incesto: sono queste le geometriche evidenze di De Sade che instaurano il regno del piacere permanente. Ma la mano di Giovanni che sfiora il piedino di Cornelia vince. Come vince sul possesso di un corpo, il possesso illimitato di un’anima.

Manlio Sgalambro, Excursus, La Sicilia, 30 aprile 1988

Excursus

«Perché è già notte e i barbari non vengono. / È arrivato qualcuno dai confini / A dire che di barbari non ce ne sono più.»
— Constantinos Kavafis

Non ci sono più barbari
Compito residuo della filosofia è diminuire le tracce di volontà. Se la negazione della volontà si realizza nei rapporti con le cose prima ancora di realizzarsi in se stesso, è che il loro cammino sembra giunto alla fine. Mentre la sterile negazione soggettiva della volontà resta ancora indietro. Nel monotono svolgersi del giorno, nelle occupazioni che fanno correre l’individuo di qua e di là, nei mille luoghi di lavoro, ma anche nell’amore, nell’amicizia oggettivati al massimo, si compie una metodica negazione della volontà a cui la stanchezza di vivere dà il suggello. Ci si abbandona all’altro, al suo tenero abbraccio, come se ci dovesse fare da tomba.

Sintomi
Dove si vedono relazioni reificate – il termine fu già così sintomatico – s’è abbattuta la scure della negazione oggettiva della volontà. La «cosa» non designa il riscattabile esito di un falso divenire, qualcosa da fluidificare nuovamente, ma il divenuto inesorabile nel quale è compresa l’estinzione psichica. Il desiderio di vivere da ebeti. Domina invece ancora la tesi che la cosiddetta cosificazione degli oggetti, nella fattispecie come qualcosa di solido e durevole, sia ubbidienza al postulato pratico che deve così renderle servibili, disponibili alla scienza e alla prassi congiunte. Mentre la filosofia avrebbe, non da ultimo, il compito di fluidificare il cosificato, di scioglierlo. La fluidificazione ricomporrebbe l’immagine di un tutto così com’è richiesto, del resto, da una decente autoconservazione. La volontà che si nega nell’altro da sé, trova, al contrario, nel diventare cosa la pace forzata, la cui ebete quiete, la leibniziana stupidità, le si imprime in faccia. Tutto diventa cosa, quiete derisoria. Essere un ciottolo o un saggio? Siamo già nel dopo-vita.

Insegne
Per quanto riguarda l’individuo, asserire che esso è «bisognoso», sottolinearne la finitezza: tutto ciò detto non in tono sommesso ma con squilli di tromba, fa pensare, ed è vero, che si assista ad un ennesimo trionfo del nostro eroe – l’uomo. Si sente che il bisogno è una vittoria. Un labaro con le insegne della vita ricamate in oro.

Giorno come secolo
Quando la grana degli eventi rispecchiava più da presso l’immutabilità del mondo, il secolo era l’unità di misura dell’esperienza ad esso adeguata. L’esperienza era secolare. Mentre al culmine del tempo si attingevano conoscenza della vita e sazietà. Nella Zivilisation, invece, il giorno diventa estrema misura di vita. Il resto è un sovrappiù. All’interno di esso si colloca adeguatamente l’esperienza. Tutto si svolge nel giorno. Guizzo di luce a cui è legato, esso colpisce per un momento l’oscurità. In questo lampo la scena si illumina a festa e ciò che si vede, si vede per sempre. Nella dimensione del giorno rientrano tutte le misure del tempo. Presente, passato e futuro si stipano nell’ambito del giorno che diventa il paradigma del tempo. Quello che il giorno contiene nella sua smisurata angustia è l’universo intero. Chi ha vissuto un giorno, ha vissuto una vita.

Nostalgia
Difficilmente oggi filosofare è la bella spontaneità di un ingegno compreso tuttavia dalla grandiosità del compito. Difficilmente una filosofia si presenta perfetta come per il soffiatore di vetro una forma cristallina. Finiti sono quei tempi nei quali dalla fiducia che univa inesplicabilmente al mondo nascevano come in un giuoco di ragazzi superbe filosofie. La filosofia universale è oggi l’idiozia universale.

Solo canto di Sirene
Nelle epoche nelle quali è venuta meno la fiducia nella vita si strappano a stento frammenti da ciò che improvvisamente si mostra estraneo e ostilmente mutato s’è il volto di ciò che in epoche vitali sembrò guardare, ammiccante, quello di fanciullo del filosofo. Ma allorché il canto sguaiato della vita attenua i suoi toni si fa sentire il pensiero come uno sciatto canto di Sirene che nemmeno più ammalia ma come una sciocca canzone si scorda un attimo dopo.

Usurpatori
Lo sguardo che sopporta l’intero nell’imperturbabile equilibrio di tutte le parti resta praticamente indeciso. Di fronte alla richiesta di decisione si coglie l’abisso su cui la pratica è disposta a transigere purché si riconosca il suo illimitato potere. Ma pratica significa asservimento del tutto – che pur si dice chiamata ad eliminare – a beneficio di una parte. Al regno, usurpato, dell’uomo.

Di un losco rapporto
Duro e ribaltante è il rapporto con la verità. Esso contrassegna il tradimento che si fa della specie, perpetra anzi il tradimento del genere umano che certamente la verità ha in odio, e difatti lo distrugge. Chi a questa verità deve badare e rischiararne la disgustosa vista o, in altri termini, il filosofo, si fa complice di questa inimicizia e si batte per essa, ardito e forte, senza pietà.

Macchina per conoscere
La complessa macchina della conoscenza non serve che a scongiurare la conoscenza e a renderla inservibile. Questo è il segreto della sua teoria da quando, dai lampi folgoranti della sapienza o da più modeste sentenze, si passò al conoscere organizzato. L’accurata cancellazione che Kant effettua di tutti i «grandi» problemi – denominazione che essi assumono quando ormai sono diventati insignificanti – dal novero della conoscenza, svela l’assillo di una buona organizzazione: l’affermare il primato della non conoscenza, cosa che Kant rivela brutalmente essere la precisa richiesta della conoscenza medesima. La conoscenza organizzata impedisce dunque la conoscenza. I suoi stessi mezzi sono acconci ostacoli. Alla fine la conoscenza organizzata conosce, beata lei, solo se stessa.

Achille e la tartaruga
Per un soffio la filosofia non raggiunge la realtà. Per quel tanto per cui essa non la raggiungerà mai.

Excursus
Quando andiamo pensando appartiene a un topos al quale già appartiene Il mondo come volontà e rappresentazione. La sua imitazione non riguarda l’individualità dell’opera, ma il genere al quale tema come il perduto senso qoheletico e l’evocata immagine dell’estinzione psichica fanno riferimento. L’idea di imitazione si fa strada nella filosofia col declino dell’invenzione. Quest’ultima non viene meno perché all’immaginazione filosofia siano venute meno le forze, ma perché l’idea stessa di forza creativa è caduta in discredito. Nella sua idea è mantenuta la misura che l’originale giustamente non rispettò. Ogni mimesi invece ha il dovere di controllarsi, di impedire l’ignobile intrusione della creatività laddove les jeux sont faits. Il genere non ha oggi possibilità di essere trattato in una sintesi di grande stile. D’altra parte, come trattazione finale di un Dio obtus, l’excursus registra la perdita di empito di ciò che deve soggiornare in un ordine superiore ma del tutto idiota.

Manlio Sgalambro, Il sogno è finito, La Sicilia, 27 aprile 1988

Il sogno è finito

Amammo in lui, per prima cosa, l’idea di rigore, così singolare in filosofia, disordinata e vaga, allora ci sembrava, per natura. Ci inebriava l’obbedienza a leggi date una volta per tutte. Amammo l’idea di evidenza come vecchi idolatri. Giuocavamo con ircocervi e centauri – vetusti entia rationis indagati dal puntiglioso Brentano – per riguadagnare le cose, divorate da una coscienza ancora primitiva. Risposte obbligatorie per ogni uomo ragionevole di ciò si trattava. Sentimmo parlare di verità uguale per angeli e mostri. Ci convinse per sempre. Capimmo l’antico problema delle vérités nécessaires su cui avevamo riso mentre ridevamo di Leibniz.
Sublimi Ricerche logiche che nessuna opera eguaglia in questi tempi oscuri! La sua definizione della logica, «scienza della trivialità», fu un capolavoro di astuzia. Solo il vero filosofo sa ingannare in tal modo. Buttò chicchi di riso per segnare la pista, ma anche di miglio. Questo filosofo che non si concesse mai ironia, l’incarnò. Quanti ne irretì, conducendoli così per mano a quello che egli chiamava, da uomo all’antica, il regno della verità! In realtà egli lottava contro la presenza soverchiante dell’uomo le cui conseguenze in filosofia tememmo sin da giovani: «Non vi sarebbe quindi alcun mondo in sé, ma solo un mondo per noi o per un’altra specie qualsiasi di esseri», accusò.
Noi sentivamo invece il peso, il gravame di qualcos’altro, l’oppressività del suo essere che ci schiacciava. Con la nozione di intenzionalità ci insegnò perfino che “odioso” e “amabile” non erano affatto qualità della coscienza ma delle cose stesse verso cui essa ci buttava. Capimmo che l’esistere era odioso in sé, che quel peso era la pesantezza in sé, l’ottusità del fatto d’essere che ci coinvolgeva. Non proveniva da noi. Non era “pessimismo”.

L’eliminazione della psicologia dalla logica, nelle desolate lande delle Ricerche logiche, sanzionò il fatto che non sono più esseri viventi i protagonisti della conoscenza ma esseri divenuti fantasmi, esseri che sopravvissero a qualche catastrofe. Almeno così ci parve. La filosofia della vita l’annuncia con la sua esaltazione. Nasce quando la vita è finita e nello stesso momento, alza forte il suo grido come l’assassinato nell’istante in cui è colpito a morte. Contrariamente alla gnoseologia, come poi si vede, la fenomenologia riceve il suo senso non dalla storia, semplicemente, ma dalla catastrofe che questa si scoprì essere. Tutto l’apparato della fenomenologia – epochè, riduzioni, annullamento del mondo – rivela l’incandescente presenza al cui fuoco la gnoseologia si trasforma in un patetico fleur du bien. In essa non si conosce niente, come s’era pattuito per la tranquillità di tutti, essa mostra però con questo la catastrofe accaduta. Il trasformarsi dell’idea in un immediato intuito è la risposta. Si può cogliere l’idea, come se fosse là, perché essa è irrigidita, colpita a morte, e il mondo intellegibile sta sotto gli occhi come un cielo dipinto. Le immobili spoglie degli eventi: sono esse le essenze.
Il giudizio che tutto è finito è inferto alla filosofia come colpo mortale. Hegel teorizza il compimento con la stessa intransigenza della morfologia posteriore, trattata usualmente come se questa fosse una farsa di quello. «Il compimento dello scopo infinito è così solo il togliere l’illusione che ci fa scambiare la cosa per quel che non è; come se, cioè, essa non fosse ancora portata a compimento». La distanza tra Hegel e colui di cui parliamo è roba da storia della filosofia. L’uno, invece, consegna all’altro il mondo compiuto (ci inseguono, a proposito, le parole di Goethe: «che cosa lavori intorno al mondo? Esso è già fatto»). L’altro vi affonda la visione come un coltello. La visione delle essenze è una visione spettrale; è tutto ciò che è rimasto dopo la morte della vita.

Ci compiacemmo non poco che egli avesse messo in discussione l’egemonia della percezione. Di cui si perseguono le gioie, come una volta quelle dei sensi, ma come in essi non si vede e non si sente. La percezione risulta incompiuta: la dottrina relativa si trova esattamente nelle Ideen. Essa è la malattia infantile della conoscenza. La sua incompiutezza è due volte vera. Il rosso glaciale che ritorna nelle analisi eidetiche è pura essenza. In quanto tale non vi si può contrapporre, ad esempio, il “rosso lanoso” della percezione con cui non ha niente a che fare. Lì la storia è spenta. Quel rosso rosseggia senza che nulla accada. Esso esemplifica un incendio le cui immobili fiamme non divengono. Questo “rosso” che ne ossessiona le analisi è come se dall’inferno tornasse poi alla realtà. Ma spento. L’atto conoscitivo non è la percezione che si lecca i baffi come gatto sazio, ma Erfüllung, compimento. Non il riempimento di un’attesa, dunque, precipitato percettivo delle cose, ma il compimento serve a designare la conoscenza raggiunta. In esso, appunto, le cose si danno come compiute.

La conoscenza è la quiete che nel fluttuare tiene immobile, con sforzo immane, l’essenziale. Questo è il compiuto. La dottrina del compimento è il punto in cui la conoscenza, nel momento supremo dell’astrazione, è segnata dalla ferita inferta dal tempo come se esso si fosse concluso. La fenomenologia, nella originaria versione delle Ricerche logiche, prima che il peso della storia, qui portato con grazia leggera, poi la schiacci, con la dottrina dell’evidenza in cui il compiuto si attua, sottrae la conoscenza al mortificante processo. L’evidenza di cui parla, ogni volta è l’ultima.
La fenomenologia, dunque, non rimpianse la perdita del contatto con la realtà, che nello scambio organico, nel rapporto diretto con questa non avrebbe necessità di schemi, per cui essa sarebbe sempre una contraffazione della vita. Ma proprio la perdita di questo contatto originario è il suo guadagno che rappresenta un ordine di legalità superiore. L’essere ideale che le Ricerche logiche, per così dire, postulano, non è, come nel platonismo originario, la vita vivente, ma l’ombra che la segue, passo passo, da lontano. È la conoscenza tarda, quando quello che c’è da sapere è saputo. La staticità che le si rimprovera, appunto per questo, è l’indice della verità raggiunta. Quel che non si volle. Con essa si chiude il cerchio infernale.

