Il mistero del filosofo

Manlio Sgalambro
ℹ️ La Sicilia, 4 dicembre 1988, p. 3 (Meditazioni provinciali)

A Gesualdo Bufalino

Il mistero del filosofo è tale che un numero incredibilmente piccolo di individui lo conosce. Egli è pacifico, con l’aria di un conciapelli in vacanza – per via della duplicità delle sostanze – eppure i segreti del mondo passano per le sue mani. In effetti egli non sa più di quello che sanno gli altri, ma lo sa. Sempre per via della duplicità delle sostanze, con una è installato solidamente nella condizione con l’altra vede enti ed essenze, sogna tigri e lotte di ghepardi, regressi e momenti cruciali, istanti e punti nello spazio. Tecnico e artista della filosofia, non può rinunciare a nessuna delle due cose.
La filosofia è la carta su cui essa è scritta? A maggiore ragione egli richiederà il possesso della tecnica per maneggiarne i concetti e l’arte per farne sentire i suoni. Il filosofo non incoraggia alla verità. Sdegna quegli intelletti che si spingono sino a un poema, mugolando di piacere, ma non sanno sillabare Apparenza e realtà. Essi ne ignorano i turbamenti. Ma questa ignoranza sembra al filosofo ubbidire a un disegno intessuto appositamente per perderli. Nei suoi incontri egli prende vie traverse, lontane dalla verità. Egli sa che da qui alla verità c’è un passo, ma impegna gli altri in percorsi estenuanti, in mille giri su se stessi perché cadano lungo la strada, e alla fine, chi arriva, sia sempre al punto da cui è partito e ricominci daccapo. Gli sembra che proprio la facilità della verità richieda procedimenti difficili, metodi di verifica convulsi, prove laboriose, vite sacrificate.
La filosofia deve cominciare con la pratica e finire con la teoria, egli insegna. Non secondo l’uso invalso. Porsi dapprima i problemi della specie sino a nausearsene e quindi contemplare – con durezza. Per la sua avversione ad una visione aspramente teorica, cioè sovrana ed indipendente, Kant non è affatto da lodare, egli commenta.
Ad un tratto sopravviene la naturalis propensio e dà luogo a un uso farneticante della ragione. La morale è soltanto una macchia nella limpidezza del fato, nota invece il filosofo. La pratica, solo una debolezza della teoria. «Io sono per natura un ricercatore – legge in Kant – un esploratore. Ho sete di sapere e provo l’arida irrequietezza di spingermi sempre più oltre. Vi fu un tempo, in cui credetti che tutto questo potesse formare il vanto dell’umanità e disprezzavo il volgo, che non sa nulla. Rousseau mi ha messo sulla buona via. Questo abbagliante privilegio ora scompare; imparo a onorare gli uomini e mi crederei molto al di sotto di un operaio volgare, se non credessi che questa considerazione può dare modo a tutti di stabilire i diritti dell’umanità».
No, il filosofo non lo loderà per questi pensieri. Né per questi altri loderà Goethe: «Oh, quanto amore per questa classe di uomini che si dica bassa… sono tornato a sentire. In essa si trovano riunite tutte le virtù, sobrietà, sano criterio, fedeltà, innocenza, tolleranza…». Era fatale che da questi incroci ne uscisse non la tanto vantata “critica” ma una volgare apologia della pratica, questa virtù da mandriani.
Non amo così tanto gli spiriti liberi quanto quelli legati dice il filosofo. L’uomo “libero” lo aduggia. Dal suo diario di conoscitore trae vecchie impressioni. La rasano di Giovanni che sfiora appena il piedino di Cordelia farebbe trionfare sul possesso del corpo quello dell’anima che subentrò, con le finesses cristiane, alla schiavitù. Il vero piacere, quello di essere padroni di un corpo, si è spento con essa, che si crede finita. I nostri simili confidano, osserva il filosofo, che non ci siano più schiavi da liberare mentre ogni loro rapporto è in realtà schiavitù dissimulata. Questa schiavitù invisibile la vedranno un giorno tutta di colpo – egli aggiunge – e torneranno all’altra che prese il corpo a staffilate ma lasciò l’anima libera e pulita.
Cose profondamente, sinceramente sentite non si addicono al filosofo. Egli agisce in uno spazio in cui la sincerità non lo segue.
La sincerità mostra tutta l’angustia dell’uomo. La riflessione oltrepassa ciò che un individuo può sciorinare e se lo porta con sé chi sa dove. Un individuo “sincero” dirà solo ciò che “sente”, misero lui. Serve, cioè, la sua bramosia di mettersi a nudo. Di fare vedere le sue cosine. La riflessione invece scioglie gli ormeggi e vola e il filosofo è tutto fuorché franco e leale.
Il filosofo sente l’ira invaderlo ma la trasforma in oggetto di conoscenza. Essa dura affinché egli la esamini da tutti i lati. Così essa continua ma ormai non mira a nessuno quanto a persistere per potere essere studiata. Il suo oggetto è ormai solo un’occasione per uno stato d’animo che richiede attenzione per così dire spassionata. Essa dura dunque il tempo necessario a essere conosciuta. Gli sembra che questo sia il retto uso dell’ira. Anche la libidine altera speso il suo stato. Il filosofo avverte questo bruciante calore avvampargli le membra, ma anche qui la conoscenza prevale.’ Sembra che egli la provochi per soddisfare una qualche più oscura passione. Sfida i suoi sensi per osservare le mosse, per carpirne il segreto. Dà in pasto la passione alla conoscenza.
Così le passioni sembrano asservite, ma in realtà egli finisce per esaltarle perché possa corrispondervi una conoscenza più intensa. Risulta evidente la perversione del filosofo. Alla fine egli non sa se è conoscenza o qualcos’altro. Ma sa l’impossibilità di districarsi. Perversione si può chiamare la smodatezza nel conoscere che lo spinge; questa incapacità di sottrarsi al vizio, la frenesia che lo fa persistere negli stati d’animo anche più spiacevoli per ricavarne ancora una sensazione di conoscenza.
Solo dopo anni il filosofo capisce che non si “perviene” alla conoscenza e la vanità dei suoi sforzi, ma che essa è il proprio destino. (Rimprovera a Descartes il termine “innato” non rendendo esso qual che di cupo e fatale c’è in fondo a ogni “idea”). Conoscerai ciò a cui sei destinato, egli dice. Sebbene lo ritenga strano, da questa oscura radice zampillano inenarrabili chiarezze. Ma poiché egli non è che un elisabettiano – quindi meno di un moderno – è ancora preda di astri. Tu non hai che una sola conoscenza: non sprecarla, insegna. Conosci dal tuo posto, continua. Inutile sognare altre condizioni o la migliore di tutte. Conosci dal tuo posto. Un colpo è la conoscenza e un altro è il risultato. Ci sarà un posto migliore – ma questo è il tuo.

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