Lo amammo, dunque, e per questo e per quant’altro presentimmo in un’aura che ci parve sacra. Più tardi egli alitò di nuovo la vita su quello stesso mondo che aveva fermato con gesto imperioso, come se lo avesse messo in riga. E l’anima perduta, come per lo zelante Klages, vi ritornò (anche se senza Pelasgi). La visione dell’essenza, visione spettrale, simbolo di tomba, si animò. Come un medicastro qualsiasi della civiltà, come uno dei tanti, egli approntò empiastri e misture, e nella mathesis vide ora la malattia da guarire. La maternizzazione della natura, ecco il male, additò. Il mercante al mercato ha la sua verità, disse. Orribile, per chi nei suoi giovani anni curvo sulle amate Ricerche tutt’altro aveva appreso riverente: «Ciò che è vero, è vero assolutamente, in sé; la verità è una, identica a se stessa, quali che siano gli esseri che la percepiscono: uomini, mostri, angeli o dei».
Un debole inizio ho realizzato, disse alla fine e si lagnò: «La filosofia come scienza, come una scienza seria, rigorosa, anzi apodittica, il sogno è finito». Ma chi lo amò, si insiste, ubbidisce ancora agli ordini dell’evidenza che gli toccò in sorte rendendogli a questo modo il bene che ne ebbe e che è suo.
Amico, se passi da queste parti, ricordati di Husserl…

Manlio Sgalambro, Filosofia minore, La Sicilia, 23 aprile 1988

Filosofia minore

Contro lo spirito di discussione
L’oro falso della discussione contravviene alla regola che Descartes stesso confermò: ogni meditazione è solitaria. Nel futile argomentare che esibisce più ragioni che può si sente il pezzo di bravura e insieme il pregustato applauso della claque al do di petto. Vera disciplina nelle cose dell’intelligenza è una spietata intransigenza contro lo spirito di discussione. Ogni concessione fatta in nome della reciproca eguaglianza è un tradimento della verità su cui si fa prevalere la cortesia. Filosofare divide.

Parlare
Nell’ottusa insistenza con cui si parla, come se si frignasse, con quel pigolio che avvolge le cose in morbida ovatta, si espleta quel compito che un tempo fu eseguito dalla funzione fabulatrice. Al posto dei miti e delle religioni, che si contrapponevano alla paura della morte, ai giudizi della ragione e al pericolo rappresentato per l’autoconservazione, sta oggi il parlare corrente come scongiuro e baluardo. L’attuale funzione fabulatrice è lo stesso parlare; dei indigenti sono le parole.

Titoli di libri
Il titolo è sempre qualcosa contro cui un buon libro cozza per liberarsene.

Esecuzione
Il primo venuto che vuol dire la sua vanta il diritto all’autonomo pensiero a cui è stato educato. Lasciatelo parlare: si impiccherà da sé.

Filosofie di idee
Di filosofie di idee si fiuta dieci miglia lontano il committente: l’intelletto afilosofico. L’abbondanza di idee cela il vuoto spaventoso di verità. Per avere la quale ci si dovrebbe rassegnare, anzitutto, a non avere idee.

Dal Sé
Si spera che ciò che si pensa non provenga da se stessi, dalle qualità, dall’inventiva, dal talento o dalla formazione, vantata con tono da self made man anche dal filosofo, ma dall’immutabile identità del Sé, a cui tutto questo non appartiene. Che l’identità esprima, come si può dire, l’ens realissimum, non la vita in cui s’è mutato, ma l’informe, l’inorganico, ai quali il persistente richiamo conferma l’appartenenza. Nell’identità permarrebbe ancora la realtà. In questo caso il pensiero non esprimerebbe le qualità che sono del vivere, ma non sarebbe nemmeno, o solamente, pensiero. Così ciò che si pensa sarebbe realtà in carne e ossa; ma quanto più duro, più estraneo, fors’anche più ostile ciò possa essere, in maniera che si veda che non proviene da «noi», ma dall’immutabile Sé, dagli estremi confini dell’informe. Si spera veramente tutto ciò.

Bestialismo
Torna ad onore di Kant che egli abbia messo a nudo le radici della ragione pratica, la ragione del suo primato. Cosa non facile perché trova il primo ostacolo nel primato medesimo. Tutto ciò voleva dire in effetti che pur non accordandolo la conoscenza, pur non rispondendo ai suoi esiti teorici, v’è un uso pratico della ragione mediante cui l’uomo può interamente sostituirsi all’universo. Non legittimamente, peraltro, come animale che si nutre della sua parte di mondo, ma all’altezza di quell’universalità che l’idea di uomo, a dire di Kant, evoca. Kant ammonisce però che «se venisse presa per fondamento la ragione pratica come patologicamente ricondizionata, cioè, come limitandosi a reggere l’interesse della inclinazione… tal caso questa pretesa verso la ragione speculativa non si potrebbe punto menar buona» e aggiunge, pateticamente, che così si imporrebbe alla ragione qualunque mostruosità: «tanto varrebbe non avere nessuna ragione», aggiunge. Ciò però tranquillizza per un canto, turba per l’altro. Perché mostra già in azione la ragione pratica nella legittimazione di essa. E se dovessimo considerarla, come fino a un certo punto fa Kant, sottoposta a un giudizio, mostra come essa si sia giudicata da sé. Infatti alla fine Kant le dà partita vinta: «Ma non si può punto pretendere dalla ragione pratica – dice – che essa sia subordinata alla ragione speculativa, e così inverta l’ordine; perché ogni interesse, infine, è pratico, e anche quello della ragione speculativa è soltanto condizionato e completo nell’uso pratico». La temuta mostruosità alla fine trionfa: l’uomo non è una cosa – termine in cui è compresa tutta la distanza da cui la filosofia può giudicarlo – ma quell’essere speciale com’è inteso dall’umanismo il quale, come autoesaltazione di una specie, non è, alla fine, che bestialismo.

La filosofia e il suo partner
Si insiste nel chiedere alla filosofia quello che essa non può dare. Ha forse la filosofia da raddrizzare torti? Rendere servizi all’umanità? Fare camminare gli storpi, fare vedere i ciechi? Eppure anche dalla filosofia, dalla cosa più lontana da tutte queste mene da balia, si richiedono favori siffatti. Nella selezione storica, in cui le filosofie lottano senza riguardi per la loro esistenza, sono quelle che suffragano e «soddisfano» i più svariati bisogni che l’hanno vinta. Persino filosofie galanti e un po’ larmoyantes, purché sussurrino al partner preferito dolci paroline, fanno per un po’ bella figura e volteggiano nell’aria con grazia e mille mossettine, fin quando la realtà non se le scrolla d’addosso con fastidio. In un canto, appartata, sta un altro tipo di filosofia a cui l’uomo non interessa.

Filosofie minori
Ogni filosofia minore è una sorta di filosofia du mal. Minora essa lo è non davanti ad altre che sarebbero grandi ma davanti al fatto che queste sostengono il mondo mentre quella lo prende a calci.

Il rumore della verità
Dalla caduta di speculazione è rimasto soltanto il silenzio e quindi la speculazione su di esso che sa parlare molto bene del silenzio. Soprattutto di quello della verità. Ci si tiene i fianchi dal gran ridere solo a pensare quanto invece la verità sia rumorosa.

Manlio Sgalambro, Del suicidio, La Sicilia, 16 aprile 1988

Del suicidio

Cara amica, lei mi chiede in nome della clarté che professo sebbene indegno, di farle luce su una questione sempre urgente come quella del suicidio che, ella nota, non trova udienza particolare nella filosofia odierna. Conosco la sua educazione classica e tante volte abbiamo dibattuto su Seneca quale magnifico esecutore degli ordini del fato. Ma, bisogna dirlo subito, quanto diversa la condizione morale della filosofia oggi! E come essa non permea più di tanto la vita, relegata com’è nei verdi pascoli, coi suoi Spaßphilosophen, coi suoi filosofi per passatempo. Noi che pratichiamo la filosofia per necessità, per la nostra cattiva sorte – mi perdoni l’enfasi! – abbiamo un altro rapporto con essa e una tentazione costante. Procurerò dunque di risponderle. Comincerò, mi perdoni, un po’ da lontano com’è decenza nelle cose che ci coinvolgono.
Il concetto di volontà di vivere al quale il nostro Schopenhauer ricorse è straordinariamente complesso, non le pare? La sua apparente gratuità non è che un riflesso della svogliatezza con cui in genere lo si considera. Che per un verso essa si ricolleghi agli esiti delle ricerche dell’antropologia moderna sulla «natura» umana, va da sé. Come risultato e compendio di ciò si può considerare l’asserzione spinoziana, che a noi pare così dubbia, che il desiderio è la stessa essenza dell’uomo. A questo principio ci si richiamerà infatti per salutare in Spinoza il punto più alto raggiunto dall’antropologia moderna.
«Così ebbe origine – dichiara Dilthey, accomunandovi Hobbes, l’altro rappresentante classico di essa – la massima benemerenza dell’antropologia di questa età, la costituzione di un corpo di leggi che dominano il nesso causale della vita psichica, dove cioè i singoli stati dell’anima vengono derivati dal supremo principio di conservazione». Le riserve di Dilthey – di quest’uomo prudente – avanzate sottobanco concernono l’estensione da riconoscere a questo principio. Se il merito dell’antropologia moderna gli appare quello di essere perfettamente riuscita a collegare tutti i fenomeni psichici sotto un principio unitario, scarsa o nulla nondimeno si deve considerare, egli sostiene, l’effettiva incidenza di quest’ultimo sull’insieme degli individui e totale è, di conseguenza, il suo rifiuto della «cupa, anzi terribile convinzione di Hobbes, intorno all’esclusivo potere che l’istinto di conservazione esercita per mezzo degli affetti sulle azioni umane». Al suo posto Dilthey, com’è noto anche a lei, metterà l’edulcorato concetto di vita; mentre la questione del suo valore verrà derubricata e decadrà a semplice quisquilia privata. La notoria incapacità della filosofia della vita a intendere la vita mostra così uno dei suoi farseschi aspetti. Ne converrà, credo.
L’importanza rivestita per l’illuminismo dalla questione del suicidio, è da mettere in relazione col tema fondamentale dell’antropologia borghese per cui libertà equivale a dominio di sé. È libero colui che si possiede interamente; la rinunzia volontaria alla vita prova questa illimitata padronanza, la mitica libertà. L’emancipazione è cosparsa di questi suicidi. La letteratura suicidaria del XVIII secolo è piena di questo motivo. Per l’antropologia dell’illuminismo il suicidio non contraddice l’autoconservazione che essa per contro ha esaltato, ma ne è una difesa; col proprio sacrificio si prova l’illimitatezza dell’autoconservazione medesima.
Se l’illuminismo non vi trova alcuna opposizione, per Kant, invece, sussisterà sempre una evidente contraddizione tra l’autoconservazione o, come preferisce dire, tra la natura che implica la sua conservazione, e il suicidio che la nega. Secondo Kant, infatti, la massima della ragione, riguardo alla libera disposizione della propria vita, dev’essere tale che una natura deve potersi conservare secondo una legge; tale quindi che «nessuno in una simile natura possa porre fine arbitrariamente alla propria vita». Ora, allo stato naturale, la volontà (se di volontà si può ancora parlare) non è determinata da nessuna massima in grado di fondare «una natura secondo leggi universali». Una massima concernente la disponibilità della propria vita, tratta dalle proprie inclinazioni, talora misere e infelici, potrebbe anzi, per ipotesi, condurre a porre fine arbitrariamente a essa. «Si scorge però subito – si affretta ad aggiunger Kant – che una natura la cui legge sarebbe di distruggere la vita stessa… sarebbe in contraddizione con se stessa e non potrebbe sussistere come natura; in conseguenza questa massima non potrebbe assolutamente occupare il posto di una legge universale della natura». Ciò che Kant vuole dunque escludere è che il suicidio possa divenire, in talune occasioni, legge morale, come fu per l’illuminismo (e come potrebbe essere ancora), mentre è disposto a tollerarlo relegato tra le inclinazioni.
La volontà, in quanto determinazione della natura secondo leggi della ragione pure pratica, e prima di tutto in quanto determinata ciò che rende possibile una natura come ordine universale permanente, cioè l’autoconservazione dettata da leggi rigorose della ragione e non dalla volubilità delle inclinazioni, è quella volontà di vivere che già parve a Schopenhauer che si dovesse individuare sotto il nome improprissimo, datogli da Kant, di ragione. La quale autoconservazione, escluso che possa essere considerata come una legge che la natura prescriverebbe alla volontà ma al contrario, è, a sua volta, quella che Kant chiama ragione pratica il cui primato, perciò, equivale in ultima analisi al primato dell’autoconservazione medesima.
Forse lei avrà trovato il tono, fin qui, troppo contegnoso e avrà creduto – spero però che adesso si ricreda – che io mi sia limitato a narrare le fole che la storia della filosofia insegna e che la pratica di essa però svela. No, non ho voluto rispondere alla sua domanda con storielle. Ma, come le dicevo, bisognava pure porre le premesse per poi capire insieme come si sia arrivati all’odierna indifferenza in materia di suicidio. Lo stesso prima dell’autoconservazione lo spiega. Se il residuo utile del lavoro di Kant per rendere contraddittorio il suicidio e togliergli comunque l’aura morale in cui ancora era immerso, è l’autoconservazione come fatto della ragione – o la ragione che comanda di vivere, come dice Fichte – quanto una volta si chiamò vita non risulta più la stessa. La volontà di vivere che sembrò a Schopenhauer così furiosa e inestirpabile, ebbene questa nozione ormai fa ridere. Il ragazzo che viene spronato dal genitore a mettercela tutta, senza di che, lo si ammonisce, non avrà la sua fetta di torta, è la quintessenza della volontà odierna che tiene unita l’orda e la riproduce riproducendo dal figlio il padre. Questa parvenza di vita ha dunque reso antiquato il suicidio. Roba da attardati. Cose da sartine, come giudicò Hegel.
Ma per l’eroe morale esso è sempre possibile, egli ha sempre spalancate le porte del mondo da cui uscire come per una passeggiata: Valete curæ.

Manlio Sgalambro, Del metodo ipocondriaco, La Sicilia, 7 aprile 1988

Del metodo ipocondriaco

«Aus jener hypochondrischen Methode fügt Tieck…»
— Hegel

La filosofia – o chi per essa – ha cambiato innumerevoli volte scopi e mezzi. Ma su un punto può vantarsi di avere conservato immutata la stessa convinzione se, ancora oggi, Scheler può sostenere il principio «che solo colui che è felice potrà volere e agire moralmente». Anzi, sempre a detta di questo importante filosofo, «potrebbe essere che la beatitudine fosse sicuramente il fenomeno d’accompagnamento necessario dell’esistenza di ogni persona buona e, inoltre, la “fonte” essenzialmente necessaria di ogni comportamento buono». In altre parole, spiega Scheler, «solo la persona felice può avere una volontà buona e solo la persona disperata deve essere cattiva anche nel suo volere e nella sua condotta». Per quanto Socrate riscuota l’ammirazione e il rispetto indiscusso di ognuno, di fronte ad analisi accurate e sapienti come quelle di Scheler, bisogna inchinarsi, se è possibile, con ancora più rispetto. Certo, sapere che Scheler è del parere di Socrate è rassicurante, ma a prescindere da questo – che interessa infine oggi essere d’accordo con Socrate o meno? – resta, come ci si direbbe giustamente, che i giudizi di Scheler sono validi per se stessi e non perché coinciderebbero per avventura con quanto può aver detto e pensato Socrate. Il disperato che non accetta la vita così com’è, è, in poche parole, sempre secondo Scheler, malvagio proprio per questo.
Hegel accenna, da qualche parte, a un metodo ipocondriaco che si spaccia per speculazione ma che, egli tiene a precisare, non è che talento poetico (Über «Solger’s nachgelassene Schriften», Werke, XX, pp. 156-157). Come un qualsiasi Carnap vediamo qui Hegel ridursi a considerare una vana fantasticheria tutto ciò che deriva dalla passione. Non è che Hegel minimizzi il ruolo da essa giocato nella realtà. «L’idea – egli dice, com’è noto nelle Lezioni sulla filosofia della storia – paga il tributo dell’esistenza e della caducità non di sua tasca, ma con le passioni degli individui». Semplicemente, si sa anche questo, per Hegel la passione è un’astuzia della ragione e non, invece, come almeno qualche volta, un’astuzia della passione stessa. In effetti, il metodo ipocondriaco è, essenzialmente, il metodo, se ci è concesso dirlo, della disperazione; e la disperazione, comunque la si voglia considerare, ha una sola conclusione che Nietzsche, nello stesso tempo che ergeva la sua filosofia come il più valido baluardo contro di essa, formulava così: «Noi siamo maturi per non essere». Noi, cioè, la nostra epoca.
Per chi pretendeva di avere risolto ogni non essere nel divenire, questa conclusione che, ripetiamo, si trae unicamente dalla disperazione, non poteva essere che insulsa e pretestuosa. Anche l’ipocondria, per continuare a esprimerci con Hegel, dev’essere dunque risolta nell’affermazione che coinvolge tutta la realtà nel suo amorevole abbraccio. In altri termini, il disperato non ha voce in capitolo; non può dettare leggi; per quante siano le risorse del suo ingegno e i tesori della sua esperienza, egli è tagliato fuori dalla conoscenza. Come abbiamo detto, il massimo che ieri Hegel, come oggi un Carnap, sono disposti a concedergli sono infatti le “farneticazioni” della poesia.
Se diamo ancora ascolto a Hegel, nella tragedia «l’ultimo elemento non è soltanto l’infelicità e la sofferenza, ma la soddisfazione dello spirito; solamente allora la necessità di ciò che avviene agli individui può apparire come la razionalità assoluta e l’anima è moralmente calma. Essa è turbata dalla sorte degli eroi, ma appagata di fatto». Così ieri i greci avevano sopportato infelicità e sofferenze di ogni genere, in una delle epoche più drammatiche della storia dello spirito – si pensi, a esempio, alla caduta delle loro speranze politiche – e, così, dobbiamo sopportarle oggi noi. Allo stesso modo, l’avventura individuale di Hegel che, secondo quanto ebbe a scrivere egli stesso in una lettera, si era iniziata con l’ipocondria e la «paralisi», con l’impossibilità di vivere nel «mondo esistente», si concluderà poi col ricordo che, tuttavia, questo è stato sempre possibile. Nondimeno non è un episodio che possa restare solo personale quello che nella lettera citata Hegel riferisce; se si pensa che la Fenomenologia dello Spirito e il «sapere assoluto» a cui essa pone capo, ne saranno la conclusione, si può vedere sino a quale punto tutto ciò ci riguardi.
Vediamo qui comparire quella “ipocondria” che sotto nomi diversi connoterà sempre più insistentemente la situazione odierna e quella “paralisi” da cui, dopo Hegel, ci si convincerà che il solo sapere non è in grado di liberarci ma neppure, come poi si vide, la sordida prassi. Naturalmente in Hegel il destino di questa liberazione è unito al destino della sua filosofia; Hegel si libererà della paralisi e potrà daccapo muoversi, ma in una sola direzione: egli potrà andare solamente indietro, non avanti. Per andare avanti, si ritiene, bisogna mutare il mondo, insomma rimuovere tutto ciò che rende impossibile vivere. Ma poiché Hegel, per quanto lo riguarda, si libererà della paralisi e della ipocondria mediante il sapere, egli non potrà che andare indietro: il ricordo che “ieri” fu possibile vivere, trasformerà così l’impossibilità di vivere “oggi” nella necessità di vivere sempre.
Il disperato è malato a morte, sostiene Kierkegaard. Kierkegaard parla continuamente, come si sa, di disperazione e, come si sa pure, ha scritto un trattato su di essa. Se l’uomo fosse una sintesi, non ci dovrebbe essere disperazione, egli afferma. Oggi si riconosce comunemente che l’uomo non è una sintesi, eppure non c’è lo stesso disperazione. Comunque, ciò che afferma Kierkegaard, dovrebbe valere contro Hegel, ma il problema non è di stabilire l’esistenza della disperazione; anche Hegel ne riconosce la nera presenza, per questo come momento. Ecco, dunque, il punto: essa per Hegel è un momento. Ma anche per Kierkegaard è un momento, infatti a Dio tutto è possibile, cioè la disperazione è un momento. Sentiamo pure dire: alla società tutto è possibile o alla storia tutto è possibile; in altre parole, anche qui la disperazione diventa, illico et immediate, un momento.
Colui il quale persegue il cambiamento del mondo non parla mai di disperazione. Per la stima corrente anzi egli è tutto fuorché un disperato. Ma, come avverte Kierkegaard, alla riflessione volgare «sfugge del tutto che è proprio una forma di disperazione quella di non essere disperato, di non avere coscienza di esserlo». Tuttavia, occorre riconoscerlo, non ci vuole meno della disperazione per risolversi a consegnare nelle mani della negazione quel «sin qui e di qui», pieno di tutti i tesori del mondo, in cui per Hegel si riassumeva l’intera storia. Una volta, per ognuno che tentava di cambiare il mondo (leggi: di migliorare la vita sociale), le evidenze, le più care e più sante, della filosofia progressiva non avevano alcun valore. Ad esempio, “io vivo” è l’ultima parola della filosofia progressiva che vi vede risolti insieme il problema del suo inizio più sicuro e quello del suo scopo più certo. Io vivo significa tra l’altro per essa: non c’è ragione alcuna per non vivere; insomma “io vivo” comincia e conclude tutta la filosofia. Ma coloro ai quali quel tale si rivolgeva, o in nome dei quali parlava, erano quelli che meno di tutti al mondo avevano una ragione per vivere che non fosse il solo istinto e ai quali le evidenze di Cartesio e Husserl non avrebbero detto niente. Oggi le cose sembrano alquanto mutate; chi sogna ancora il cambiamento del mondo preferisce i felici ai disperati. La possibilità della vita sembra saldamente assicurata: quello che ci si promette è di restituircela al doppio. Allora, cambiate il mondo e vedrete tutti i guai finiranno? No, mille volte no, la vita resta ugualmente impossibile.
C’è chi si toglie la disperazione come un dente guasto e c’è chi non vi rinuncia per nulla al mondo ma se la tiene, oseremmo dire, come la cosa più cara che abbia. Per costui la disperazione è l’unico punto di contatto con la realtà e insieme l’unica cosa che gli dia la forza di richiederne il cambiamento. Ma se la disperazione è solo un momento, un lunedì della vita, allora si ritorna al punto di prima. L’epoca è matura per non essere? Presto detto, non è che un momento del divenire. E il cambiamento del mondo? Il divenire stesso. La parabola hegeliana ritorna al suo punto di inizio tale e quale? Oppure, crepare o crepare?, come è stato detto. Solo crepare, dunque? In realtà, bisogna ripeterlo, la vita resta eternamente impossibile. Per essa dunque non c’è niente da fare. Il “cambiamento del mondo” non è altro che la conquista di una morte dignitosa.

Manlio Sgalambro, L’educazione alla filosofia, La Sicilia, 2 aprile 1988

L'educazione alla filosofia

Lei mi domanda come formarsi filosoficamente. Noto come, saggiamente, non mi chieda di libri: cosa che il volgare fa per prima. Pratichiamo anzitutto un angelico cartesianesimo: chiediamo solamente alla mente. Per tornare alla sua domanda, sono perplesso sulla ingenua fiducia che lei ripone nella filosofia. La filosofia genera mostri. Naturalmente parlo di quelli che scava nella mente e non si appaga di notizie. Della filosofia si eviti anzitutto la storia. Certamente anch’essa ne subisce l’offerta. Ma non cominceremo da qui.
Un sufficiente inizio potrebbe esser l’esperienza del genere (alla quale lei a volte accenna con tormento). Avere dato origine a un essere (ad similitudinem pecorum, secondo l’immagine del divino Eriugena): trovarsi, padre, madre, orribile esperienza che fa torcere dalla disperazione. Indispensabile comunque per avere un sentore della ignobilità di ogni origine. Anche di quella divina. Se in lei si acuiscono i sensi, se questi rozzi legami con le cose divengono fili di seta simili ai nervi di uno zigano, sentirà Dio stesso come una mutilazione, come un impedimento alla mente di espandersi, di essere atto. Si sentirà, appunto, corpo e se ne vergognerà. A questo punto riverisca in Spinoza il padre dell’idea più accettabile di Dio: non disgiunto dall’estensione e fisicamente dato. Ma se ne guardi quando, insinuante, egli vuole instillare amore, per giunta intellettuale, per un simile Essere. Apprenda dunque, passo dopo passo, da se stessa. Trattenga miglior rapporto con la sua mente nella quale non troverà le idee – amabile ingenuità di Descartes! – ma i detriti, la schiuma delle cose ormai morte, il loro spettro. Questo è conoscere: non donarsi alla rossa, carnosa vita, al sole che inonda il mattino dei giorni.
No, non è votarsi a questo inebriante spettacolo, ma incontrare le cose al momento in cui esse si spengono urlando. Quel balenio finale, nel quale tutta la luce residua si raccoglie, la raccolga a sua volta e la fermi nell’istante, per sempre. Poiché si conosce ciò che è fermo, non si lasci ingannare da coloro che sembrano correre. Anch’essi, in realtà, sono immobili. Disdegni, peraltro, di conoscere se stessa. Non segua questa innocua follia. Chi potrebbe conoscersi senza compiacenza? Osservi l’altro, invece. Lo guardi come una cosa (repugnante com’è, il più delle volte). Il suo sguardo si aggiri implacabile e predace. Segua una misantropia illuminata. Metta a nudo il vermiculus: ciò che apprende di lui lo riporti a sé. Sì, ci si conosce attraverso gli altri: amarezza sconfinata di scoprirlo ogni volta!
Avvertirà dunque sorgere in lei, poco a poco, più che il desiderio di conoscere, tanto vantato, una repugnanza commista a una irresistibile tentazione. Conoscere perderà i connotati del desiderio che le prime parole della Metafisica testimoniano. Sapere ci rende succubi. Comincia da qui a deformarsi l’immagine di sé. Ormai si è come furfanti acquattati in un oscuro angolo pronti ad assalire chi passa. Tutto ciò che conosciamo dell’altro è rubato. Attraverso il medium di una conoscenza siffatta, il vero filosofo – mi permetta questa distinzione – “conosce se stesso” ma cosa! Le parole di quel monaco su quel tale forse non bastano: «Tu sis Petrus ille negator, Paulus ille persecutor, blasphemus et violentus, David ille adulter, peccator ille qui comedit pomum in paradiso, latro ille in cruce, in summa tu sis persona, quæ facerit omnium hominum peccata» («Che tu sia Pietro il rinnegato, Paolo il persecutore, bestemmiatore e violento, David adultero, il peccatore che mangiò il pomo nel paradiso, il ladro in croce. Insomma che tu sia colui che compì tutti i peccati del mondo»).
Una coscienza, deforme, mostruosa, inseguita dalle ingiurie di Plotino: «Chi biasima la natura del mondo non sa ciò che fa né sin dove arriva la sua empietà». Ma può il filosofo fare differentemente? Egli che è la coscienza del mondo, cioè il rimorso in persona per la sua esistenza? Cara amica, perdoni questi toni e l’indecoroso esempio. «Apud me omnia fiunt mathematice in natura» («Secondo il mio parere tutto avviene in natura secondo leggi matematiche»): apprendiamo con rimpianto di non essere fatti, anche noi, di matematica.
Un colpo di pistola chiarisce il problema della causa più di quanto lo faccia una partita a bigliardo tra gentiluomini. Ma un fatto non ha giurisdizione su un’idea. Qui subentra la storia, questa ingenua sentenza per cui tutte le filosofie moriranno. D’altra parte, delicatezza e parsimonia devono sempre contraddistinguere l’uso della storia in filosofia, senza di che essa ne distrugge, con la sua volgare invadenza, le più nobili trame. Della storia deve restare l’aura. Ciò che ogni buon narratore ne trattiene per i suoi fini. Si deve presentirne la presenza, ma a partire da tracce, da piccoli segni disposti qua e là.
Guai alla filosofia che dà informazioni. Lei spesso mi cita i versi di Hölderin: «Wir sind nichts; was wir suchen ist alles», «noi non siamo nulla; ciò che cerchiamo è tutto». Ma è dissentire da un poeta non condividerne le idee? Noi siamo tutto. Lasci che cerchino gli infelici, i miserabili, coloro che ripongono la speranza – s’immagini, la speranza! – nella speranza. Lei chiede ancora, che cerca? Non s’inquieti se le rispondo: chi non vive la vita della mente, il più ignobile dei simili, la nostra scimmia. Perdoni questa intemperanza ma dobbiamo parlare la grande lingua, la giusta, se vogliamo entrare nel paradiso della mente. Cacciamone dunque i mercanti.
Cominci da qui, cara amica, e vedrà che è già arrivata. Che arrivò un giorno, forse lontano, e non se ne accorse perché vi era già. Non si muova, guardi soltanto. Lei che ha tanto caro l’Émile, ha presente quel passo: «ôtez nos funestes progrès, ôtez nos erreurs et nos vices, ôtez l’ouvrage de l’homme, et tout est bien», «togliete i nostri funesti progressi, i nostri errori e i nostri vizi, togliete tutta l’opera dell’uomo, e tutto bene»? Io lo intendo così: togliete via l’uomo dal mondo. Mi creda, la verità, mia cara amica, è il mondo senza l’uomo.

Manlio Sgalambro, L’eroe estetico, La Sicilia, 19 marzo 1988

L'eroe estetico

Cosa significa trattare un problema esteticamente? Anzitutto trattarlo come il problema di un singolo. Certo questo non ne esaurisce tutti i significati, diciamo però che ne sottolinea il più importante. Con tutto ciò rimane ancora da stabilire perché un problema si debba trattare esteticamente. Ecco, potrebbe essere perché è un problema che solo il fatto che è vissuto da un singolo giustifica, e nient’altro; perché non ha alcun’altra esistenza al mondo che quella di essere vissuto da qualcuno. In tal caso non ci sono quadri entro cui un tale problema può essere trattato, o piuttosto ce n’è uno solo, l’estetica.
Non abbiamo però parlato di un’altra ragione, detta, questa, da Kierkegaard: «Essere un poeta è avere la propria vita personale in categorie diverse da quelle che si espongono poeticamente». È una ragione indiretta, ma stabilisce l’altra grande possibilità dell’estetica: la sua ubiquità. Essa permette di essere nello stesso tempo in due punti differenti: con la vita in uno, con l’immaginazione in un altro. Diciamo ancora di più – avremmo dovuto dirlo sin dall’inizio – essa permette di parlare come di un proprio problema, di un problema che non lo è affatto; e come di un problema che non è per niente proprio, di un problema che lo è assolutamente. Essa autorizza questa confusione e ne è complice; ma questa ambiguità le è essenziale. L’estetica permette di nascondersi (un altro suo carattere è difatti la doppiezza); ma d’altra parte nessuno di noi conosce altra possibilità, più di questa, di mettersi a nudo; ma anche qui gioca l’ambiguità ed è difficile stabilire quand’è che ci si nasconde e quand’è che ci si rivela: quando parliamo esteticamente, parliamo di noi stessi, oppure parliamo di un altro? Di una cosa o di un’altra?
L’abbiamo detto, l’ambiguità è essenziale all’estetica; un altro discorso è se è essenziale a chi ne parla; ma anche qui l’ipocrisia e la spudoratezza (non la sincerità, badiamo, la sincerità è una categoria etica, non estetica) giocano a suo favore: perché deve rimanere (deve, s’intende, esteticamente) del tutto irrisolto se egli parla di se stesso o di un altro; deve rimanere del tutto irrisolto se egli parla come di un proprio problema, di un problema che non lo è affatto; oppure come di un problema che non è per niente proprio, di un problema che lo è assolutamente.
Posto che il maggior contributo datoci da Kierkegaard sia l’estetica, e quindi questa controluce in cui egli immette i problemi, questa specie di ambiente diafano e malizioso in cui essi sono visti, che cosa sarà ciò a cui egli tiene di più? La fede? Siamo franchi, per niente; essa è ciò di cui egli si definisce il poeta; in questo senso è il suo maggiore interesse, ma solo in questo senso. Che egli tratti esteticamente la fede, è una confusione deliziosa, ma certo non è solo questo: possiamo dire che è la sua fine?
Avverte Kierkegaard la responsabilità di ciò che fa? Chi può dirlo? Trattata esteticamente la fede, tutto diventa losco. Kierkegaard parla d’Abramo – tema se mai altro religioso – ma è come se tutto fosse sospeso; come se tutto avesse perso i suoi naturali ormeggi. È come se Kierkegaard ammiccasse, come se egli volesse farci capire – ma mai chiaramente – che non è così come noi pensiamo d’aver capito e che non capiremo mai. Quest’uomo che forse ha scavato la tomba alla fede passa ancora per uno dei suoi maggiori sostegni: una immensa ironia che può ben essere il suo premio.
Ma perché tutto questo? Perché ogni problema trattato esteticamente si raddoppia, non è più uno ma due. Non è più quello con cui si cominciò, però nemmeno quello con cui si finisce. Che cos’è allora? Questo viavai continuo e insopportabile dall’uno all’altro; questo sospetto che si tratti sempre di qualche altra cosa e non di quello di cui si tratta; in una parola è il sospetto stesso. Condizione questa quanto mai propria all’uomo moderno; egli non vive né di certezze né di dubbi, ma di sospetti, può ben dire di avere nell’estetica ciò che merita. I suoi tenaci sconforti, le sue attese deluse ma sempre rinascenti, dove potranno trovare una patria, chi può raccoglierli se non le mani pietose di essa?
La potenza sovvertitrice dell’estetica avrà dunque egualmente i suoi effetti; sotto l’attacco del desiderio e della fantasia il mondo «reale» comincerà a perdere terreno. Bello è solo ciò che avrebbe potuto essere. Ma si può vivere di questa possibilità? Una vita estetica è tutto quanto ci è possibile? Sfiorare le cose con un battere di ciglia e passare oltre? In realtà questo è il problema dell’eroe estetico; solo lui lo può decidere e nessun altro può metterci bocca. Davanti al sorriso ironico dell’eroe estetico, anche il Potere boccheggia. Sia pure per un momento esso si vede guardato. Ma di più non è dato alla vita estetica. Essa passa con noncuranza attraverso le cose e non si ferma, come chi guarda le vetrine e già gli basta. Anche le idee scorrono tra le sue dita come i grani di una collana. Che pensare? Ogni cosa diventa un’idea per questo giocoliere! Ma chi vive esteticamente non si arresta mai. Tutto ciò che lo circonda viene travolto, di tutto cerca l’idea il nostro platonico. Tutto traspare, ai suoi occhi, tutto è di vetro.
La vita estetica… Essa agisce per istanti e dura quanto dura un sogno. Però sotto il colpo di questi istanti, qualcosa compare qua e là e anche il vano e il futile di cui essa si nutre scintillano come pietre preziose. Eccoci arrivati all’altra grande possibilità dell’estetica, a quella infine alla quale si voleva arrivare. Qui v’è il più importante retaggio dell’estetica che di essa si possa vivere. Chi può prendere sul serio colui il quale va in cerca del futile, con la stessa appassionata costanza, con la stessa fedeltà dell’estetica? Essa guarda la vita e la morte come piume leggere che può sollevare con l’alito. Non vi fermate, però, al solo sorriso dell’eroe estetico, al modo come saltellano i pensieri tra le sue abili mani, non vi fermate così presto. Seguitelo ancora, come ombre discrete, e se vedrete con lui, per un fugace istante, l’idea per tanto desiderata di ciò che avrebbe potuto essere, l’inobliabile bello per sempre perduto, per il male che vi arreca il rimpianto, maledicetelo.

Manlio Sgalambro, I funzionari dell’eternità, La Sicilia, 13 marzo 1988

I funzionari dell'eternità

Distrazioni
Queste assenze da sé sono odiose. Vi si sfiora l’alito fetido della morte. Sì, quella bella ragazza che ride come una folle, appagata e «felice», sa essa che in questo stesso momento è sfiorata dai vermi? Dov’è la coscienza che con la continuità della sua presenza assicura quella vita che essa vuole, costi quel che costi? Questi vuoti sembrano agli sprovveduti il culmine e invece in quel momento si tocca il fondo più basso di ciò che tuttavia si sarebbe voluto esaltare. Solo una costante attenzione può dare quello che si vorrebbe raggiungere invece con la distrazione. Lo giuriamo su Malebranche.

Luogo natale
Si torna al luogo natale con sentimenti diversi sui quali predomina una specie di astio per quello che ci riguardò da vicino o che tocca a fondo la nostra origine. Vi fummo scimmiette che saltellavano tra le sbarre a cui si davano cocco e banane. Apprendemmo lì i primi rudimenti della vita – sesso, denaro, cristianesimo – mentre dai cadaveri, esposti nella stanza più bella, vedemmo la bruttezza della morte. Capimmo quanto entrambe fossero vili. Sì, questo apprendemmo ed altro del genere. Certo il luogo natale ci insegnò a vivere, eccome, ma non l’avremmo voluto.

Vecchia scrivania
Il piano rivestito di panno verde come un tavolo da giuoco. Un porta calamaio, con intinta una penna rosa pallido. I cassetti allineati su due file laterali si elevano come due colonne finendo in due piccole scanzie dove stavano i libri. Il tiretto centrale conteneva sottili fogli di carta bianchissima, invitante e altre leccornie: pennini, asticciole multicolore. Due colonne di cassetti a scendere abbracciavano le gambe di chi vi si sedeva. Chi scrive vi prese i primi appunti della sua vita, fu difficile tramutare sensazioni appena nascenti in cose scritte. Quella scrivania allora ignorata torna ora alla mente come qualcosa di possente e di giusto. Se avesse appreso a fabbricare objets invece che pensieri.

Lettere
L’atto di imbucare una lettera fa pensare, solitamente con fastidio, al tempo che impiegherà ad arrivare. Ma il tempo è la categoria stessa della lettera la cui attesa è il modo medesimo di assaporare l’arrivo. L’attesa è insomma il suo modo stesso di esistenza. Chi dunque ha premura non è fatto per scrivere né per ricevere lettere. L’amatore l’infila nella busta come in una sacra custodia, poi la chiude come se dovesse restarvi per secoli, quindi l’imbuca con le sue mani. (Solo il volgare ritiene che chiunque possa imbucare una lettera!). Quando poi ne riceve una, non la apre con fretta, spiegazzandola ignobilmente – riuscendo a fare ciò che lo spazio percorso non riuscì – ma anzitutto la mette da parte, quasi la facesse riposare dal viaggio e finalmente, il gran momento.

Superstizione
La superstizione, di cui si è imparato tanto bene a vergognarsi, collega direttamente alla preistoria nella quale l’immagine di una Essenza universale ha il suo ambito naturale, anche se se ne fa attendere il concetto. Nella grande opera di Klages, Der Geist als Widersacher der Seele (Lo spirito come avversario dell’anima) sta scritto: «Quanto alla superstizione e alla fantasia, non si deve dimenticare che l’essersene liberati è solo il dubbio privilegio delle “persone colte”, mentre in entrambe ci imbattiamo tanto più profondamente, quanto più scendiamo al livello della coscienza popolare, ed è lì soltanto che troviamo i fili che ci riallacciano alla preistoria umana». In queste parole il collegamento dell’immagine direttamente alla preistoria funziona da fattispecie. Essa stabilisce i diritti della superstizione su ogni religione «progredita». La divinità delle querce celtiche – inaccessibile all’uomo «religioso» moderno – assieme al brivido fluidico che viene giù dalle frusciante cime.

Saltimbanchi
La storia, a cui anche la filosofia si rimanda, la mette a balia del tempo, come un’eterna bambina che lo storico accudisce severo e comprensivo. Vuoi afferrare un concetto, la sua durezza? Ma ne prendi l’ombra. Si tratta di pensieri collocati nell’ambito mitteleuropeo, o tipici del periodo weimeriano, id est ormai improponibili; cose che hanno fatto il loro tempo. Ascolti Spinoza: «Ego non præsumo, me optimam invenisse philosophiam sed veram me intelligere scio». Ma subito viene la storia della filosofia e rimette tutto a posto. Spinoza è ingenuo mentre chiunque sappia che la propria filosofia non è né unica né vera, no. Hic Rhodus, hic saltus

Niente più da pensare
La «wissenschaftliche Klarheit», la «chiarezza scientifica», che secondo il programma annunciato da Husserl nella Filosofia come scienza rigorosa, doveva illuminare la grande impresa della trasformazione del caos in cosmos, mediante la scienza, nella delusa Krisis rischiara malinconicamente lo slogan con cui il tardo Husserl pubblicizza i prodotti di ciò che resta nella «scienza rigorosa»: «Sie verbrauchen sich nicht, sie sind unvergänglich», «non si consumano mai, sono definitivi». Il filosofo ut sicdeve produrre «idee» come compito infinito (termine prediletto da Husserl); l’immortalità gli è così assicurata insieme all’immortalità della «intenzione» di cui si proclama funzionario a vita. Eguale eternità è garantita al pensiero, ma a spese della verità se è possibile, per intanto, che davanti alla verità non ci sia più niente da pensare.

Manlio Sgalambro, Risposte, La Sicilia, 5 marzo 1988

«And what is Cosmos, Mr. Sanderson? / What is the meaning of the word?»
— Virginia Woolf, The Captain’s Death bed and other essays

Ira
Senza l’ira la riflessione perde mordente, la sua stessa ragione. Rimane solo un’abilità. Un serpente diventato verme. Si raccomanda, suadenti, l’assenza di emozioni senza le quali, si dice, si penserebbe meglio. Mentre è sotto l’impeto dell’ira che il pensiero ha la meglio su quei limiti che il celebre Kant gli prescrisse per sedarlo. È come se esso si tonificasse al suo contatto e trasportato sulle ali della tempesta arrivasse ovunque.

Polizia e teologia
Che l’illuminista Le Sartine, l’amico di Diderot, diventi luogotenente generale di polizia, appartiene alla morfologia dell’epoca: ritaglia una forma del tempo e l’incide come un orafo. L’idea di polizia desublima quella di Dio e la realizza portandola sottobraccio fuori dalle chiese. È ciò che poi si chiamò panteismo moderno. Dio non è più che pace, ordine e sicurezza. La «candida» teologia dell’Abbé de Saint-Pierre – «Dio è colui che punisce i cattivi e premia i buoni» non è in fondo la teologia del flic?

Morte per coltello
Il bagliore della sua lama è l’essenza del coltello. Davanti a Dio esso non è altro. Se c’è una idea del coltello nel mondo intelligibile essa è il balenio che scaglia contro quand’è colpito dalla luce. La fiammata che assale gli altrui occhi minacciosa. Non è nemmeno vero che immerso nel corpo di un vivente sia la lama a dargli la morte. È la luce, invece, che penetrando in lui lo trasforma in cadavere. La troppa luce, condensata in un guizzo, gli strappa la vita come una tenaglia e la butta ai cani.

Esperienza di un intelletto traviato
Il settimo colloquio delle Soirées de Saint-Pétersbourg cosa ha da invidiare al secondo libro del Mondo come volontà e rappresentazione o, ancora meglio, alla Volontà della natura? Si aggiunga che De Maistre non ha tempo per giocare alla metafisica: egli sa. In questa pagina v’è contenuto il fulcro del Mondo con in più il giusto modo di sbrogliarsela: «Nel vasto campo della natura vivente regna una violenza manifesta, una specie di rabbia decretata, che arma tutti gli esseri in mutua funera; appena oltrepassate le soglie del regno dell’insensibile vi trovate di fronte al decreto della morte violenta scritto sui confini stessi della vita. Già nel regno vegetale si comincia ad avvertire la presenza di questa legge: dall’immensa catalpa all’umile graminacea, quante sono le piante che muoiono e quante quelle che sono uccise? Ma appena entrate nel regno animale, la legge assume di colpo una spaventosa evidenza. Una forza, nello stesso tempo nascosta e palpabile, si rivela continuamente occupata a rendere forzatamente vulnerabile il principio della vita… a mettere allo scoperto il principio della vita mediante mezzi violenti… il massacro permanente è previsto e ordinato nel gran tutto». Come nelle grandi Summæ, trepidanti, attendiamo, ma invano, che si aggiunga: et hoc dicitur Deum.

O adolescenza!
Potere restare a lungo immaturi, ancora per lungo tempo adolescenti! Ciò fu possibile un tempo quando non si voleva, quasi, che si crescesse. Si crebbe, così, senza premura, senza che nessuno spingesse sgarbatamente nel mondo degli adulti, come oggi. Chi diventa adulto presto, resta per sempre bambino.

La verità non educa
Se ci sono conoscenze assolutamente vere, esse non riguardano chi attende alla propria formazione come se si abbigliasse, ma chi bada, senza fronzoli, alla verità sola. Per quei signori infatti bisogna fischiargli forte nelle orecchie che non è detto che la verità educhi. Sappiamo di uomini che prendono a pedate l’ospite importuno, o che sputano in faccia al discepolo prediletto. Di certo la verità li possiede. C’è chi di fronte a un banchiere scoppia in risate frenetiche (o che al cospetto di «sublimi» pensieri invoca il dio Crepitus). Certamente anche lui è posseduto ineducatamente dalla verità.

Stupidità della ragione
Che filosofie e metafisiche abbiano dovuto fare nel passato da sostegno agli uomini, aiutarli a vivere, ciò è vero persino di quelle che per la loro più completa emancipazione hanno fatto tutto il possibile; ciò è vero sinanco dell’illuminismo. Complesse e maestose costruzioni del pensiero si possono smentire con niente, metterne a nudo il ruolo stregonesco: esorcizzare gli spiriti maligni. Ma ciò proverebbe? Attraverso tutto questo, infatti, l’individuo acquista autosufficienza, maturità, ragione, si emancipa, ed in ultimo va a finire proprio dove si voleva impedire che finisse: vedere in faccia la vita e fuggirsene spaventato.

Spontaneità
Bisogna cercare di capire la radice della stima che si ha per la spontaneità. Certamente in Kant, in cui si affaccia in maniera tematica, il concetto di essa deve ricollegarsi alla «natura» nel senso roussoiano di contro alla «civiltà» intesa come artificio. «Spontaneo» sarebbe dunque tutto ciò che si è «per natura» – ossia, ci si perdoni il bisticcio, spontaneamente – di contro a ciò che si manterrebbe in qualche modo esterno all’individuo. Ma nella spontaneità non è tutto oro quel che luce o, come dietro le quinte, dove della «spontaneità» dell’attore sul palcoscenico se ne sa di più, proprio perché essa finisce di fatto col trascinare con sé tutto ciò con cui l’individuo viene a contatto, spontaneo diventa tutto, ossia tutto ciò che si è trasferito, armi e bagagli, nell’individuo, e lì si trova ormai a casa propria.
Che l’individuo abbia fatto suoi i contenuti più disparati, i quali vi si ritrovano ormai ben fusi, indica che la spontaneità è in gran parte spazzatura; dove, ciò che l’individuo ha incorporato, ricompare al livello in cui è tutt’uno col suo caro io.
Ciò non significa che si vorrebbe l’individuo senza ciò per cui egli lo è. Anche se disperatamente lo si vorrebbe.

Manlio Sgalambro, Impressioni, La Sicilia, 25 febbraio 1988

Impressioni

La danza dei sette veli
Tutta la forza della vita è fuggita nel denaro. Il trapasso in esso della forza vitale è il fenomeno fondamentale davanti al cui trauma, ancora inassimilato, si ferma sbigottita l’anima moderna. La scherzosa battuta che il ricco è diverso dal povero appartiene al demoniaco. Ma tale è il mondo. Per intanto il denaro lo sconsacra e se ne fugge il mistero che ieri l’illuse. La dissacrazione dei valori trova nel valore del denaro l’effettivo valore. Il fallimento del bene, che rivela tutta la sua impotenza, rafforza l’imperio di quello che in un baleno può realizzare ogni sogno. Sotto l’ala del meglio si confortano solo le anime candide che vi si rifugiano dopo le bastonate ricevute. Eppure il bene oggettivato viene fuggito come la peste, incarnato com’è nel valore che non perdona. Attraverso l’unione asintotica di valore e denaro appare il movimento reale del bene che però non viene più nominato. Il meglio non è interrogato in persona ma attraverso il suo equivalente. Ma la risposta che il meglio non è che l’immagine del denaro essi non l’accettano se non coperta da almeno sette veli, quelli cinta dai quali danzò Salomè.

Introibo ad altare Dei
L’accostamento a una filosofia è un momento devozionale. La sensualità in cui si assapora il concetto si fa da parte. Il soggetto al quale essa però non è destinata, come se fosse fine a se stessa, si muta in oggetto vile, puro strumento sul quale si deve eseguire. L’immagine desunta dalla musica lo indica: essa non va interpretata; ridisciolta in un soggetto da cui fu a forza espulsa. I tempi dell’accostamento vanno scanditi da uno spirito genuflesso…

Apprendere morale da Madame De Maintenon
Il vizioso di morali trova eccitanti gli insegnamenti alle «demoiselles de Saint-Cyr» della suddetta signora, notoriamente esperta. Tra i tanti, potrebbe citare questo sulla noia. «Sei persone bruciando dalla voglia di vedersi, / Dopo essersi cercati, si ritrovano una sera. / In un oscuro e solitario luogo. / Quanto grande fu il loro piacere! Superava ogni immaginazione. / Ma, dopo i gioiosi saluti iniziali, non seppero che dire, né che fare».

Vienna
Il senso del numero si impadronisce dello «Spirito» e spiattella il suo segreto: la supposizione del giovane Hofmannsthal che lo «Spirito» sia in tutto un paio di migliaia di individui trova conferma. Solo in provincia si sa contare come a Vienna.

Antiagostinismo
La verità sopravviene all’individuo come un incidente, dal di fuori.

Silete Theologi
Se rubi ti arrestano; se affermi che esiste Dio è solo una opinione. Ciò ci ha sempre meravigliato.

Realtà
Il primato della realtà contiene sia il giudizio sulle altre realtà degradate a sogno o allucinazione. Ciò che arma il giudizio non è il danno che la droga o l’alcool, ad esempio, produrrebbero sull’individuo, ma l’attentato portato alla maestà del concetto di realtà che non va assolutamente toccata la pena di morte. Realtà è una sola. Questo imperativo sorregge l’intero concetto di realtà rispetto al quale si è sempre definito ciò che non è reale, dal delirio del folle all’ebbrezza dell’ubriaco. È la realtà stessa che impone quale dev’essere. Sono i suoi imperativi a stabilirlo. Ma l’unificazione della realtà, avvenuta sotto l’imperio borghese, che distrusse anzitutto tutte le realtà eccedenti che essa trovò, dissolse il concetto di apparenza che una volta, pacificamente, aveva indicato proprio ciò che ora si chiamava orgogliosamente realtà. Ormai, dunque, questa realtà, che prima si toccava appena, apparendo e sparendo, conquista il primato; anzi diventa esclusiva e senza più rivali. Ogni tentativo di contrapporne un’altra trova la realtà pronta. Essa usa le astuzie e i procedimenti che già collaudò quando fece fuori Dio. Ma allora era all’attacco, balda e giovane, fresca come una rosa al mattino. Oggi essa si difende. In ogni caso, queste altre realtà che minacciano di morte la realtà per eccellenza, segnalano anche l’irrealtà di quest’ultima. La sua spasmodica difesa indica che essa, senza saperlo, lo sa.

A Keyserling, signore intellettuale di queste terre
Di uno dei capolavori della filosofia minore, il motto: «Il viaggio più breve verso se stessi è un viaggio intorno al mondo», dice tutto. Esso rivela le divine ascendenze neoplatoniche come un eterno momento. E invero anche Keyserling “ritorna”. Ma le tappe non sono più Ipostasi, bensì continenti. Ciò che Keyserling conobbe viaggiando, egli conobbe con l’essere suo e la facoltà dell’intelletto lo seguì stupita. Nel Reisetagebuch eines Philosophen (Giornale di viaggio di un filosofo) si viaggia già tra costellazioni. Una cosa lo prova: le tracce di vita che si cercano nei lontani pianeti non ci sono già qui. O il malaccorto Keyserling non ne trova. Come fattispecie valgano i Tropici: «das Leben ist hier Vegetation», la vita è qui vegetazione. Qui signoreggia l’albero come vita sopravvissuta. Questo minimo di vita è la vita retta. Essa fruscia al vento o si piega umile alla pioggia. Anche le immagini si rincorrono in un vorticoso turbine di incontri, pure esse scosse dal vento. / O incanto! «Mon âme aujourd’hui se fait arbre»…

H. B.
Questo argomento si può chiamare «la morte di Herman Broch» (come c’è l’argomento del mentitore o quello del cornuto). Herman Broch, che per tutta la vita si era preparato a una bella morte, fu trovato al 78 di Lake Palace, New Haven, Connecticut, disteso sul pavimento, con le brache abbassate, morto mentre usciva dal gabinetto. C’est la mort!

Manlio Sgalambro, Il filosofo del futuro, La Sicilia, 20 febbraio 1988

Il filosofo del futuro

Onorare la nascita di Schopenhauer è già un insulto per un uomo che sprezzò ogni nascita. Dalla scolarca invisibile – termine che per solito non viene elevato da colui al quale si riferisce ma che qui è strettamente al suo posto – provengono indizi in tal senso. Ma i filistei lo onorano lo stesso. Se vi è un’opera che non avrebbe dovuto essere, essa è Il mondo come volontà e rappresentazione: un fantasma che si aggira per l’Europa. Tutto la rifiuta e soprattutto ciò che egli chiamò «volontà di vivere». Ma i filistei le rendono onore mentre celebrano, affiatati, l’autoconservazione alla quale reggono il moccolo. Per la miseria della storia Schopenhauer è già passato: qualcosa ammonisce che il futuro invece sarà suo. Una vera lotta per il pessimismo – come scrisse Burckardt – dovrà ancora essere combattuta. Sotto le sue insegne galopperanno i cavalieri dell’ordine della salvezza o si smarrirà per sempre ogni nostra traccia? Da reazionari e maneggioni si ereditavano concetti come quelli di storicità e perfino di dialettica. La stessa cosa avviene oggi col concetto di pessimismo. Con una parafrasi si può dire che il pessimismo ridiventa di moda perché sembra che lasci come stanno le cose esistenti. Ma sotto il suo aspetto razionale esso è «uno scandalo e una abominazione» perché nel concetto di cose esistenti comprende l’estinzione della volontà che le vuole. Verrà questo momento per l’Occidente? Se sì, chi potrà esserne la guida se non colui che non ritenne l’Occidente una civiltà ma una accozzaglia di banditi?
La sfrontata tesi di Dilthey, «il pensiero non può andare al di là della vita», sembra nata lì per lì dal Mondocome rispostaccia da comare. Si sa comunque come la filosofia della vita esca proprio da qui, dalla malizia di chi, scrivendo su Schopenhauer, si firmò, maldestramente, lo «speranzoso». L’incertezza in cui Dilthey – «el hombre que ha pensado más sobre la vida» come lo definì Ortega che non si accorse di niente – lascia la questione si deve mettere in relazione col fatto che dopo Schopenhauer si sa invece cosa parlarne. È in un confronto tacito col pessimismo sistematico che la filosofia della vita dosa i suoi effetti. Essa si muove su un terreno minato, ma ha dalla sua la vita medesima che agita la coda.
Lo stesso concetto di esperienza vissuta è un escamotage con cui viene aggirato il concetto di esperienza al quale si era severamente richiamato il pessimismo. Mentre l’esperienza trascendentalmente oggettiva, a cui si era riferito Schopenhauer, era, nello stesso tempo, giudizio, l’esperienza in quanto vissuta è impegnata immediatamente nella vita che non deve peraltro che capire, non giudicare. Questo concetto di esperienza contiene meno esperienza di ogni altro. È l’assoluta inesperienza ove tutte le esperienze sono buone. «Bisognerà sopportarsi reciprocamente – dice Dilthey nel dialoghetto L’uomo moderno -. In altre parole nessuno potrà confutare il proprio avversario. Perché, nell’ambito dell’esperienza, di questa esperienza che determina ciascuno di noi come una potenza che lo domina, restiamo interamente sovrani».
Da qui scaturisce – con le parole di Dilthey – l’uguale valore di tutte le esperienze. Mediante l’equivalenza delle esperienze vissute si ricostruisce una simiglianza di universalità. Un’equivalenza che funge da universalità senza esserlo. Il relativismo – caricatura del grande scetticismo – si contrappone «vittoriosamente» al pessimismo. Ma dove tutte le esperienze si equivalgono non c’è più alcuna esperienza della vita – solamente una «filosofia» della vita. In realtà essa, contrariamente alle speranze di Dilthey, poi non crebbe ed è rimasta bambina davanti al pessimismo, la cui vecchiaia corrisponde invece all’età del mondo.
Solo una temerarietà sul piano personale, un’assunzione di responsabilità filosofiche, scongiura la autentica débâcle che per una filosofia è fallire nel campo della denominazione. Il libero potere del filosofo a tale riguardo non è lo sfoggio di questa libertà ma quello di resistervi a qualunque costo. Schopenhauer, ad esempio, non agì diversamente dalla frivola cultura. Dopo Spinoza temerario era trattare di Dio più che della volontà. Ciò egli non osò; eppure si compiacque della sua audacia. Si immagini se al posto di una filosofia Schopenhauer avesse scritto una teologia! Egli avrebbe dato verità alla frase di Harmann – «fra le idee trascendentali e la demonologia non c’è molta distanza».
Ma ciò che fece fu già abbastanza. Spaventare una specie consolata da duemila anni di cristianesimo! Ebbene, egli vi riuscì. Per scongiurarne il pericolo lo si chiamò «artista». Gli si rivolse contro la bellezza della sua opera come prova di poca serietà. (Lo si riterrà anche responsabile del suicidio di Mainländer? della follia di Nietzsche?). Ma al ghignante messere non la si fa. Che importano un individuo o mille davanti all’idea che ottusamente permane? Fin quando esisterà un occhio che lo vede, il mondo sarà lì! e un uomo varrà per tutti. (Si immagini che dalla catastrofe che annienterà la specie uno solo rimanga e che costui rappresentandosi il mondo continui a farlo esistere. Una pagliuzza lo divide dal nulla. Eppure tutto è come prima. Il sole sorge e tramonta sempre e il dolore del mondo pure. Si immagini che quest’unico uomo, a causa di cui tutto rimane ancora al suo posto sia, per la sua dannazione, Schopenhauer stesso…).
Chi ci guiderà dunque in questi incontri di morte? chi ci scorterà rassegnati o fieri al macello? Egli, Schopenhauer, degno maestro dell’inferno che ne tracciò la mappa indicando cammini e vie nascoste alla fine delle quali ci irretì col miraggio del nulla. In realtà egli fu il primo che seppe interpretare il destino del filosofo e capirne la riposta cattiveria come il segno alchemico della sua veridicità. Infatti non tacque niente, niente nascose della nostra natura. Che si sia disposti a uccidere il prossimo pur di potere ungere i propri stivali col suo grasso: con ciò egli definiva la specie con pacata tranquillità.
Onoriamo, sia pure dunque, la nascita di uno che non avrebbe voluto nascere mai, ma ricordiamoci che con ciò tutta la nostra vita fu compromessa. Egli ci ha educati, noi suoi discepoli, a bestemmiarla e a trarre tenere note dal flauto.

Manlio Sgalambro, In nota, La Sicilia, 6 febbraio 1988

In nota

Sogni e banchetti
Il ricco sopraffà il povero anche nei sogni. I sogni del povero sono fatti con le miche che cadono dal suo banchetto. La società «migliore» per cui quegli smania, somiglia sorprendentemente alla casa dei ricchi, piena di ottime cose e cibo abbondante caduto dal cielo. Pingui cosciotti di agnello e abiti di stoffa inglese. Vacanze alle Seychelles. Il resto è eloquenza.

Facenti vece
Bene adatte esperienze letterarie sarchiano in profondità quel terreno che l’insoddisfazione metafisica abbandonò al suo destino. L’alt alla metafisica, contrassegnato da severi divieti, ha come risultato una filosofia stracca, deboluccia, per castrati. Romanzi, esperienze figurative e visive, canzoni, persino la danza; col mondo specifico che è loro proprio, trattano, al coperto da ogni responsabilità, i temi ultimi con discreti risultati, e approntano quella «metafisica» di cui pare che l’individuo, poverino, non possa fare a meno. Naturalmente tutto risulta un po’ diverso. Però ci si diverte di più.

Vecchio e nuovo
La ricerca della novità è invecchiata. Si sa. Ma ci si attende egualmente del nuovo dalla lettura di un libro come da una ricerca in laboratorio proprio come ci si attende che domani spunti il giorno. D’altra parte anche ciò che è vecchio viene rimesso a nuovo. Il cosiddetto reazionario si inventa un passato come il parvenu si inventa gli antenati alle crociate. Il passato è, per entrambi, l’ultima novità.

Incarnazioni
Tutte le incarnazioni che si sono susseguite hanno sempre di più assottigliato la speranza – che lo merita. Da quella di Dio in un piccolo paese della Galilea, a quella della ragione a Berlino.

Ulysses o una giornata di vita
La platonica idea del Bene circola per le strade di Dublino e lo Spirito del mondo fu visto per le vie di Jena: «improvement all around» – «miglioramento in tutti i campi». L’agente di pubblicità Mister Bloom si frega le mani e conclude la giornata «seduto sui suoi odori ascendenti». Che cosa miserabile è una giornata di vita!

Il luogo della filosofia
La cinica scoperta che la filosofia si realizza in un libro mostra che la disillusione l’ha raggiunta. Il sistema hegeliano fu il tentativo di dare una degna dimora al filosofare che, secondo Kant, non ne avrebbe «né in cielo né in terra». Questo luogo sarebbe il mondo stesso; questo mondo. Ma la voce della disillusione non è ancora paga ed ammonisce che la filosofia non è né in nessun luogo e non è nemmeno il mondo. Essa è solo un libro. Questa è la conclusione della riflessione sul luogo della filosofia. Tuttavia, in quanto tale, essa avrebbe il destino di ogni prova? Dissolversi nella comprensione, avere fatto capire qualcosa, essere stata vissuta da qualcuno? Avrebbe il destino di scomparire nel suo lettore? Dargli la sua frivola verità ed eclissarsi? In realtà ogni filosofia non esiste in altro luogo che nel suo spazio. Se ci si chiede, dunque, dove esiste una filosofia bisognerà infine rispondere, con la morte nel cuore, sulla carta come il quadro sulla tela.

Filosofie monumentali
Se si potessero ricostruire i più puri rapporti delle filosofie tra loro e raggrupparli secondo le distinzioni che Nietzsche adoperò per la storia, si potrebbero distinguere filosofie antiquarie, critiche e monumentali. Tralasciando le prime due, quand’è che una filosofia si deve dire monumentale? Quando non si può né disfare né rifare e lo stesso maestro ne è discepolo.

Aforistica
L’aforisma manda in pezzi l’ethos oratorio quale forma legata all’insegnamento supponente e trasmigratorio poi nell’opus. Tutto quanto si può dire in un aforisma, l’anima del quale è la scansione che non segna la stanchezza del pensiero, ma il suo eroico fermarsi per raccogliere, volta per volta, il pensato. Ogni passaggio mostra i suoi sacri intervalli. Solo il pensiero epidittico è un flusso continuo, inarrestabile, bestialmente vitale. Quello aforistico è fatto di immobilità. Questi arresti del pensiero, sono essi i concetti.

Tesi senza argomento
L’invito a dimostrare le proprie tesi che si rivolge al filosofo pecca per difetto non per eccesso, perché egli fa di più, le mostra.

Identità
Si nasce senza identità. Chi si è? L’identità fa parte dell’illusione sociale che ce l’appioppa addosso per il suo tornaconto. Poiché essa prima o poi deve colpirci non vuole mancare il bersaglio. Senza società niente identità. Chiediamoci: chi è l’assassino? Colui che ha commesso i delitti o anche chi li ha oltrepassati non in un abbietto rimorso ma in una coscienza più vasta che li include e con i quali ormai non si identifica? Ma l’identità ha un esclusivo senso sociale, non ha significato alcuno davanti all’universo e dunque è costui colui che ha ucciso, non l’altro. Naturalmente davanti al cosmo (o a Dio: Deus sive Mundus) egli è innocente.

Pistole
L’arma da fuoco riceve da Hegel una superiore giustificazione e la benedizione finale. «Essa – scrive Hegel – fu uno strumento essenziale per l’affrancamento dalla forza fisica dei singoli… Le fortificazioni dei castelli, gli strumenti dell’isolamento individuale, armature, e corazze, queste preziose armi di difesa del singolo, furono rese inutili… Si può bensì deplorare la fine o la decadenza del valore dell’eroismo personale… Ma, in realtà, l’arma da fuoco fece nascere il coraggio superiore, quello più spirituale, più razionale, più cosciente…». L’essenza dello spirito è la pistola, la minaccia permanente contro la vita come nemica di esso. Occorre una pistola e «du courage», dice Voltaire. Essa non deve mancare nella casa del filosofo.

Manlio Sgalambro, Convito, La Sicilia, 30 gennaio 1988

Convito

Cattiva impressione
Vi sono pensieri che danno l’impressione di essere definitivi; che non vi si possa aggiungere né togliere niente. Proprio per questo non si sa che farne. Impacciano. Così in certi vecchi testi religiosi, vedici o ebraici, o in pensatori come Schopenhauer. Si sente che in essi è stato detto tutto, eppure non si sa che farne, proprio per questo. Ma ciò che dimostra? Per i filistei della verità, essa si deve poter scambiare – tu mi dai la tua, io ti do la mia – impiegare e mettere a frutto. I pensieri sterili, dal grembo infecondo, sono banditi. Ma essi lo divennero perché troppo osarono.

Interpretazione dell’interpretazione
Fa specie che un grande testo debba dipendere dalla interpretazione del primo imbecille, quanto, se non più, che la realtà del mondo dall’apparato percettivo dello stesso.

Sensi di colpa
Nel senso di colpa che si prova nel godimento della bellezza, c’è anche lo stupore che in questo mondo si possa responsabilmente godere di qualcosa che non sia lo spasimo irriflesso del coito. Nell’idea di sofferenza che viene evocata dalla grande poesia in levigate bellezze, quest’ultima ha sempre suscitato il sospetto di connivenze e in complesso lo stesso meccanismo dell’arte induce a quel perdono che non vorremmo concedere a nessun costo.

Anticaglie
È roba di altri tempi seguire una filosofia per rendersi tangibile l’idea di verità. Attraverso le idee di una filosofia praticare la verità medesima. Oggi che la verità non «è» ma «si fa», qualsiasi imbroglione l’ha sempre sulla punta della lingua e una filosofia serve, al più, a farne un’altra.

Giornale e metafisica
Le ultime metafisiche di rilievo mondiale, quelle di Hegel e Schopenhauer, sono figlie dei giornali che essi leggevano come preghiera mattutina o atto dissacratorio; non del ritorno in se stessi. «Ma anche in realtà avviene così e io l’ho letto più volte in giornali inglesi». A questo modo Schopenhauer eleva l’ultima notizia a notizia delle cose ultime. Nei giornali, effimera eco dell’avvenuto, stanno le parole chiave raccattate dalla strada: la cronaca del mondo è il tribunale del mondo. Gli asserti della metafisica, rifiutati senza sospetto dalla ingenua filosofia, sono ormai appannaggio dei giornali: Dio è il Grande Petrolio. La loro metafisica libra nell’aria ciò che sta sotto terra. Esso ballonzola leggero e poi si scioglie e scompare. A domani.

Fantasmi
Quegli uomini che ti guardano da una foto sono divenuti quello che sono sempre stati: immagini.

C’est la vie!
Come attraverso gli occhi del cavallo Passolungo, nel racconto di Tolstoj, la vecchia, arcinota vita torna a fare rabbrividire, così è attraverso gli occhi degli animali che Schopenhauer vede il mondo come l’inferno che è; di questi animali dei quali già Hegel, nell’Enciclopedia, rende noto che i sentimenti che li legano ad esso sono sentimenti di insicurezza, d’angoscia e d’infelicità. Il soggetto animale, che percorre come un filo segreto la gnoseologia schopenhaueriana, quasi come ennesimo tiro giuocato a quello idealistico di stretta osservanza, adombra tuttavia la cosa migliore che si possa pensare degli uomini, e che persino Schopenhauer a tratti concede, che sono animali anch’essi.

Metafisica della vecchiaia
Nel giro di una vita si arriva in verità a sapere, e comunque a capire, di che si tratta. È come se fosse per questo che da quel momento le malattie ti aggrediscono, vengono meno le forze, si diventa vecchi. È come se l’autoconservazione si difendesse e invero essa lo fa spietatamente, mettendoti fuori uso. Quando ormai hai capito tutto, sai quel che c’è da fare, non ti serve più a niente. Anzi, affinché non restino più dubbi, ossia ti venga tolta qualsiasi possibilità di nuocere, muori. Così si potrebbe vedere, nell’economia di equilibrio cosmico, una metafisica della vecchiaia.

Homo vociferans
Una volta il tono di voce modulava ciò che si voleva dire e lo rispecchiava sommesso. Si infletteva verso i toni bassi e il timore stesso si incuteva abbassando la voce. La minaccia si serviva di una voce cupa ma non urlante. Oggi si grida. Solo la voce stridula si fa intendere. Essa rompe il silenzio come se fosse di coccio. Forse per superarne la voce invadente. Trasformata in grido la parola umana si sconsacra e sempre più s’apparenta ad analoghe manifestazioni di altre specie. Se si definisce l’uomo come l’essere che grida si sarebbe oggi più vicini al vero. Ma nello stesso tempo aboliti sarebbero i confini che segnavano le differenze dal miagolio o dal ruggito, dallo squittio o dal barrito. Da questo punto di vista s’annulla, come pare, ogni significativa distinzione. Solo sembra salvarsi il linguaggio come scrittura il cui primato sulla parola vivente si riscatta dalla condanna socratica. La parola parlata decade con tutto il linguaggio attinente. Ma forse il grido in cui essa s’è trasformata è un grido d’aiuto.

Ultima conoscenza
L’uomo della conoscenza sopravvive di un attimo alla catastrofe finale nell’anticipante idea. La conoscenza assoluta è conoscenza della assoluta catastrofe. Poiché tutto dev’essere visto in riferimento ad essa, a come un giorno tutto sarà, l’individuo si porta addosso ciò che niente scongiura. Il fragile ostacolo del tempo, frapposto tra noi e la fine, non tiene conto che il tempo stesso è questa distruzione. Lo sguardo che si poggia su di essa è come se accarezzasse per l’ultima volta ciò che scompare. L’ultima conoscenza è un addio.

Manlio Sgalambro, Cancàn, La Sicilia, 17 gennaio 1988

Cancàn

«Ci si diverte, si applaude / Per tutta la durata dell’opera / Poi cala la tela / E qualcuno viene a dirvi: / Domani nuovi annunci, / Oggi nulla più da vedere / Addio, amici, addio, buona sera / Spegniamo le candele».
— J. Offenbach, Belle Lurette (1880)

Teste ben fatte
L’ammirevole Montaigne ha fatto un uso di se stesso che tutte le teste ben fatte – per le quali, si ricordi, il dubbio è un buon guanciale – hanno amato. I piccoli Montaigne oggi non si contano. La «raison faible» ha seguito. L’impotenza che Montaigne, giulivo e festante, fa pesare sull’individuo, questi l’accoglie di buon grado. Il dubbio circonda come un profumato roseto la zona occupata dall’uomo, affinché niente penetri dell’altra parte né egli vi sconfini. Allora che si aspetta? Dubitiamo, dubitiamo di tutto e ogni cosa ci sarà restituita al doppio (questo ce lo insegnò Descartes).

Scoperte
Nietzsche ha individuato una specie rara di uomini – questo scovatore di tartufi -: i seguaci della conoscenza. Tuttavia egli non arriva fino a proporre un superuomo gnoseologico. Uno che stia 6000 metri al di sopra dell’umano, nella conoscenza.

Il profumo del nichilismo
Il nichilismo è l’ultima carta dell’umanismo perdente (nonché l’attuale look dell’ottimismo). Davanti al troppo senso del «mondo» – che non ha invece alcun senso per esso – l’umanismo avanza il suo «nulla» che riapre tutte le possibilità con una chiave dorata. Qui s’annida «l’azione», levatrice di ogni «senso» umano. Ma il mondo ha il suo che non dipende dall’uomo e da cui questi dipende.

Rettifiche
Nell’unio physica si esautora l’unio mystica. L’unio physica è la dispersione ai quattro venti del cadavere, mediante la divina putrefazione. (Non la morte, come sostengono gli ingenui, ma il cadavere è l’inizio della riflessione).

Dedicato a chi comanda
Perché lo sconfinato rispetto, l’ammirazione per chi comanda? L’ambizione di comandare a propria volta? Ciò che scrive Comte (che pure passa per autoritario) «ogni partecipazione al comando è radicalmente degradante» la condividiamo pienamente. Noi non abbiamo stima per chi comanda. Anzi lasciamo comandare proprio quelli per cui non abbiamo stima.

I veri uomini
Poiché gli animali sono liberi dell’autoinganno – di cui invece risultano schiavi gli uomini – che porta a cercare dietro il mondo un altro mondo, e, nella loro muta devozione a questo sono più mansueti degli uomini, sono essi i veri uomini.

Tempo buono
Come quando, scomparse le nubi, il cielo è più terso e se ne vede la trama cristallina, o, se è notte, questa appare, sgombrato il campo, se è possibile più buia, così quando le grandi distrazioni: fame, miseria sociale e umana, duro lavoro, eccetera, saranno finiti, tutto diverrà più chiaro, e il buio ancora più buio.

Giobbe
Per il «sommo bene politico», secondo la venerabile terminologia del neokantiano Cohen, si veda questo splendido passo tratto da La fondazione kantiana dell’etica. Oggi l’infelice – dice Cohen – non chiede «se l’uomo in generale abbia più sole che pioggia, bensì se un determinato uomo soffra più del suo vicino, e se nella giustizia distributiva del piacere il rapporto calcolabile consista nel fatto che una maggiore quantità di piacere goduta da un membro del regno dei costumi faccia del minore piacere goduto dall’altro un destino logico». Qui il nemico giurato di materialismo e pessimismo unisce il «grigio su grigio» dell’uno al «nero su nero» dell’altro come meglio non si potrebbe.

Tentazione
Si sarebbe tentati di accostare il «tempo perduto» di Proust alla massima di Benjamin Franklin: «il tempo perduto non si lascia mai riprendere».

Romanzo e filosofia
Il romanzo moderno nasce, non più effimero episodio, ma come età, allorquando si spegne l’eco delle grandi filosofie. Che l’epoca protegga col romanzo le sue ragioni, che essa trasferisca nella forma dell’arte le sue virtù, ciò rientra in un quadro più ampio ma non per questo generico. Il romanzo, nell’età che è sua, si installa al posto della filosofia che esso considera esaurita. Il romanzo è la vita che si afferma, la filosofia quella che declina. Lo scarto tra «contenuto» e «forma», tra «stile» e «idea» che vi è tra romanzo e filosofia, è la trappola in cui è presa la coscienza del filisteo che ingurgita dal primo «idee» come miele. La tensione tra stile e idea, toglie alla filosofia la sua aura, perché le si toglie lo stile che è affare, si ritiene, solo del romanzo. In questa forzata catarsi, tra l’altro, l’idea non è più vincolante, è un’idea come un’altra. Così il romanzo rende innocua la filosofia e rientra in quella rabbiosa reazione vitale che tenta di fare risalire la vita al suo selvaggio punto di partenza contro cui la filosofia ha come obbligo di immunizzarla.

Metafora per metafora
Il velo oscuro della metafora si stende su tutto… Il programma demetaforizzante di Mauthner, nel periodo eroico della critica del linguaggio, oscilla tra le necessità di attuarlo a qualsiasi costo e l’impossibilità di poterlo fare sino alla fine. Ma questa tensione, che dà una diversa forza a una critica della ragione che si dovesse presentare oggi con urgenza, dev’essere riportata all’età della catastrofe a cui essa appartiene. Allora l’impossibilità si sconta e se ne riducono all’essenziale i margini. «L’atto di redenzione esisterebbe – scrive Mauthner in Die Sprache (1906) – se si potesse portare avanti la Critica col suicidio silenzioso del pensiero e del linguaggio, se la Critica non dovesse essere portata avanti con parole che posseggono un sembiante di vita». La coscienza di una catastrofe incombente o già avvenuta ha tolto la vita alle parole e le idee sono uno spettro come se riproducessero un mondo che non c’è più. In questo frangente ogni metafora è un pietoso bluff per tenerlo ancora in vita.

Manlio Sgalambro, Nota di servizio, La Sicilia, 3 gennaio 1988, p. 3

Domanda inutile
Il vecchio quesito se la virtù si può insegnare è passato da tempo alla pratica che lo ha fatto a suon di pedate. Da che lo scambio generalizzato siglò la bontà dell’intenzione col denaro, la volontà buona divenne ancora più buona. Oggi i resti del mondo morale si annidano negli interstizi, negli anfratti, anzi nei bassifondi, in cui ancora bene e male rappresentano qualcosa in proporzione al fatto che non si ha null’altro. Nello stesso momento il competente pratica la morale come uno sport dove il recordman lancia più in alto dell’altro mentre in basso la realtà ozia per i fatti propri.

La belle dame sans merci
La donna fatale (o ciò che resta di quanto si chiamò così nel bel secolo) compete col filosofo dei costumi a cui la comprensione dell’individuo sfugge sempre per un soffio. Mentre quella ha capito tutto alla prima occhiata.

Dialoghetto tra semplici
— A: «Non c’è un’essenza del mondo».
— B: «Dica piuttosto che non vuole che ci sia. Non le conviene. E la capisco. Poiché, a quanto dice, essa non può essere Dio, cosa sarebbe questa essenza se non il diavolo?».

Principium individuationis
Dandies, blasés, Übermenschen, eroi, uomini rappresentativi… Dal brulicante genus si distaccano come schegge preziose o come esseri con i quali si torna alla clava. In ogni caso l’individuo, in un’epoca in cui l’individualità s’è estinta, è un fenomeno da baraccone. Come il nano o la buona barbuta.

Città
Vi si cammina con passi che l’accarezzano, delicati come ali di angeli, se la si guarda con gli occhi che hanno visto già la fine del mondo. Si immaginano palazzi e vie scomparsi, e che sterpaglie, erbacce, piante strane e mai viste crescano folte e aggrovigliate al posto che fu suo. Nascono allora, nell’animo, liete canzoni come se si stringesse al cuore l’amata. Le strade melmose sembrano ruscelli di gemme; le crepe delle case nodi per ricordarla meglio.

Neoplatonismo
L’idea del visibile alletta, non ciò che si vede.

Neoempirismo
Il nipotino di Bacone taglia corto col ricorso alla esperienza ogni volta che l’effettiva esperienza, la quale non ne porta scritto in faccia il nome, si fa avanti. Che egli la usi contro lo spirito dell’avo è scontato. Egli è l’erede per il suo contrario, agita le stagnanti acque delle filosofie propiziatrici. Il giovane inesperto scopre qualche inezia senza nemmeno saperlo. Egli lo deve proprio alla mancanza d’esperienza la quale si chiama, in casi come questi, empirismo.

Tartuffe
Il nostro amatissimo ipocrita non ha niente da nascondere. L’ipocrisia gli si legge in faccia in partenza. Egli non riesce nemmeno a celare ciò che la natura gli concesse affinché fosse celato. Lo sappiamo già da quando entra in scena porgendo a Dorine un fazzoletto perché essa si copra i seni traboccanti: «Ah! mon Dieu, je vous prie / Avant que de parler, prenez-moi ce mouchoir… / Couvrez ce sein que je ne saurais voir. / Par de pareils objets les âmes sont blessées, / Et cela fait venir de coupables pensées». La confidenza divertita di Molière che l’uomo è un animale passabile, fatta col sorriso in bocca, non convince a ragione. La possibilità che Tartuffe ritorni alla vera virtù – come essa viene chiamata dai buontemponi – è legata all’ipocrisia stessa, alla sua capacità mimetica. Ma nel dubbio Molière lo fa finire in prigione. L’ipocrita invece può diventare tutto, persino virtuoso. L’ipocrisia non è un «carattere» ma vuole essere la somma di tutti; prelude, cioè, all’odierna fungibilità universale. Si è entrati ora nell’età della modificazione del «carattere immutabile»: si diventa. Molière è precursore: mentre fissa i suoi caratteri (l’avaro, il misantropo, l’ipocrita, il malato…) anticipa in soldoni ciò che sta accadendo. In realtà non ci sono più caratteri o ce n’è uno solo: l’ipocrita.

Bistro
«Non c’è passione che non sia svelata da qualche particolare moto degli occhi», scrive Descartes nel Trattato delle passioni. Cartesiano è l’esame del bistro che Baudelaire conduce nell’Éloge du maquillage – “ce cadre noir rend le regard plus profond et plus singulier, donne à l’œil une apparence plus décidée de fenêtre ouvert sur l’infini”. Ma l’occhio listato a lutto guarda da essa solo un buco nella volta del cielo. Da questa finestra si vede piuttosto la natura femminile. Il nero e il rosso del belletto – dice ancora Baudelaire – rappresentano la vita. Quei segni in realtà danno l’addio all’amato che presto se ne andrà e salutano il nuovo.

Ancora domande
Per chi non ha coscienza civile (o solo insignificanti abitudini) essere grati alla società sarebbe come se si fosse grati al mondo che ci tiene stretti nelle sue grinfie. Insomma nulla dobbiamo alla società come nulla dobbiamo al mondo. Poco ci importa degli altri ai quali si lascia volentieri che tutti si interessino. Non è in questo che consiste l’ethos che ci chiama o quello che la misteriosa parola «bene» circoscrive a meraviglia. Esso oltrepassa noi come gli altri. È uno dei qualsiasi eventi del cosmo – l’alitare del vento, il rotolare di una pietra, la sabbia che si inzuppa d’acqua marina. Non esiste «bene» infatti che non passi attraverso il cosmo e vi si perda come uno dei suoi infiniti moti.

Cultura
La cultura – miserabile nome per l’antico «spirito» in cui sarebbe stato presente, così si sosteneva, lo stesso assoluto ripara ora i guasti prodotti dalla vita, divertendo. Si insiste dunque sul piacere che essa darebbe. Anche l’algoritmo, che contiene la tristezza della qualità, che fa piazza pulita di ogni quintessenza, viene chiamato a fare parte del gioco. Ci si balocca ormai con lo «spirito» stesso che col termine «cultura» si prende in giro da sé senza accorgersene.

Manlio Sgalambro, Caffè viennese, 24 dicembre 1987, p. 3

In un caffè viennese, com’è noto, si parla di tante cose…

All’origine del delitto
Negli interni borghesi fin de siècle, rischiarati con la fiamma a gas, i lungimiranti abitanti si preparano al buio come se questo dovesse essere eterno. Essi accantonano la luce assieme alle provviste in cantina. L’illuminazione a gas segue piano piano le orme della luce del giorno. A prima vista non vi si cela niente di pauroso. Solo si nota qualcosa di sinistro quando prende il sopravvento, a notte inoltrata. Il borghese conduce i suoi figli a vedere i lampioni accesi, come al luna park. Felici i bambini guardano i mille guizzi di luce. Ma presto tutto svanisce. Non c’è più aria di festa attorno alla luce dei lampioni. Al livido lucore appaiono invece Fantômas e Jack lo Squartatore.
L’assassinio, la cui traccia metafisica Poe seguì con tenacia, rappresenta, nella sua chiave ultrasegreta, il modo come tutti moriamo. Il fatto che Poe distingua gli assassini dalle vittime non è che un tributo pagato al progetto letterario in cui è invischiato. Ma Max Bense ha scoperto, in Eureka, che l’assassinio è già contenuto in quello che Bense stesso chiama il “principio ontologico”: «Nell’unità originaria della cosa prima, sta la matrice di tutte le cose e… la predisposizione al loro inevitabile annientamento». In ciò il segreto della morte è svelato in collegamento al delitto: tutti moriamo assassinati.

Fine della favola
«Così va il mondo» – con queste parole si conclude una favola dei Grimm e smentisce malinconicamente la favola. Castelli incantati, streghe e fatine, gnomi e animali parlanti, tutto sparisce alla fine e resta il “mondo vero”. «Tuttopappato, aveva già sulla lingua il povero topo; come gli uscì di bocca il gatto fece un salto, l’afferrò e ne fece un boccone». Così, nel mondo della favola, finisce come nel mondo vero. Non è nel mondo vero, infatti, che il lupo muore ammazzato e Cappuccetto Rosso torna a casa, come tiene a dire il bonario favolista, “felice e contenta”?

Animo di filosofo
La cupezza dell’animo, quella profondità tenebrosa che Tacito ritrova nel tiranno, è pure, ma ciò forse non è strano, nel filosofo che nessun altro male commette che il male della conoscenza. Eppure attraverso questa si raccolgono, e vi si danno ricetto, malvagità e tradimenti. Da questo demone egli è perseguitato e deve seguirlo anche nel peggio. La crudeltà del conoscere non risparmia quegli esseri di cui egli deve incalzare le speranze che nascondono, come bambini, nei luoghi più impensati. Il male della conoscenza straripa oltre gli effimeri limiti attraverso cui si proteggono beni e affetti. La luce che si vuole spanda attorno a sé la ragione non illumina solo prati ridenti, gai animali che giocano o esseri umani che si rotolano abbracciati. Questa stessa luce che li illumina, li brucia.

Ospedale di notte
Negli ultimi momenti della vita, qualcosa allontana per sempre dai teoremi solenni, dal finalino sublime. Gli occhi cadono invece sulle cose più fruste e si assiste alla propria fine in un rozzo ospedale contemplando dei luridi calzini.

Quando parla il filosofo…
Dietro ogni idea che espone si cela sempre qualcosa di imperioso, un “tu devi pensare così” che rende gli altri superflui. L’ambizione di un pensatore è di dare tutte le ragioni. Ma non ci si inganni, perché questo equivale a dire: “tu non ne troverai altre; ho fatto già tutto io”.

Hoppla, wir krepieren!
L’aculeo della morte, come stato d’animo di ciò che avveniva in definitiva dell’individuo, è ormai spuntato. Scomparso è pure (segno che il morente ha perso già ogni valore) il nuncius mortis, colui che lo avvertiva con garbo, secondo i dettami di una buona ars moriendi. Il termine morte si riferisce nostalgicamente al tempo in cui l’uomo poteva dirsi veramente vivente. Oggi l’individuo viene distrutto. Nessun altro termine indica più di questo la crudele aggressività di ciò che si scatena contro di lui: per dir così la ferocia con cui qualcosa lo calpesta e ne fa scempio. Nessuno più muore, dunque; nessuno approda più a questa mitica pace.
«Il morente non ha più status, perché non ha più valore sociale», asserisce uno storico della morte. Al contrario: chi muore è ormai solo un rapporto sociale. Chi muore cade nell’assoluta disponibilità degli altri che lo artigliano col ricordo e ne fanno quello che vogliono. Diventa una rappresentazione dell’altro. La morte dimostra anzi che lo è sempre stato. La ferocia del socius si può allora mostrare assieme alla pietas. L’ironia della proustiana Recherche si nota quando Proust collega l’immagine di chi fu, al sapore di un biscotto o al tintinnare di un cucchiaino ai bordi di una tazza. Qui si ride di Platone. Subentra allora la miseria del ricordo in cui si dovrebbe ritrovare per sempre. Ma ne La prisonnière, descrivendo la morte di Bergotte, Proust è per un momento tentato: «il pensiero che Bergotte non è morto per sempre… non è completamente incredibile». Più esatta è la risposta che gli fu data a suo tempo: «Banquo è seppellito; non può uscire dalla sua tomba». In realtà Bergotte è morto sin dal momento in cui non esiste più che per gli altri. La consolazione evocata per un momento da Proust, perde ogni appiglio: niente può consolare della morte e la morte non può consolare di niente.

Prodigi
Quando la spinta vitale s’è ridotta al minimo, c’è più spazio, au fond, per la filosofia. In tali circostanze non si descriverebbero però – si obietta – la vita für ewig, la sua struttura, il modo come funziona, ma una vita circoscritta dalle particolari condizioni storiche espresse dai tempi “disperati e infelici” seguiti al fallimento di queste o quelle speranze. Quando infatti dai semi di zucca nasceranno manzi sarà differente.

Manlio Sgalambro, Piccoli pezzi per piccola estetica, La Sicilia, 16 dicembre 1987, p. 3

È stata sempre la bruttezza del mondo a dare una mano alla bellezza dell’arte. La bellezza prova che un mondo diverso era possibile; solo che non lo è più. Nell’arte entra tutto ciò che esiste ma privo di esistenza e la vita, in essa, è altra da quella che passa per tale. L’infelicità e il dolore, consueti nell’arte, non sono quelli che la realtà infligge ma evocano qualcosa che li fa apparire persino desiderabili. Chi non ha sognato qualche volta di essere Werther, Raskolnikov o Anna Karenina? Su loro si abbatté il destino, ma esso era di carta.

Di Kafka non si dovrebbe parlare. La sua opera attende ancora che sia rispettato il divieto che ne emana ma che non venne eseguito. Essa invece è preda degli interpreti, in proporzione al suo presunto enigma. Là dove richiederebbe una critica apofatica che dicesse solo ciò che non è. Leggere fissando con occhi sbarrati le righe e ammutolire: così si dovrebbe accostare. «Io non lo leggo per leggere, bensì per riposare sul suo petto», dice Kafka di Strindberg. Che confidente abbandono! Ma questa intimità con Kafka non è permessa. Qualcosa ammutolisce a non tentarlo e punisce il temerario. Distillarne pensieri, strappargli filosofemi, cozza contro la stessa morbidezza del testo che non lo concede perché lo concede troppo. In Kafka non si trovano pensieri e la stessa realtà è come scomparsa da tempo. «Io percepisco le cose in rappresentazioni così labili – si legge in Descrizione di una battaglia – da credere che esse siano un tempo esistite e che ora precipitino». Ma lo stadio di disfacimento dà come un impulso alla conoscenza. Lo stato di sfacelo delle cose lascia intravedere l’in sé, che la loro buona salute occultava.
Per i cercatori di pensieri, una scialba raccolta di aforismi ne dice la misura. Qui stesso si parla del male in contrasto col grandioso concetto che invece v’è nella sua opera. «Il male – vi si dice – è una emanazione della coscienza umana… Non tanto il mondo sensibile è parvenza, bensì ciò che vi è in esso di male». Il male sarebbe dunque la causa, soltanto umana, della parvenza del mondo. Ciò urta contro il senso della sua opera secondo cui il male è piuttosto al di là dell’umano. Tenersi stretti a essa protegge dallo stesso Kafka. Se l’opera di Kafka accenna a un ordine teologico, questo è privo però del requisito essenziale che lo vuole legato al Bene. Solo per un soffio esso non è la forza malvagia stessa. Ma benevolo lo stesso Kafka ci dice: non è altro che arte, arte e nulla più.

Ogni introduzione alla poesia ne conduce fuori. Questo movimento indicherebbe una sorta di trascendenza, o piuttosto la tensione suicida al di là di sé stessa. La foia del poeta per la vita è pure conosciuta. Egli non si appaga del suo marmo. Parlare dunque di poesia sarebbe parlare d’altro. Persino di una concezione del mondo. Come se questa valesse di più che avere restituito una sensazione alla sua legittimità.

La furiosa vita il cui impulso, la brama grandiosa, segnano le epoche di grandezza nelle quali la vitalità travolge ogni rapporto e si installa nella sua potenza febbrile, si spegne oggi progressivamente in rapporti assodati, come nelle cose. Gli stessi punti nei quali prima la vita segnava col suo pulsare i luoghi della sua presenza, si avviano verso un’apatica discesa. Una stanchezza totale avvolge il suo lento disporsi nelle forme che l’imprigionano e la neutralizzano. Là dove essa per momenti rivive, ha l’andamento del soprassalto, del tumultuoso furore. Sempre più, dove essa ancora si manifesta, si manifesta solamente come guizzo, come si presenta tutto ciò che sta per finire. L’arte diventa così un privilegiato momento, un’estasi in cui avviene come un’unione con le cose, come un ultimo abbraccio. Essa ci risparmia così la religione e le sue tristezze.

In poesia si vive una volta sola: guai alle poesie che si ricordano. La buona poesia si consuma in un istante. Un attimo dopo non c’è più.

Una metaforizzazione totale incombe sul mondo. A essa la cattiva poesia dà volentieri una mano. Un idealismo di patetiche immagini si fa sotto compunto; un sottile cristallo che la realtà onnipotente rompe toccandolo appena. Come Loos vede da lontano l’era degli oggetti lisci e denuncia l’ornamento come delitto, così la metafora è l’attuale delitto contro l’umanità commesso, come si sa, per spirito umanitario. Le metafore poetiche e quelle dei linguaggi urbani si intrecciano e si confondono nella fantasmagoria quotidiana. Come nelle più viete filosofie che imboccano la “terminologia filosofica” come ultima ratio, così il “linguaggio poetico” viene rifilato all’inquilino della terra promessa.

Non si propongano metafore – questi concetti vergognosi di sé stessi. Forse il poeta pensa che così infonde linfa a qualcosa di inerte? È il solito equivoco sulla vita? O forse non sa cos’è un concetto – i suoi echi, le sue sonorità… – che appare grigio solo in superficie?

È nel momento in cui il flusso della vita si arresta che si fissano come si deve gli occhi clandestini del poeta. La contemplazione, alla quale una volta furono elargite candide visioni, è ormai sola a mostrare ciò per cui il vivere ostile non dà tempo. Essa non è che lo sguardo impietrito di chi si ferma a guardare invece di passare oltre; lo sguardo reso immobile da ciò che vede. Ogni poesia è un arresto e il gesto di allinearlo non mira au plaisir du texte ma dispone a vedere essenze come manciate di fiori.

Una poetica che si controlla impedisce l’intrusione della «creatività» là dove i giochi sono fatti. Essa segna il punto in cui l’intelligenza si disfa beata. Non prepara alla «catarsi» del filisteo ma a una quieta dissoluzione.

Non ci interessa cosa pensa il poeta, ma il mondo delle sensazioni che si arricchisce, questo ci interessa. Attraverso parole, sentire, palpare con sensuale ma inequivoco tatto le cose. L’atto infine misterioso del vedere si impadronisce di ciò che ha attorno. Uno splendido sguardo si dirama su tutto, ma come umiliato come se non volesse. Chiunque aggiunga del bello a questo mondo è colpevole.

Manlio Sgalambro, Serietà e gioco questa è la vita, La Sicilia, 12 dicembre 1987, p. 3

Che in un simile mondo si possa giuocare risulta a prima vista incomprensibile. (Mentre, che tutti lo capiscano, non depone a loro favore). Nel giuoco infantile c’è una sorda cupezza, un tacito riconoscimento che consegue a un incipiente rimorso. Attraverso il destino che incombe su ogni joujou – presto giacerà distrutto – si rivelano la futura ferocia dell’innocente e la incommensurabile serietà del mondo. È come se il bambino lo sapesse. Così seriamente egli giuoca. Strano che il mistero del giuoco, che ha sempre evocato ardite ipotesi, sia tutto qui. Si leggono, lo si ammetta, infinite cose nei gravi gesti del piccolo giuocatore. Oggi, con il giuoco, si vorrebbe compensare il rapido venir meno della vitalità per la quale, come un pupazzo a molla, l’individuo, dall’infanzia alla vecchiaia, si scaricava una volta quasi senza bisogno di motivi.
La vita odierna passa invece attraverso una coazione a riflettere. Attraverso la quale perde, finalmente, lo slancio. Essa si rattrappisce quasi che l’immane corrente si riducesse a un fioco rigagnolo. Nelle grandi istituzioni ludiche gli individui sono rimessi in sesto, come in immense officine, pronti per un’altra volta. Poi si vedrà. Il giuoco, dunque, è l’astuzia della vita per perpetuarsi. Si lascia giuocare per tanti anni il bambino – anche se con un senso manifesto di imbarazzo, con un fastidio interno che l’adulto a volte prova inspiegato (e trapela in certe oscure proibizioni) – perché la continuità tra giuoco e vita si mantenga il più a lungo possibile. Così ci immette alla vita col piede ancora alzato, come se si stesse correndo.
Ma un’altra spiegazione è possibile: giuocati dalla vita, gli individui vorrebbero rendergliela per le rime: per questo giuocano. Si entra qui nel mistero della serietà. L’immutabile aspetto di animali e cose è in contrasto col mutamento continuo delle fisionomie. Anzi c’è volto perché rapidamente esso muta. Ma della serietà è venuto ormai il tempo. È come se si avvertisse inoltre, almeno in certi spiriti, una repellenza per il riso attraverso cui il volto si disfa e si intravede il teschio. Nel riso irrefrenabile è concentrata l’insofferenza per l’altro, per il nostro simile, del quale, sempre in guardia, sorprendiamo con esso l’attimo che ce lo dà in mano. Nel riso si rivela che non c’è «prossimo» ma che si è tutti «lontani». Ma qui sta la differenza tra giuoco e riso. Là dove si giuoca, si giuoca seriamente. L’ammonimento di quel filosofo che troppo serio è il mondo perché si giuochi, va tuttavia raccolto. Lo sguardo di quegli spiriti che si fissa sul cosmo e che lì vede il suo posto, e perciò la sua nullità, è confutato dallo sguardo che si impone imperioso solo guardando.
Ma questa serietà e il giuoco della vita non contrastano. Cosa sia però la serietà ha ricevuto meno risposte di quante ne abbiano avute giuoco e riso. S’inclina in essa a considerare, si potrebbe dire presente in ogni attimo, l’evento funesto che diede luogo alla vita stessa. Si vive, sì, ma è un pensum, un triste tema e si continua solo a svolgerlo straccamente. La serietà suppone che qualche grave fatto sia accaduto e s’annidi nel passato. Esso magari non si ricorda o è come se in un solo istante affiorasse e nel medesimo tempo fosse liquidato. Ma in realtà, invece, si installa in noi come quel corvo sul pallido busto di Minerva. L’antitesi che era parso intravedere tra serietà e giuoco tende così a svanire. Ma solo quando il giuoco sia serio come nel bambino, o come in chi segue il corso della pallina con la pistola pronta. Allora sì, allora la serietà e il giuoco della vita fanno tutt’uno.
Alla serietà appartiene la cupezza come un altro suo aspetto. In essa ci si carica di qualcosa che sfugge a definizioni precise: qual è esattamente il peso che grava su noi? Di quale delitto ci si è macchiati? «Il maggior delitto dell’uomo è essere nato»: così ci fu detto con la sobrietà che merita. È questo dunque il fondo di tutta la faccenda. Qui convergono tutti i raggi che si dipartono, perciò, da un unico punto. Ecco perché si diffida normalmente della serietà. Qualcosa di cupo, come si è infine capito, è presente in essa. Il volto dell’uomo serio raggiunge quasi la fissità dell’animale o l’aspetto uniforme di una cosa. Come se perciò si fosse tradito il resto degli uomini. O si seguisse un destino a parte. Nella serietà e nella cupezza, fino all’ultimo istante, v’è come un giudizio di estrema condanna. Infine è come se la vita stessa si mostrasse. Perciò si scappa via da chi sfoggia, senza pudore, questo gravame, e il delitto dell’essere nati gli si legge in faccia. Ma anche un senso di indignata vendetta sembra trapelare da colui sul volto del quale s’è fissata l’orribile maschera. Serietà e giuoco della vita: è questo, e nulla più.